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INTRODUZIONE
L’empatia si riferisce al “trasportarsi in modo immaginario nei pensieri, sentimenti e
azioni di un’altra persona” (Dymond, 1949) ed è stata identificata come una tra le
tecniche più promettenti per la riduzione del pregiudizio e la promozione di relazioni
intergruppi più armoniche. Alcuni dei meccanismi sottostanti alla capacità di
empatizzare sono stati fatti risalire alla teoria dell’attaccamento; questa ricerca si è
quindi proposta come obiettivo quello di mostrare come il senso di sicurezza
dell’attaccamento possa promuovere risposte prosociali nei confronti di target
stigmatizzati, prendendo in considerazione il ruolo dell’empatia e della somiglianza
interpersonale percepita tra il sé e l’altro.
Nel primo capitolo verrà introdotto il concetto di pregiudizio in psicologia sociale, un
tema molto attuale per quanto riguarda le relazioni intergruppi all’interno della nostra
società, continuamente permeate da stereotipi e atteggiamenti pregiudiziali, che possono
condurre a conseguenze sociali gravi e pericolose nei confronti di minoranze
svantaggiate, ad esempio per identità etnica, genere, religione, preferenze sessuali,
aspetto fisico. Lo studio del pregiudizio e delle sue cause risulta quindi di grande
interesse e non stupisce il fatto che numerosi autori abbiano provato a proporre nuove
strategie per cercare di ridurlo, e quindi far si che diminuiscano i fenomeni di ostilità e
discriminazione tra gruppi, che tuttora permangono in ogni società. Uno degli interventi
maggiormente efficaci in tal senso, sembra l’utilizzo dell’empatia e dell’assunzione di
prospettiva, il cui studio è stato recentemente applicato al contesto delle relazioni
intergruppi e del comportamento prosociale. Sempre più studi dimostrano che motivare
le persone a comprendere le condizioni di disagio e bisogno altrui, quindi a provare
empatia per loro e ad agire di conseguenza per aiutarli, possa essere utile per migliorare
gli atteggiamenti, ridurre i pregiudizi e le risposte stereotipiche che si hanno nei loro
confronti e per mettere in atto tutta una serie di risposte e comportamenti prosociali a
beneficio dei gruppi svantaggiati. Risulta chiara, dunque, l’importanza di capire a cosa
corrispondano i diversi stati empatici e come ognuno di loro possa influire sulle
relazioni intergruppi e sui comportamenti prosociali.
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Nel secondo capitolo sono stati presi in considerazione gli studi recenti che prendono
spunto dalla teoria dell’attaccamemto di Bowlby (1969) per spiegare la possibile
integrazione di questa con lo studio delle risposte prosociali. Il corpo di ricerche
stimolato da questa teoria offre infatti suggerimenti produttivi per incrementare i
comportamenti prosociali, tramite l’attivazione del senso di sicurezza dell’attaccamento.
Questi effetti benefici sono stati spiegati tramite una varietà di meccanismi soggiacenti,
che vanno dalle reazioni emotive associate alla condizione dell’altra persona, l’empatia
e i sentimenti associati con l’ingiustizia sociale percepita, le rappresentazioni cognitive
alterate del sé e degli altri e la sovrapposizione delle identità. Gli studi sembrano
rilevare che la sicurezza nell’attaccamento, sia come stile disposizionale abituale del
soggetto, sia in caso venga contestualmente attivata, sembra facilitare l’apertura
cognitiva e l’empatia, rafforzare i valori di trascendenza del sé, migliorare la tolleranza
e le reazioni negative nei confronti dei membri degli outgroup; inoltre risulta associata
alla volontà d’aiutare il prossimo in difficoltà nella vita di tutti i giorni. Da qui deriva
l’importanza di studiare gli effetti benefici della teoria dell’attaccamento, nel contesto
delle relazioni intergruppi.
Gli altri due capitoli presentano la ricerca svolta sul tema, che vuole proporsi di
esaminare i meccanismi di mediazione nella relazione tra l’attaccamento e le risposte
prosociali. E’ stata manipolata la sicurezza dell’attaccamento per verificare l’ipotesi che
attivare un senso di “base sicura”, prima di assumere la prospettiva di una persona
appartenente a un gruppo stigmatizzato, in questo caso quello dei disabili, avrebbe
promosso risposte prosociali nei confronti dell’individuo in questione e del suo gruppo
di appartenenza in generale, tenendo conto di alcuni potenziali mediatori.
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CAPITOLO 1
DUE FENOMENI INTERCONNESSI: IL PREGIUDIZIO E
L’EMPATIA
1.1 Definizioni di pregiudizio, cause e rimedi
L’interesse per l’individuo inserito in una società, e per le conseguenti percezioni e
interazioni, ha portato il tema del pregiudizio sotto i riflettori delle scienze sociali. Il
pregiudizio è un fenomeno onnipresente che influenza tutti noi, etimologicamente è un
qualcosa che arriva alla mente prima della conoscenza, che può essere appreso per
tradizione, per sentito dire, che viene tramandato di generazione in generazione; è
quindi difficilmente definibile con un solo concetto. In letteratura esistono numerose
definizioni e spiegazioni, da punti di vista differenti, attribuite al termine “pregiudizio”,
che sono andate modificandosi nel corso del tempo. Per gli antichi il pregiudizio
significava un giudizio precedente, basato su decisioni ed esperienze anteriori al
giudizio stesso, praejudicium; poi acquistò il significato di giudizio prematuro,
formulato prima di una debita considerazione oggettiva dei fatti; quindi acquisì il
colorito emotivo, relativo alla benevolenza o alla malevolenza che accompagna un
giudizio immotivato (Ciccani, 2008).
Una delle più importanti definizioni è stata suggerita da Gordon Allport, il quale
afferma che: «Il pregiudizio etnico è un’antipatia fondata su una generalizzazione falsa
ed inflessibile. Può essere sentito internamente o espresso. Può essere diretto verso un
gruppo nel suo complesso o verso un individuo in quanto membro di quel gruppo» (“La
natura del pregiudizio”, 1954). Il suo pensiero è stato analizzato da diversi autori e,
nonostante la validità delle sue teorizzazioni, esse sono state ampliate negli anni
successivi. Il pregiudizio non può infatti essere pensato soltanto come un sentimento di
antipatia, dal momento che esso può integrare al suo interno giudizi, valutazioni,
emozioni e comportamenti che non corrispondono necessariamente a processi di
pensiero di tipo patologico (Voci e Pagotto, 2010).
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Tra gli anni ’70 e ’80 vengono definite nuove forme di pregiudizio, non più dichiarato,
forte e manifesto, ma nascosto, freddo, indiretto e più difficile da individuare; si tratta di
un pregiudizio latente che porta le persone a celare i loro pregiudizi per evitare d’essere
accusate di razzismo. Brown ha successivamente ampliato la spiegazione di pregiudizio,
definendolo come un fenomeno che “presuppone la presenza di almeno alcune di queste
caratteristiche: il mantenimento di atteggiamenti sociali o credenze cognitive
squalificanti, l’espressione di emozioni negative, o la messa in atto di comportamenti
ostili o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo per la loro sola
appartenenza ad esso (1997). Inoltre, per quanto esista anche il pregiudizio favorevole,
Mazzara (1997) osserva che “al massimo livello di specificità si intende per pregiudizio
la tendenza a considerare in modo ingiustificatamente sfavorevole le persone che
appartengono ad un determinato gruppo sociale”. Dal punto di vista psicologico,
Lascioli (2001) definisce il pregiudizio come “un giudizio anticipato, frettoloso,
antecedente all’esperienza o suffragato da scarsità di dati empirici e, pertanto,
inevitabilmente errato o approssimativo”. Quando parliamo di pregiudizio ci riferiamo
dunque all’esito di un processo che porta ad attribuire a una persona sconosciuta i tratti
e le caratteristiche ritenute tipiche del suo gruppo d’appartenenza (Voci, 2003).
Il pregiudizio, in quanto atteggiamento, è costituito da tre componenti:
1. Una componente cognitiva; si tratta di tutti quei concetti e percezioni che un
individuo possiede riguardo una determinata classe di oggetti. Alla base ci sono
due processi di ordine cognitivo: la categorizzazione e la stereotipizzazione. Il
primo ci permette di semplificare il mondo, organizzandolo in categorie e
collocando gli stimoli in base a criteri di somiglianza e differenza; è un
meccanismo normale della nostra mente che ci aiuta a economizzare le nostre
risorse cognitive. Ecco perché la prima spiegazione del pregiudizio è proprio il
fatto che questo dipende dal nostro modo di elaborare e organizzare le
informazioni; riguarda “la parte oscura della cognizione sociale umana”.
L’utilizzo costante di schemi ed euristiche porta naturalmente al formarsi di tutta
una serie di stereotipi e alla loro applicazione in forma discriminatoria. Il
secondo concetto è quello di stereotipo che si riferisce a tutte quelle immagini
precostituite su una categoria di persone, a prescindere dalle differenze
individuali. Anche la stereotipizzazione è un normale processo mentale;
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Lipmann (1922) ha introdotto questo termine intendendo le immagini o
rappresentazioni mentali che ci aiutano a ridurre la complessità della realtà, in
modo da organizzare e valutare i dati che ci fornisce in modo più semplicistico.
Lo stereotipo è quindi l’anticamera del pregiudizio, Lascioli (2001) definisce la
relazione tra stereotipo e pregiudizio rifacendosi al concetto della psicologia
della Gestalt di relazione figura/sfondo; lo stereotipo è la figura che appare
determinando lo stigma, mentre il pregiudizio è come lo sfondo, non
direttamente percepito, ma che permette alla figura d’esser percepita; se la
salienza si posasse sullo sfondo percepiremmo cognitivamente il pregiudizio
come figura, a quel punto potremmo analizzarlo consapevolmente e quindi
criticarlo e modificarlo. Oltre a ciò, bisogna sottolineare come nella società
moderna lo sviluppo sempre maggiore dei mass media funga da amplificatore
della stereotipia sociale, in quanto mezzo veicolante di molti stereotipi.
2. Una componente affettiva o emozionale, che si riferisce sia all’emozione
collegata all’atteggiamento (ad es. la rabbia) sia all’estremità dell’atteggiamento
(ad es. l’ostilità incontrollata). Guardando l’altro in base al tipo di
etichettamento che ho interiorizzato, avrò verso di lui dei sentimenti più o meno
positivi, che mi porteranno poi ad agire, in base alla terza componente, in
maniera ostile e distaccata verso tutti i membri di un gruppo.
3. Una componente conativa o comportamentale che, in base alle credenze
stereotipate e alle emozioni negative, porterà ad agire in modo discriminatorio
verso i membri di un gruppo, a causa della sola appartenenza a quel gruppo. La
gamma dei comportamenti di discriminazione può variare tra atti più o meno
gravi e condurre, in casi estremi, alla svalutazione dell’altro come essere umano,
alla tortura, alla morte e allo sterminio.
Il pregiudizio quindi, non è di per sé un processo patologico, ma la risultante delle sue
componenti può condurre a effetti sociali gravi e pericolosi nei confronti di alcune
minoranze svantaggiate, ad esempio per identità etnica, genere, religione, preferenze
sessuali, aspetto fisico (handicap, obesità, malattie come l’AIDS e così via). E’
interessante il punto di vista antropologico di Tentori (1987) che ci spiega come
l’alterità, l’estraneità (straniero = strano) ci disturbi e ci minacci e, quindi, ciò che
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suscita e perpetua il pregiudizio, sia questa disposizione diffidente verso ciò che è
differente da noi. Egli afferma che “conoscere i nostri pregiudizi significa privarci della
corazza ideologica mediante la quale la cultura che seguiamo può convalidare e
sostenere privilegi e tranquillità che torna a nostro specifico vantaggio conservare, sia
che ci siano stati trasmessi (per eredità sociale o culturale), sia che noi stessi ci siamo
costruiti o stiamo costruendo, sia che intendiamo riprodurre”. Affrontare il pregiudizio è
una sfida alle nostre sicurezze; perciò affidarci alla nostra cultura, quella che riteniamo
giusta, valida e normale ci serve a semplificare il mondo e a dividerlo tra noi, “i
normali” e gli altri, “gli anormali”, i diversi, coloro che percepiamo come una minaccia,
a causa di un timore ancestrale per l’ignoto e l’inconsueto; la reazione sarà
automaticamente di difesa. I pregiudizi hanno infatti come base anche cliché culturali
tramandati di generazione in generazione, difficili da modificare e che facilmente ci
impediscono di costruire diversamente il nostro pensiero, portandolo fuori dai binari
precostituiti del nostro sistema culturale e percettivo.
Ogni persona, oltre a categorizzare gli altri, categorizza anche se stessa in alcuni gruppi
sociali che comprendono il proprio sé (ingroup) e si esclude dai gruppi che non lo
includono (outgroup); ciò porterà a vedere ulteriormente una differenza intercategoriale
tra “noi” e “loro”, e a vedere il nostro ingroup come meno omogeneo rispetto
all’outgroup, soltanto perché comprende noi stessi che ci riteniamo unici e irripetibili.
Inoltre noi vediamo più positivamente il nostro ingroup rispetto all’outgroup a causa del
fenomeno dell’”ingroup bias”, per cui tendiamo erroneamente a pensarci migliori di
“loro” per aumentare la nostra stima di sé.
E’ stato Tajfel (1970) a evidenziare questo aspetto nell’esperimento dei gruppi
minimali, in cui si tendeva a favorire l’ingroup anche quando c’erano delle minime
ragioni di differenziazione rispetto all’outgroup. Altra considerazione importante da fare
è che, nel caso dei pregiudizi, vediamo fallire la logica dei ragionamenti; avendo una
componente affettiva oltre che cognitiva, l’atteggiamento pregiudiziale è difficile da
combattere tramite argomentazioni logiche e quindi tenderà a resistere alla modifica a
causa dell’emozione associata ad esso. Per di più, verrà rafforzato ogni volta in cui ci
sembrerà che un membro dell’outgroup porti su di sé una di quelle caratteristiche che a
priori gli avevamo affibbiato, il risultato è una conferma delle nostre aspettative. In
generale, l’attivazione di uno stereotipo avrà delle conseguenze nella percezione dei
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membri dell’outgroup anche per chi non crede a quello stereotipo; Devine (2001)
sottolinea come l’attivazione inconscia di alcuni aspetti di uno stereotipo possa attivare
automaticamente lo stereotipo nel suo complesso, e far sì che agisca in modo inconscio,
anche tra coloro che non lo condividono; infatti veniamo tutti sottoposti
all’apprendimento dei principali stereotipi tramite il processo di socializzazione. Il suo
modello propone l’elaborazione di pregiudizi e stereotipi in parte in modo automatico e
in parte in modo controllato; uno stereotipo viene attivato automaticamente quando si
incontra un membro dell’outgroup e poi si può scegliere deliberatamente di ignorarlo, in
caso non corrisponda alle proprie credenze personali. Tale modello è stato in parte
smentito da Fazio e Olson (2003), che hanno dimostrato come tra una persona e l’altra
ci sia una notevole variabilità riguardo all’attivazione automatica degli stereotipi
negativi.
Per spiegare questa ambivalenza riguardo la rappresentazione mentale che abbiamo dei
gruppi estranei, composta sia da elementi positivi che negativi, Dovidio e Gaertner
(1998) parlano di razzismo avversivo; si tratta del fatto che introiettiamo in noi,
inconsapevolmente e tramite la socializzazione nella nostra cultura e società
d’appartenenza, tutta una serie di stereotipi negativi su certi gruppi sociali, ma, allo
stesso tempo, tramite un processo conscio, ci facciamo un quadro positivo dei valori di
uguaglianza e giustizia che dovremmo perseguire. Il risultato è un tipo di pregiudizio
implicito, tipico della società moderna, in cui le persone, pur esprimendo opinioni
egalitarie, mantengono atteggiamenti negativi e discriminatori inconsapevoli.
Se ci interroghiamo sulle cause del pregiudizio vediamo come queste possano
ricondursi a due macrocategorie: una di natura intraindividuale e l’altra di natura
contestuale (interpersonale e intergruppi).
In relazione al primo livello di spiegazione diversi autori hanno proposto le loro teorie,
tra cui Dollard che ipotizza una connessione causale tra frustrazione e aggressività delle
persone (teoria della frustrazione-aggressività, 1967). Altra teoria è quella proposta da
Adorno (1950) sulla personalità autoritaria, che vede la causa del pregiudizio nel tipo di
educazione autoritaria e repressiva ricevuta dal bambino, il quale svilupperà un’indole
aggressiva e uno stile di pensiero rigido, dogmatico e conservatore. Bettelheim e
Janovitz (1964) proposero invece una teoria per cui l’ostilità verso il gruppo esterno è
dovuta all’ansia e alle privazioni subite nell’infanzia, senza riuscire a realizzare i propri
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scopi; in età adulta le espressioni del pregiudizio aiuteranno le persone a proteggere la
loro individualità e il loro bisogno di sicurezza e identità. Queste e altre teorie
individualiste hanno il limite di spiegare complessi fenomeni psicosociali riferendosi
semplicisticamente a personalità distorte, senza aver riguardo per la doppia polarità e la
concatenazione esistente tra individuo e società. Riguardo invece il secondo livello di
spiegazione possiamo dividere le teorie in due tipi di ordine socio-economico e psico-
sociale. A proposito del primo gruppo, vediamo come le teorie della deprivazione
relativa facciano dipendere il pregiudizio da uno stato d’insoddisfazione, derivante da
un disagio percepito rispetto ad una condizione ideale di riferimento. Il limite di questa
spiegazione è di essere più utile a posteriori, giacché è difficile stabilire a priori quali
saranno gli specifici termini di confronto in ogni società. La teoria del conflitto
realistico (Sherif, 1966) sostiene invece come pregiudizi e conflitti siano dovuti alla
competizione, in caso ci siano risorse limitate in una società, per lo status sociale o il
potere politico. Il fenomeno qui è ricondotto alle relazioni tra i gruppi sociali, per cui ci
sarà una competizione economica che porterà alla nascita di sentimenti negativi e
discriminatori verso i gruppi contro cui si compete. Un caso particolare è la teoria del
capro espiatorio di Allport (1954), che sottolinea la tendenza degli individui a colpire i
membri di un outgroup con cui sono in competizione, o semplicemente di un outgroup
più debole, non gradito e con minore potere. La frustrazione dell’ingroup è in tal modo
compensata dall’aggressività verso un outgroup, con livelli che variano a seconda delle
norme sociali permesse dall’ingroup in questione. Queste spiegazioni hanno il difetto di
essere incomplete poiché non tengono adeguatamente in considerazione l’importanza
soggettiva di un individuo di appartenere a un gruppo.
Le teorie psico-sociali sono quelle che cercano di mediare tra spiegazioni troppo
individualiste e spiegazioni troppo economiche e sociologiche, puntando
sull’interazione tra il Sé e i gruppi sociali. La teoria dell’identità sociale di Tajfel (1978)
ha proprio questo obiettivo e si basa sull’immagine del Sé legata all’appartenenza di
gruppo; l’identità sociale ha una componente cognitiva, emotiva e valutativa.
Quest’ultima determinerà la positività maggiore o minore dell’identità sociale e quindi
si baserà sul confronto con gli outgroup; il passo è breve verso una considerazione
positiva del proprio ingroup, che supporterà il bisogno di autostima degli individui, ad
una valutazione negativa e pregiudiziale verso gli outgroup. Questo fattore
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motivazionale è tanto più presente quanto più è saliente l’identificazione con l’ingroup
e, di conseguenza, tanto più probabile sarà la comparsa di pregiudizi e stereotipi. Una
spiegazione simile, ma che differisce per il fattore motivazionale che ci spinge a
favorire il nostro ingroup, è la teoria della riduzione dell’incertezza di Hogg (2000); qui
il motivo su cui si basa il conflitto intergruppi è il bisogno di certezze mai raggiunto
pienamente; ecco allora che ci costruiamo un sistema di valori condiviso che finiamo
per ritenere realtà oggettiva. I conflitti si creano quando due sistemi di valori si
incontrano/scontrano e il risultato sarà l’insorgere di pregiudizi verso di “loro”, che
minano l’integrità delle nostre certezze. Per il momento questa teoria è troppo ampia
perché sia empiricamente verificabile. Altra interpretazione di tipo psico-sociale è la
teoria della gestione del terrore (Greenberg, Solomon e Pyszczynski, 1997), in cui il
terrore potenziale causato dalla consapevolezza di essere mortali e, allo stesso tempo,
dall’istinto all’auto-preservazione, porta a condividere un universo culturale solido che
ci protegga dalla paura della morte e che mantenga la nostra autostima. Anche in questo
caso compaiono ostilità e pregiudizi quando due costruzioni culturali vengono in
contatto e ognuna cerca di avvalorare la propria visione prevaricando quella altrui. Se
questa teoria è difficilmente verificabile nel suo insieme, alcuni dei suoi assunti sono
invece stati confermati in diverse culture in cui emergeva il pregiudizio verso chi
minacciava la propria visione del mondo.
In generale possiamo dire che le cause del pregiudizio siano da ricondursi a due tipi di
fattori: quelli di ordine cognitivo fanno capo ai normali processi mentali delle persone e
sono per questo difficilmente modificabili. I fattori di ordine motivazionale si basano
sulla ricerca e il mantenimento di un’identità sociale condivisa e positiva, che tuteli il
valore del nostro gruppo; di un’identità sociale distintiva per permetterci di
differenziarci dagli altri; e di valori e norme del nostro ingroup che ci tutelino dalle
nostre insicurezze e aumentino la nostra autostima. Inoltre lo studio del pregiudizio
viene legato al fenomeno della socializzazione, che ci permette di apprendere il
contenuto degli stereotipi e al campo delle emozioni.
Relativamente alla componente emotiva ci sono due filoni di ricerca: uno si basa sulle
emozioni esperite dai membri dell’ingroup nei confronti dei membri dell’outgroup, e
l’altro su ciò che i membri dell’ingroup ritengano che i membri dell’outgroup provino.
Smith (1993) parla di emozioni intergruppi riferendosi alla gamma di emozioni negative
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provate nei confronti dell’outgroup: la paura, il disgusto, il disprezzo, la rabbia e la
gelosia. Ogni tipologia porterà a differenti reazioni pregiudiziali e comportamentali: la
paura e il disgusto, in quanto associate ad una percezione di minaccia da parte
dell’outgroup, porteranno all’allontanamento dei suoi membri e all’evitamento del
contatto con loro, la rabbia e il disprezzo causeranno azioni aggressive verso l’outgroup
e la gelosia condurrà i membri di un gruppo che si sente svantaggiato a voler
capovolgere la situazione tramite azioni collettive mirate. Altra proposta teorica che
connette il pregiudizio alle emozioni è il modello del contenuto degli stereotipi di Fiske,
Xu, Cuddy e Glick (1999). Questi autori propongono due dimensioni lungo cui variano
gli stereotipi: la competenza è legata all’intelligenza, alla competitività e
all’indipendenza, mentre il calore è connesso alla sincerità e alla socievolezza. A
seconda delle caratteristiche dell’outgroup cambieranno le emozioni provate
dall’ingroup; in caso di un outgroup caldo ma incompetente l’ingroup proverà pietà e
simpatia, se invece l’outgroup è freddo ma competente l’emozione esperita sarà di
invidia, gelosia o paura, verso gruppi caldi e competenti si proverà ammirazione e verso
gruppi che non sono né l’uno né l’altro le emozioni saranno di disprezzo, rabbia e
risentimento.
Altri autori hanno studiato la stretta relazione presente tra l’ansia e il pregiudizio;
Stephan e Stephan (1985) parlano di ansia intergruppi, riferendosi all’ansia esperita in
previsione del contatto con i membri dell’outgroup. Se l’incontro con l’altro, con il
“diverso”, mi procura ansia metterò in atto strategie difensive per evitarlo, poiché una
potenziale interazione sociale mi procurerebbe disagio e imbarazzo e in caso dovesse
capitare non potrò che viverla in modo poco soddisfacente, confermando il mio
stereotipo preesistente. Anche cognitivamente commetterò degli errori nell’incontro con
l’altro che faranno sì che io elabori in modo distorto le informazioni percepite, il mio
focus attentivo sarà già ristretto in partenza, tenderò ad elaborare le informazioni in
modo schematico e limitato e non farò altro che confermare le mie aspettative deludenti.
L’ansia mi porterà in un circolo vizioso che tenderà solo a confermare ciò che mi
aspettavo in partenza e quindi ad aumentare i miei pregiudizi.
Relativamente ai sentimenti attribuiti ai membri dell’outgroup, Leyens e collaboratori
(2000) distinguono tra le emozioni primarie, associate a tutti gli esseri viventi e le
emozioni secondarie, associate soltanto agli esseri umani; i loro studi hanno dimostrato