8b) un’esigenza di stabilire delle regole del gioco, per definire come possa
svolgersi la cooperazione / competizione tra interessi diversi;
c) una serie di conseguenze, positive e negative, che possono derivare al
soggetto stesso a seconda delle modalità con le quali decide di
affrontare il conflitto tra i propri interessi e quelli di altri soggetti.
Lavorare è quindi un’opportunità di addestramento alle differenze e al
modo di elaborarle quando è necessario interagire con altri, in vista di un
risultato che può venire soltanto da qualche forma di coordinamento
sovraindividuale. Lavorare richiede di erogare un’attività, commisurata a
determinati criteri che definiscono le soglie di accettabilità della
prestazione in relazione alle regole dell’organizzazione cui il soggetto
appartiene. Tale richiesta di fornire una prestazione tramite l’erogazione di
attività è una possibile causa di conseguenze negative per il soggetto:
molte organizzazioni fissano le soglie ad un livello tale che l’esplicazione
dell’attività prevede necessariamente carichi di lavoro dannosi per
l’integrità del soggetto.
Ciononostante, non va dimenticato che nel nostro sistema sociale l’attività
lavorativa è l’ambito della vita in cui troviamo forse le maggiori potenzialità
di sviluppo delle abilità del soggetto: nel tentare di rispondere alle
esigenze legate allo specifico lavoro, il soggetto può ampliare il proprio
bagaglio di abilità imparando ad affrontare compiti diversi di natura
tecnico-pratica (svolgere per la prima volta un’operazione), cognitiva
(ristrutturare rappresentazioni della situazione o strategie
comportamentali), sociale (apprendere modalità di relazione e di
interazione non sperimentate in precedenza).
9Questi aspetti — interazione sociale variegata, confronto con scopi
extraindividuali, apprendimento di risposte efficaci a richieste ambientali —
non appartengono esclusivamente all’ambito lavorativo. Ciò che rende il
lavorare un ambito particolarmente interessante per gli psicologi è il fatto
che dimensioni così importanti per l’assetto psicosociale del soggetto si
trovino riunite nel luogo fisico e psicologico che è il lavoro organizzato.
Va aggiunto, inoltre, un classico correlato psicosociale dell’attività
lavorativa: il suo legame con lo status e l’identità sociale. Nella nostra
struttura sociale, il fatto di lavorare oppure no può produrre notevoli
differenze nella collocazione sociale di un individuo per i significati che egli
vi attribuisce: se un uomo adulto non ha un’occupazione, è richiesta
normalmente una qualche giustificazione socialmente accettabile.
La prova più convincente dell’importanza del lavoro viene proprio dagli
studi sulla disoccupazione: il peggior male che ne deriva è forse
l’impressione della persona di essere inutile, indesiderata e priva di stima.
L’uomo lavora sia per sentirsi utile e necessario che per arrivare ad avere
una posizione socialmente apprezzata. Molti amano il proprio lavoro sia
per una predilezione intrinseca verso una particolare attività, sia — in
maggioranza — per motivi associati direttamente alla sua esecuzione ben
riuscita, non necessariamente per il compenso materiale, poiché sono noti
casi in cui il soggetto è soddisfatto del lavoro, ma non della retribuzione, e
viceversa.
Se in passato la rappresentazione soggettiva del lavoro si fondava più sul
bisogno, la doverosità e il diritto, ora l’immagine più frequente fa
riferimento allo status sociale legato al lavoro svolto, alla propria
realizzazione e soddisfazione personale: la motivazione è, quindi, un
fattore di attrazione che dipende da processi psicologici sociali complessi.
Tra le forze motivanti si possono includere la carriera, lo status sociale, il
riconoscimento, il perseguire obiettivi di qualità, la soddisfazione.
Se un tempo si poteva far leva sul bisogno, oggi per motivare è più
opportuno tenere in considerazione il desiderio. Secondo Spaltro (1990),
per bisogno si intende un sentimento di mancanza, accompagnato da una
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prefigurazione o aspettativa di tipo negativo; viceversa, nella dinamica del
desiderio prevale uno stato d’animo positivo.
Le trasformazioni radicali degli ultimi trent’anni, a livello tecnologico,
economico, culturale e sociale, non solo hanno modificato in profondità
l’assetto organizzativo, le culture e gli stili di gestione delle grandi imprese,
ma hanno anche inciso sui valori, sui modelli di comportamento dei singoli
all’interno delle organizzazioni e sull’attribuzione di significato
all’esperienza lavorativa. Non sorprende, pertanto, che, a partire dalla fine
degli anni ’50, le scienze sociali abbiano evidenziato a livello
internazionale un crescente interesse ad indagare la motivazione al
lavoro.
La sequenza motivazionale di Locke
D’altronde, tale campo è divenuto confuso nelle passate decadi: la ragione
principale di ciò è stata una pletora di teorie e la pochezza di paradigmi
per integrarle. Locke (1991) indica come causa fondamentale della
difficoltà dell’integrazione il fatto per cui la maggior parte di tali teorie
riguarda aspetti differenti della sequenza motivazionale. Egli propone sette
fasi, ad ognuna delle quali è applicabile, almeno indirettamente, la
volizione.
In un recente studio sui concetti teleologici, Binswanger (1991) ha
dimostrato che le persone possiedono la volizione, ovvero la libertà di
pensare o non pensare.
Secondo tale autore, l’azione diretta da obiettivi è definita da tre attributi:
1. Autogenerazione: la fonte dell’energia è integrante all’organismo.
2. Significanza del valore: non solo le azioni rendono possibile la
sopravvivenza dell’organismo, le sono necessarie.
3. Causazione dell’obiettivo: l’azione risultante è causata da un obiettivo.
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Poiché l’azione intenzionale negli esseri umani è volitiva, le persone
devono scegliere di scoprire che cosa è utile al proprio benessere, fissare
degli obiettivi per raggiungerlo, scegliere i mezzi per conseguire questi
obiettivi e decidere di agire sulla base di tali giudizi. La teoria del goal
setting di Latham e Locke rientra nel dominio dell’azione intenzionalmente
diretta: se, a parità di abilità e conoscenza, alcuni soggetti hanno
prestazioni lavorative migliori rispetto ad altri, la causa è motivazionale.
La sequenza proposta da Locke (1991) comincia dai bisogni, ovvero ciò
che è richiesto per la sopravvivenza e il benessere dell’organismo.
Nell’essere umano operano sia le funzioni vegetative che quelle sensoriali,
ma vi è un livello ancora più elevato di autoregolazione, quello
concettuale, non automatico, bensì volitivo: la ragione è il mezzo
principale di sopravvivenza per gli uomini. Poiché la ragione non dice
automaticamente alle persone che cosa è giusto o sbagliato, essa
confronta le persone con la responsabilità di validare la propria
conoscenza. Tuttavia, le persone possono venir meno a questa
responsabilità e non esercitare lo sforzo che il pensiero richiede, e persino
se pensano possono commettere errori e scegliere obiettivi che non
favoriscono la loro vita e il loro benessere. Come risultato del non-sforzo o
dell’errore, le persone possono dubitare dell’efficacia della propria
conoscenza. Allo stesso tempo, possono aver bisogno di sentire che la
loro mente, il loro mezzo di sopravvivenza, è efficace. Non possono
tollerare la convinzione di essere fondamentalmente inadatte a vivere.
Pertanto le persone hanno bisogni psicologici e fisici. Il più fondamentale
di questi è l’autostima, la convinzione che si può contare sul proprio potere
di pensare.
Benché l’esistenza dei bisogni spieghi perché gli uomini iniziano
determinate azioni, essa non spiega affatto in che modo gli uomini
compiano certe azioni, perché le compiano quando non lo desiderano,
oppure perché non le compiano quando lo desiderano. Che l’uomo abbia
determinati bisogni è un fatto biologico: il modo in cui li soddisfa è un fatto
sociale e culturale. Il comportamento umano non può essere compreso
12
esclusivamente in base alla soddisfazione o alla frustrazione degli istinti
biologici, perché la vita sociale genera nuovi bisogni, potenti come quelli
biologici originali o anche di più. Per fare un esempio, il bisogno di
riconoscimento, di sicurezza e il sentimento di appartenenza, secondo
Mayo, sono più importanti nel determinare il morale del lavoratore e la sua
produttività di quel che non siano le condizioni fisiche di lavoro.
I bisogni operano ciclicamente: non sono mai soddisfatti
permanentemente e la loro frustrazione è vissuta come dolore, disagio o
malattia. Le persone possono intraprendere azioni anticipando i bisogni
(se questi sono conosciuti), prima che essi diventino causa di sofferenza,
ma anche se le azioni sono, in ultima analisi, motivate da bisogni, esse
possono non condurre alla soddisfazione dei bisogni (a causa di errori e
irrazionalità).
Un dato bisogno può condurre a molte differenti azioni, così come una
data azione può derivare da più di un bisogno.
Deci (1975) ha proposto una teoria dei bisogni secondo la quale le
persone hanno bisogni innati di competenza e autodeterminazione,
mentre Binswanger (1991) ha mostrato l’esistenza della volizione.
L’autodeterminazione sembra riferirsi al bisogno di esercitare la scelta di
pensare o non pensare: ciò è vero, ma in un senso molto più profondo di
quello di Deci. Le persone hanno bisogno di scegliere di pensare in modo
da vivere; ciò è vero a prescindere dal fatto che un individuo sia motivato
intrinsecamente o estrinsecamente, dato che la volizione non può essere
distrutta dagli incentivi monetari. Anche il bisogno di competenza ha un
elemento di validità in quanto le persone hanno bisogno di sentirsi
competenti, ma la competenza fondamentale è vivere; ciò richiede che si
utilizzi produttivamente la propria mente, il che significa utilizzare la
propria capacità di autodeterminazione (pensiero) per guidare l’azione.
Pertanto, i due bisogni di Deci in realtà sono due facce della stessa
medaglia.
13
La seconda fase della sequenza motivazionale di Locke è costituita dai
valori. Le persone devono scoprire la conoscenza necessaria alla
sopravvivenza, incluso un codice di valori per guidare le loro scelte ed
azioni. I valori sono ciò che le persone vogliono o considerano utile al loro
benessere, sebbene la prova ultima di cosa costituisca un valore per la
persona risieda nelle sue azioni. Contrariamente ai bisogni, di cui le
persone possono essere o no a conoscenza, i valori sono in coscienza;
non sono innati, ma acquisiti.
I valori possono essere considerati come il legame privilegiato tra i bisogni
e l’azione, sebbene non l’unico. Essi colmano la lacuna tra ciò che è
richiesto per vivere e quello che la persona fa realmente.
La terza fase della sequenza riguarda gli obiettivi, che possono essere
considerati le applicazioni dei valori alle specifiche situazioni. La teoria
dell’aspettativa cerca di trattare la specificità situazionale passando
direttamente dalle valenze (e strumentalità) all’azione; la teoria degli
obiettivi inserisce una fase intermedia, ovvero quello che la persona
cercherà di fare o intende fare in quella situazione, cioè la specifica mira
dell’azione. Si ipotizza che gli obiettivi riflettano i valori personali secondo il
modo in cui si considera che questi ultimi, consciamente o
subconsciamente, riguardino la situazione.
Le componenti della quarta fase, l’aspettativa e l’autoefficacia, incidono
sugli obiettivi che le persone scelgono, ma hanno anche potenti effetti
diretti sulla prestazione. Sebbene queste siano credenze anziché concetti
di valore, hanno importanti conseguenze motivazionali e sono
situazionalmente specifiche, proprio come gli obiettivi e le intenzioni.
La quinta fase è costituita dalla prestazione. La teoria dell’attribuzione di
Weiner si focalizza sulle attribuzioni che le persone fanno sulla loro
prestazione e sul modo in cui tali attribuzioni incidono sulle emozioni ed
azioni susseguenti. Bandura ritiene che le conseguenze sulla prestazione
dovute alle attribuzioni siano il risultato del modo in cui esse influenzano
l’autoefficacia.
14
Le persone possono vivere i premi e le punizioni, la sesta fase della
sequenza motivazionale, come conseguenze delle loro azioni o
prestazioni. Specificare gli effetti delle ricompense sull’azione seguente è
stato il dominio della modificazione del comportamento e della teoria del
rinforzo, ma i meccanismi sono cognitivi: ad esempio, i premi sono
rinforzanti se danno qualcosa che vale per la persona e se la persona si
aspetta le ricompense in simili occasioni future.
Anche la teoria dell’equità di Adams (1965) si focalizza sui premi,
soprattutto sul grado in cui le persone li ritengono equi, affermando che la
maggior parte della gente apprezza l’equità o la giustizia, e delineando il
modo in cui le persone decidono che cosa è giusto o ingiusto, cioè il
rapporto di input e output confrontato con i rapporti di altri significativi.
L’ultima fase della sequenza è la soddisfazione. La teoria degli obiettivi e
la teoria sociocognitiva considerano entrambi gli obiettivi non solo come
oggetti o esiti a cui mirare, ma anche come standard per valutare la
propria prestazione. Pertanto il successo nel conseguire l’obiettivo
conduce alla soddisfazione di sé e il fallimento all’insoddisfazione di sé.
Più in generale, le risposte emozionali sono viste da Locke (1976) come la
forma in cui la persona sperimenta giudizi di valore automatici e
subconsci. Se un oggetto, un esito o un evento è considerato favorevole
per i propri valori, si vive un’emozione positiva, l’opposto se la situazione è
ritenuta minacciante o denegante i propri valori.
Locke considera i legami tra gli obiettivi, l’autoefficacia e la prestazione
“il fulcro della motivazione”, il luogo in cui avviene l’azione. Appare ovvio
che queste teorie del fulcro necessitino di un maggiore sviluppo, ma i loro
principi fondamentali possono essere usati come basi per favorire ulteriori
conoscenze.
Locke indica come nucleo della motivazione i valori individuali. Mentre i
bisogni costituiscono il punto d’avvio della motivazione, essi non
differenziano tra loro le persone, che hanno tutte gli stessi bisogni
fondamentali. Ciò che rende una persona unica e guida le sue scelte e
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azioni reali sono i suoi valori, che sono anche la chiave dell’identità
personale: più sono sviluppati, integrati e intensamente considerati, più
forte è il senso di identità di una persona. Va inoltre notato che i valori
hanno una stretta relazione con i premi. I valori di una persona
determinano ciò che essa considererà ricompensante.
Confrontando i numerosi modelli riguardanti la motivazione, emerge una
distinzione teoricamente rilevante fra teorie centrate sull’individuo e
teorie centrate sull’organizzazione. Le prime sono rivolte a spiegare
l’insieme delle forze motivazionali che si originano nel singolo soggetto,
per poi trovare nella situazione lavorativa la possibilità di esprimersi e
realizzarsi. Nelle teorie centrate sull’organizzazione la problematica
della motivazione al lavoro viene affrontata principalmente cercando di
intervenire sull’organizzazione del lavoro e di instaurare climi lavorativi
motivanti.
In altri termini, da un lato la motivazione al lavoro è stata spiegata
esclusivamente in termini di elementi della struttura “profonda”
dell’individuo; questa determinerebbe sia qualitativamente che
quantitativamente i rapporti di attaccamento/rifiuto verso l’esterno, verso il
lavoro e verso l’organizzazione. I vari aspetti strutturali, normativi, di ruolo
e situazionali del contesto organizzativo sono considerati una sorta di
“involucri vuoti”, utilizzati e riempiti di significati, motivi e bisogni individuali;
al massimo viene loro riconosciuta una funzione di facilitazione o di
ostacolo rispetto all’espressione delle forze motivanti dell’individuo
(Avallone e Monti, 1992).
D’altro lato, la motivazione al lavoro viene spiegata nei termini delle
caratteristiche positive e negative dell’ambiente esterno che agirebbero da
stimoli complessi in grado di elicitare, fra le varie reazioni possibili, la
risposta del comportamento motivato. In tal caso, è determinante l’ambito
dei fattori esterni: l’individuo, il suo comportamento, la motivazione al
lavoro diventano gli effetti determinati. Si pone l’attenzione sulle
caratteristiche dell’ambiente esterno, sull’organizzazione, sui suoi aspetti
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qualitativi e quantitativi, visti come variabili indipendenti. Il fenomeno della
motivazione al lavoro risulta concepito e spiegato dall’influenza, dalla
determinazione causale unidirezionale che va dall’esterno all’interno.
Anche qui, dunque, non vi è interazione reciproca tra un ambito e l’altro
dei fattori, ma determinazione e subordinazione degli uni rispetto agli altri.
È stata pertanto introdotta, negli studi sulla motivazione al lavoro, una
nuova dicotomia tra fattori interni e fattori esterni: così, anche in questo
campo, è stato diviso ciò che è indissolubilmente unito, è stata
disconosciuta la complessità del lavoro umano nelle organizzazioni,
riducendola ad elementi semplici e contrapposti.
Tale dicotomia va superata considerando entrambi i fattori in grado di
esprimere una forza di determinazione non assoluta, ma caratterizzata in
termini di scambio e reciprocità. Evidenziare l’interdipendenza dei fattori
causali significa che entrambi incidono sull’individuo e sulla motivazione al
lavoro soprattutto attraverso l’influenzamento che esprimono e subiscono
gli uni rispetto agli altri.
La motivazione al lavoro è un processo multideterminato talmente
complesso che non può essere spiegato facendo riferimento ad un
numero ristretto di cause; peraltro, solo alcune sono immediatamente
individuabili, mentre altre sono implicite, latenti. È quindi comprensibile
che per l’individuo, nel tempo, cambi non solo la propria motivazione, ma
anche la consapevolezza che egli ha di questa e della sua
determinazione.
Avallone e Monti (1992) propongono, come approccio privilegiato per lo
studio della motivazione al lavoro, un’impostazione che propone la
centralità dell’esperienza individuale dal punto di vista del soggetto. Il
riferimento è ai modelli teorici che considerano l’individuo come
elaboratore attivo di informazioni e che configurano l’elaborazione della
realtà non come direttamente determinata dalla quantità e dalla natura
degli stimoli, bensì come dipendente tanto dagli attributi degli stimoli
quanto da esperienze precedenti, aspettative, standard personali e dagli
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schemi di decodifica propri del soggetto e costruiti nello sviluppo del sé in
rapporto al mondo. La realtà conosciuta è una realtà costruita, organizzata
— non sempre in termini di consapevolezza, intenzionalità, razionalità —
per rispondere a esigenze interne-esterne e, soprattutto, finalizzata al
comportamento, all’azione.
Un nuovo modo di intendere la qualità
Ciò riporta ad un tema cruciale per la competitività delle organizzazioni: la
valorizzazione delle risorse umane in una prospettiva di qualità. Per
assicurare il massimo impegno da parte di ogni singola persona occorre
acquisire consapevolezza circa il fatto che prima di “fare” qualità bisogna
”essere” qualità. Mentre il fare si basa su conoscenze e abilità specifiche,
l’essere si fonda su valori profondamente condivisi e su atteggiamenti
mentali positivi.
Ad esempio, Michelangelo possedeva certamente una profonda
conoscenza della tecnica pittorica e indubbie capacità di disegno, ma se
non avesse avuto l’atteggiamento mentale opportuno e l’intelligenza
emotiva legati al suo “saper essere” non avrebbe potuto lasciare al mondo
opere di valore eterno. La sua disposizione mentale lo portava, oltre ad
essere creativo, alla ricerca minuziosa del dettaglio, a suo dire
fondamento del capolavoro. L’essere determina la capacità di costruire
qualcosa di diverso e di superiore: da ciò scaturisce la competenza, che
rende peculiare e unica un’organizzazione. Le competenze distintive
rendono difficilmente imitabili i prodotti o i servizi di un’organizzazione e
attengono alla dimensione della cultura, che non si può copiare, ma solo
costruire. Proprio l’unicità delle diverse culture ha reso Hewlett Packard,
Microsoft, Intel, Levi’s Strauss leader nei loro rispettivi settori: si tratta di
aziende tese a creare nella mente dei loro clienti esperienze tali da
determinarne un elevato indice di fedeltà, che a sua volta, non a caso,
determina profitti notevoli.
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Per trovare una perfetta integrazione tra “fare” ed “essere” qualità occorre
un profondo cambiamento culturale, orientato ad assicurare un
bilanciamento tra le componenti “hard” (strutture, sistemi e processi) e
quelle “soft”, come i comportamenti e gli atteggiamenti mentali.
Se oltre l’80% dei piani di qualità sono almeno parzialmente falliti, questo
indica che spesso si è dimenticato il ruolo fondamentale che le persone
svolgono nella traduzione operativa dei concetti e delle metodologie
connessi ai piani di miglioramento. È essenziale che un programma di
implementazione della qualità si innesti in un contesto aziendale fecondo:
si deve creare una vera e propria cultura della qualità. Ciò può realizzarsi
solo se le persone sono portatrici, prima di tutto nella loro individualità, di
una forte tensione verso il miglioramento continuo. Si deve pertanto partire
dalla qualità personale, il cosiddetto lato umano della qualità.
Per prima cosa è necessario esaminare lo scenario in un’ottica di
rivalorizzazione del fattore umano, che, grazie ad un management
innovativo, dovrà sostenere la nuova architettura necessaria per il
successo duraturo della qualità totale.
Oggi è fondamentale essere consapevoli che il consumatore non acquista
più semplicemente un prodotto o un servizio, ma un’esperienza globale: la
relazione è la dimensione critica. Se si è tesi soltanto a “fare” qualità ci si
concentra sulle caratteristiche obiettive e su parametri facilmente
misurabili, come ad esempio l’affidabilità, le prestazioni e la facilità di
impiego, ma ciò che fa veramente la differenza è l’impressione che il
cliente ricava sperimentando il prodotto e specialmente tutto ciò che vi sta
intorno.
La qualità si basa su un concetto semplice, ma profondo: una relazione
uno a uno, che consenta di costruire una conoscenza profonda della
complessità dell’esperienza che il cliente compie dal momento in cui
decide di interagire con la società erogatrice di un prodotto o servizio. Per
l’organizzazione è vitale sviluppare la capacità di trarre indicazioni
essenziali dal vissuto di ogni singolo cliente per assicurarsene la fedeltà:
esiste la necessità di costruire un sistema di qualità veramente “customer
driven”, in grado di curare le prestazioni non solo dell’azienda, ma di ogni
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singolo anello costituente la catena del valore, a partire dal fornitore per
arrivare al punto vendita.
Esiste un contatto diretto tra fornitore e fruitore, poiché il cliente partecipa
alla produzione del servizio. Ciò permette di identificare i ruoli di front
office, ovvero la parte dell’organizzazione in diretto contatto con il fruitore,
caratterizzata da problematiche di comunicazione, senza la quale non si
può realizzare il servizio.
L’efficienza nei servizi è funzione della qualità del servizio, ovvero, della
soddisfazione del consumatore, della comunicazione e cooperazione tra
fruitore ed erogatore, della visibilità del servizio, molto meno della quantità
dell'output.
Non sono richiesti né esecutività, non essendo del tutto standardizzabile,
né consenso, ma imprenditorialità e partecipazione, che sono
comportamenti interiorizzati. Occorre, allora, costruire un’impresa guidata
dai valori piuttosto che dalle procedure: il nuovo progetto deve consentire
ad ogni individuo ampia libertà d’azione, una volta assicurata la sua
condivisione della “visione” e dei valori. Solo così l’organizzazione può
essere rapida nell’apprendere e nell’agire, capace quindi di decodificare,
interpretare, apprendere il significato di ogni segnale inviato dai clienti e di
agire di conseguenza: questo è un sistema caratterizzato da proattività e
non da reattività. La conclusione a cui devono arrivare le aziende implica
che per ottenere una qualità sempre maggiore bisogna sapere come
valorizzare le risorse umane, non semplicemente come gestirle.
L’era della gestione risorse umane è finita: le persone si valorizzano e
quindi si ispirano a produrre qualità. Non possono essere motivate e
gestite come vorrebbe la maggior parte dei manager perché ognuno ha
già dentro di sé la propria motivazione. I manager odierni devono imparare
a guidare l’impresa fornendo una visione che rappresenta qualcosa di
nuovo, diverso, unico, ricco di sfida e per questo irresistibile. Non a caso,
le forze trainanti del modello europeo della qualità sono la leadership e la
visione. Ne consegue che il management deve essere costantemente teso
a favorire una progressiva convergenza fra il progetto aziendale (visione)
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e il progetto di vita di ogni individuo, consentendo così di trasformare la
visione stessa in realtà.
La concezione dell’autoefficacia riguarda, per l’appunto, la compatibilità tra
mete individuali e collettive e la congruenza di tale compatibilità con un
progetto che sia in grado di liberare le potenzialità esistenti all’interno del
sistema organizzativo, così come all’interno del sistema individuale.
A fini applicativi, occorre comprendere il grado di compatibilità tra le mete
soggettive dei diversi individui e le mete collettive, in particolare rispetto
alla possibilità di liberare del potenziale negli individui e
nell’organizzazione. Ciò è fondamentale per esplicitare una gerarchia di
obiettivi che massimizzi questa opportunità, per essere in grado di
monitorare il passaggio dalla decisione all’azione e per intervenire sui
processi che regolano la discrepanza tra il momento della decisione e
quello della realizzazione.
Gli strumenti utili a tale proposito sono il goal setting e la valutazione
(feedback), ma le difficoltà nell’applicarli risultano consistenti, in quanto le
persone sono molto spesso resistenti ad essi. In entrambi i casi, l’obiettivo
è non solo incrementare le prestazioni, ma favorire le condizioni per creare
nuove capacità e rigenerare le motivazioni personali a riuscire. Da una
parte l’obiettivo sfida le competenze possedute a rimettersi in gioco,
dall’altra il feedback notifica la possibilità di arrivare a nuove competenze
da quelle già possedute.
In questa ottica, lo sviluppo del senso di efficacia costituisce un valore
aggiunto rispetto ai risultati previsti dai tradizionali programmi di direzione
per obiettivi (MBO). Un aumentato senso di autoefficacia si manifesta in
una maggiore capacità di gestire al meglio le proprie attività, valorizzando
pienamente le proprie capacità e opportunità.
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È d’altro canto evidente che, affinché l’assegnazione degli obiettivi e la
valutazione siano effettivi veicoli di motivazione e di generazione di nuove
capacità, debbono muoversi in un quadro dove sussistano altre condizioni,
come la credibilità del sistema valutativo, l’accessibilità dei mezzi
necessari al raggiungimento dei fini prospettati, le pari opportunità a fronte
delle stesse abilità e dello stesso impegno, la chiarezza delle regole ed
una sostanziale equità nella gestione delle risorse. Qualunque gerarchia di
fini o desideri, infatti, non si traduce in impegno o volontà se non vi sono le
condizioni che fanno anticipare che la riuscita è possibile e che essa
dipende in buona parte da noi (Caprara, 1995).