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1. L’incontro di Jung con l’Oriente
Nella vita di un autore esistono date emblematiche ed episodi cruciali grazie ai quali
alcuni suoi nodi tematici si addensano all’improvviso. Il periodo compreso tra la fine del
1937 e la primavera del 1938 costituisce per Jung un segmento biografico in grado di
riassumere il complesso delle relazioni che collega il suo pensiero all’Oriente.
Il rapporto di Jung con l’Oriente, e in particolare con l’India, ha avuto inizio
nell’infanzia, quando si faceva leggere dalla madre un libro che parlava delle religioni
orientali, soprattutto di quella indù, illustrato con immagini di Vishnu, Brahma e Shiva che
lo interessavano molto; di fronte ad esse, riferisce Jung, «provavo uno strano sentimento,
come se avessero qualche affinità con la mia originale rivelazione» (Jung, p. 36, 1998).
In Europa, durante i primi anni della sua formazione, grazie ad un clima culturale
sempre più aperto, c’è una grande ondata di interesse per le idee orientali che iniziano a
farsi largo nella coscienza occidentale.
I primi riferimenti espliciti ai Veda e alle Upanishad compaiono negli scritti di Jung fin
dal 1912, probabilmente si è cominciato ad interessare al pensiero orientale durante il
dissidio con Freud. Nel 1916 dipinge il suo primo mandala e già all’epoca della stesura
delle prime due grandi opere, Simboli della trasformazione e Tipi Psicologici, Jung ha
acquisito una vasta conoscenza delle idee taoiste e buddhiste che egli pone sullo stesso
piano del materiale simbolico di origine occidentale, intrecciandolo strettamente con esso,
e mostrando familiarità con I Ching, il Ramayana e con gli scritti di eminenti indologi.
Inoltre, in Tipi psicologici, opera scritta nel 1921, fa ampio uso di concetti appartenenti alla
psicologia orientale.
Negli anni ‘20 l’interesse di Jung per le idee orientali riceve un’importante stimolo
dalla lettura di Psycoanalyse und Yoga di Oscar Schmitz e dall’amicizia con l’indologo
Heinrich Zimmer, con il filosofo sociale Herman Keyserling e il sinologo Richard Wilhelm
che eserciteranno una grande influenza sul suo sviluppo intellettuale.
Commenta importanti testi sapienziali cinesi e indiani come Il Segreto del Fiore d’Oro
nel 1929 e Il libro tibetano dei morti nel 1935, inoltre nel 1932 tiene un seminario sulla
psicologia del Kundalini Yoga al Club Psicologico di Zurigo. I numerosi scritti che
andranno fino al 1955 sono testimoni dell’interesse di Jung per l’Oriente e della sua
audacia con la quale li propone alla cultura occidentale; gli argomenti trattati sono
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trascurati e considerati con sospetto anche dagli orientalisti europei che li giudicano
indegni di un vero interesse scientifico. Ciò che emerge è anche la fermezza con la quale
egli vuole ancorarsi alla tradizione storica e culturale dell’Occidente: non viene mai
perduto il riferimento a Kant, all’empirismo, alla fenomenologia, alla scienza. Di
conseguenza, si attira critiche sia da parte di psicologi e scienziati, che lo accusano di
misticismo, sia da parte di spiritualisti che lo ritengono legato ai pregiudizi razionalistici
occidentali.
L’interesse per il mondo orientale e l’entusiasmo nei confronti delle filosofie della Cina
e dell’India accompagnano Jung per tutta la vita. Egli sostiene che l’Occidente ha molto da
imparare dallo studio del pensiero orientale e che l’Oriente offre la possibilità di sottoporre
i presupposti e i pregiudizi occidentali a una critica feconda. Nella ricerca di verifiche
oggettive della sua prospettiva terapeutica, riconosce nell’interpretazione orientale del
mondo psichico un accordo con le sue osservazioni analitiche e le sue esperienze personali.
1.1 Il viaggio in India
La storia del rapporto di Jung con l’Oriente raggiunge
l’apice con il suo primo viaggio nel subcontinente indiano,
e in generale verso l’Oriente, intrapreso solamente all’età
di 62 anni. Nel dicembre del 1937 si reca in India in
seguito all’invito ricevuto da parte del governo britannico
a partecipare alle celebrazioni del venticinquesimo
anniversario della fondazione dell’Università di Calcutta,
dove gli viene conferita la prima di tre lauree honoris
causa, e lavora al fianco dei delegati britannici all’Indian Science Congress. Jung coglie
l’occasione per visitare importanti luoghi storici dell’India e di Ceylon (oggi Sri Lanka),
incontrare studiosi e guru indiani, tenere conferenze in diverse università.
Pur riconoscendo che era la prima volta che affrontava una civiltà straniera altamente
differenziata, il resoconto dell’esperienza e degli incontri nell’autobiografia (Ricordi, sogni
e riflessioni, pubblicata postuma nel 1961) è dominato da distinguo e prese di distanza.
Racconta di aver avuto il piacere di confrontarsi con rappresentanti della mentalità indiana,
ma di aver evitato di incontrare i cosiddetti “santoni” per non essere condizionato dalla
loro saggezza: «come europeo non posso prendere nulla in prestito dall’Oriente, ma devo
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plasmare la mia vita da me stesso, secondo quanto mi suggerisce il mio intimo o mi
apporta la natura» (Jung, p. 308, 1998). Dichiarazione un po’ superba - afferma Vitale
(Romano, p. 126, 2005) - poco da ricercatore scientifico, che cerca la verità dovunque sia,
e piuttosto sgarbata nei confronti di un Oriente che gli aveva conferito tre lauree.
Rimane colpito dal diverso modo di trattare il problema del male, constatando come per
gli orientali l’aspetto morale non è in primo piano. Nella loro concezione il bene e il male
sono integrati in un unico continuum naturale, hanno un loro senso, sono una stessa cosa
pur con differenza di grado, senza alimentare ossessioni di carattere morale dovute alla
loro più o meno rigida divisione. Ma in questa posizione scorge quasi immediatamente il
rischio di una certa indifferenza, di un desiderio di fuga dalle cose del mondo, di una
liberazione.
A Konarak visita il tempio tutto ricoperto di sculture oscene, gli viene spiegato che tali
decorazioni permettono una presa di coscienza per raggiungere la spiritualizzazione.
Al ritorno dall’India, Jung riporta un’attenta descrizione dei paesaggi e delle prime
impressioni avute durante il viaggio in due articoli: Il mondo sognante dell’India e Quel
che l’india può insegnarci, che apparvero nella rivista Asia (New York, 1939). Ai suoi
occhi da occidentale l’India appare come un mondo sognante, ma nello stesso tempo è
consapevole che l’indù non lo percepisca come tale, al contrario, è preso dalla sua realtà,
dalla sua dottrina filosofico-religiosa come gli europei lo sono dal messaggio d’amore
cristiano.
Questa magica cornice ambientale diviene stimolo per le sue riflessioni sul significato
del Buddha e del Cristo nella storia della coscienza. Nota subito l’estrema differenza nella
percezione della vita: nell’India è il corpo nella sua completezza che vive, mentre «l’uomo
bianco vive in un manicomio di astrazioni» (Jung, p. 318, 1985), la sua vita è incapsulata
nella testa come sotto una sorta di campana di vetro. Gli indiani «si sono assuefatti a un
grado di civilizzazione che noi non possiamo raggiungere, nemmeno con l’aiuto di ideali e
convulsivi sforzi morali» (Jung, p. 324, 1985). Jung osserva come l’evoluzione occidentale
ha portato l’uomo ad una dissociazione tra la parte cosciente della psiche e l’inconscio,
divenendo altamente disciplinati, organizzati e razionali a spese della totalità
dell’individuo. La vita dell’indiano è irrazionale ma completa, soddisfacente e di
un’indicibile bellezza emotiva, la sua ambizione è di avere una visione d’insieme. La
psicologia dell’India appare così simile a un sogno in quanto include l’universo e l’uomo
in tutti i suoi aspetti e le sue attività, «l’India rappresenta l’altro modo di civilizzare
l’uomo, il modo senza repressione, senza violenza, senza razionalismo» (Jung, p. 330,
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1985). Come ultima riflessione scorge una sottile sfumatura nel significato dato al pensare:
l’indiano non pensa, i pensieri appaiono da sé, non è lui a farli, egli li percepisce come se
fossero visioni o cose vive. Il processo del suo pensiero si avvicina a quello del primitivo,
nel quale il ragionamento è una funzione inconscia di cui si percepiscono i risultati.
Giunto a Calcutta, Jung si ammala di dissenteria e viene ricoverato dieci giorni in
ospedale. Questa indisposizione, che gli impedisce di essere presente al conferimento della
laurea ad honorem, segna un’inversione di tendenza nell’atteggiamento di Jung,
rappresenta un momento di riposo e riflessione sui numerosi posti visitati. Non appena
dimesso dall’ospedale, sogna di trovarsi con degli amici in un’isola sconosciuta,
probabilmente vicino alle coste inglesi, dove sorge un castello medievale implicato con il
santo Graal. Capisce che il Graal deve essere celebrato la sera stessa in segreto, ma non è
ancora nel castello, si trova infatti in una casetta disabitata. Decide così, nonostante il
freddo, il buio e un canale d’acqua ancora da attraversare, di andarlo a prendere a nuoto.
Per Jung il significato del sogno è evidente: il suo compito è nei confronti dell’Occidente,
delle istanze europee a lungo trascurate, ma ancora vitali e in attesa di recupero come il
Graal; il viaggio in India non rappresenta il suo compito, ma solo una parte del cammino
che lo avrebbe avvicinato alla meta. Il soggiorno, quindi, è come se fosse già terminato.
All’inizio della primavera, una volta a Bombay, talmente sopraffatto dalle impressioni,
invece di visitarla, preferisce rimanere a bordo della nave a studiare i testi latini di alchimia
che aveva portato con sé. Il viaggio, infatti, rappresentò una pausa nello studio intenso
della filosofia alchimistica e vi fu un continuo confronto tra questo patrimonio del pensiero
europeo e le impressioni ricevute dalla cultura indiana; egli vi scorse similitudini nella
rielaborazione delle originali esperienze psichiche dell’inconscio. Parecchi anni dopo,
tornando con la memoria alla sua visita in India, si definì «come un homunculus in
un’ampolla» (Clarke, p. 87, 1996), rimasto chiuso in se stesso a cercare la sua verità, a
dispetto delle distrazioni intellettualmente stimolanti che lo circondavano.
L’India però lascia una grande traccia nella vita di Jung: nella sua evoluzione
intellettuale il pensiero orientale non fu solo una distrazione esoterica dallo studio, ma una
componente importante dalla quale scaturiscono le sue idee fondamentali, un’influenza che
ha permeato tutta la sua produzione teorica oltre ad essere uno strumento per una auto-
analisi critica.
Dopo il ritorno in Europa non cessa di accostarsi al pensiero orientale, anzi continua a
studiarne i testi e a trarne ispirazione. Nel 1950 afferma in una lettera di essere immerso
nello studio degli scritti di Ch’uang-tzu e l’anno prima di morire è impegnato a studiare i
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sermoni di Buddha. Nel 1956 scrive una relazione sui discorsi di Buddha, riconoscendo
come l’insegnamento della dottrina buddhista costituisce uno stimolo per l’uomo
occidentale nel disciplinare la sua vita psichica interiore.
Jung non ha visitato la Cina e non ne ha imparato la lingua, ma i numerosi riferimenti al
pensiero e alla cultura cinese nelle sue opere testimoniano l’affinità con le sue teorie
psicologiche. Ciò che interessa di più Jung è la visione olistica e la capacità di raggiungere
una piena sintonia con la natura.