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Per capire realmente quali siano i rischi connessi all’uso dei videogiochi, così come
per valutarne le numerose potenzialità, essi vanno studiati in tutti i loro aspetti: da
dove sono nati e con quali finalità, quali sono i meccanismi legati al loro mercato,
quale il linguaggio che usano, quali le ragioni del piacere che suscitano nei giocatori.
Rinunciare ad una di queste letture equivarrebbe a fornire una risposta incompleta ed
insoddisfacente al quesito da cui prende avvio la ricerca.
Per queste ragioni, dopo aver tratteggiato l’evoluzione delle posizioni teoriche
esplicative del fenomeno aggressivo e dei suoi rapporti con la visione di spettacoli
violenti, si procederà ad analizzare la “natura” del videogioco, il quale verrà
affrontato dapprima come “new-media”, poi come “business” ed infine come parte
dell’immaginario collettivo.
In relazione al primo punto va detto che il videogioco è nato dalla televisione, di cui
condivide il linguaggio iconico e le modalità espressive; esso però vi si è ben presto
differenziato per le sue caratteristiche di interattività e coinvolgimento attivo del
giocatore, il quale, uscito dalla condizione di spettatore, deve decidere con il suo fare
l’evolversi e il dipanarsi delle vicende rappresentate sullo schermo. Questa
riflessione apre la strada all’analisi delle competenze ad un tempo richieste e
sviluppate da questi apparecchi, i quali, lungi dall’essere dei semplici stimolatori di
risposte automatizzate, chiamano in causa la capacità induttiva, il ragionamento
strategico, la coordinazione oculo-motoria, il tempismo, ed altri importanti processi
cognitivi.
Tuttavia il videogioco non è solo un apparecchio mediale, ma anche un vero e
proprio business. Il giorno stesso in cui Pong, primo videogioco della storia, venne
installato in un bar della California, esso si guastò perché la cassetta porta monete si
intasò di pezzi da un quarto di dollaro, il prezzo di una partita; da quel momento in
poi i videogiochi non smisero mai di riscuotere successo presso i giovani.
Questo successo ovviamente stimolò ben presto gli appetiti degli imprenditori, i
quali, anno dopo anno, costruirono attorno al videogioco un business colossale, che
modificò profondamente le modalità di produzione e di creazione dei giochi. Da
libera e creativa iniziativa di “romantici” appassionati di elettronica -spesso studenti
o ricercatori presso le grandi università americane- a vero e proprio “affare
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multimiliardario”, sempre meno disposto ad correre i rischi di un investimento
improduttivo.
Attualmente la produzione di un videogioco richiede la collaborazione di esperti di
vari settori, mesi di lavoro, ed investimenti di centinaia di milioni di lire: nulla è
affidato al caso, e, raggiungere la leadership da parte di un’azienda produttrice, è
necessario alla sua stessa sopravvivenza. La strada attualmente percorsa dai
produttori per suscitare consenso presso gli acquirenti è quella di offrire un vero e
proprio mondo virtuale il più possibile realistico ed accattivante, capace di offrire al
giocatore, più che un semplice passatempo, una vera e propria realtà parallela. Le
due strategie messe in campo a tal fine sono quelle di un continuo progresso
tecnologico e del conseguente sempre maggior realismo, e quello di una
commistione con l’immaginario cinematografico, da sempre fonte di coinvolgimento
emotivo e fascino. Queste nuove tendenze evolutive vengono ampiamente esaminate
nel terzo capitolo unitamente ad un’analisi dell’evoluzione dei contenuti, preceduta
dalla descrizione delle più note tassonomie di videogiochi sino ad ora disponibili.
Percorrendo questa strada, ci si rende conto che, sebbene una certa dose di violenza
sia stata da sempre connaturata al videogioco (soprattutto nella forma dello sparare
ad oggetti mobili sullo schermo), le ultime tendenze denunciano svolte decisamente
preoccupanti: automobilisti dediti ad investire il maggior numero possibile di
passanti, serial-killer che vagano per le strade alla ricerca di esseri umani da
uccidere, piccoli criminali che cercano di suscitare consensi presso il boss
commettendo rapine, o uccidendo poliziotti, ecc. La violenza rappresentata nei più
recenti videogiochi è sempre meno inquadrabile in quella cornice di senso tipica di
ogni intreccio fabulistico nel quale il male è al servizio del bene o della difesa di se
stessi; essa è gratuita, ludica, è pura manifestazione di forza e di onnipotenza che non
si ferma davanti al limite posto dall’altro, ma si impone in tutta la sua primordialità.
Non meno importanti dei contenuti sono le modalità tramite cui essi vengono
espressi. Un’analisi critica degli espedienti narrativi che accompagnano la
rappresentazione della violenza nei videogiochi, consente di scoprire il ruolo centrale
svolto dall’uso dell’umorismo, del trasformismo, dell’azione, della tecnologia e della
mascolinità; tutti questi elementi contribuiscono silenziosamente a veicolare al
giovane giocatore immagini distorte del mondo e della vita.
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L’analisi di questi temi, non esula dal riconoscere il favore di cui tali giochi godono
presso il pubblico; il piacere da essi suscitato viene, al contrario, affrontato e
discusso a più livelli di analisi, dai più consci fino a quelli relativi a dinamiche
profonde, rilette alla luce delle teorie di George Klein e della sua descrizione relativa
alle sei esperienze prototipiche di piacere. Ciò consente di avanzare letture
interpretative che vedono nel videogioco una fonte di gratificazione del bisogno di
potere e controllo sul reale; nel videogioco è possibile abbandonarsi all’illusione
infantile di un controllo onnipotente sul mondo e a quella della negazione del
bisogno dell’altro. Questo solipsismo psichico, forse ben più grave del temuto rischio
di isolamento sociale cui il gioco potrebbe condurre, viene inquadrato nel più ampio
contesto dei rischi connessi all’uso dei videogiochi: da quelli per la salute -in
particolare le crisi epilettiche- a quello del gioco coatto e della dipendenza, agli
effetti sul rendimento scolastico, fino alla psicopatologia vera e propria. Questi ed
altri temi vengono analizzati nel terzo capitolo alla luce delle ricerche attualmente
disponibili. L’ampia rassegna bibliografica non si ferma ai rischi, ma riporta e
descrive anche i risvolti positivi dei videogiochi e le ampie possibilità di un loro
impiego costruttivo, che va dall’applicazione in psicoterapia, alla socializzazione
morale di ragazzi “a rischio”, fino al loro impiego finalizzato allo sviluppo di
competenze cognitive e percettive, in particolar modo di natura visuo-spaziale e/o
coordinatoria.
Il cuore della ricerca resta però quello del rischio sopra menzionato, ovvero che l’uso
di videogiochi violenti possa in qualche modo favorire l’insorgere nel giocatore di
comportamenti o pensieri aggressivi. Dopo un’approfondita rassegna bibliografica
nella quale vengono tenuti distinti i risultati di natura correlazionale da quelli
sperimentali (cap.IV), vengono presentati gli obiettivi e le finalità della presente
ricerca (cap.V): capire se l’uso dei videogiochi possa influenzare l’ansia e
l’aggressività degli adolescenti. Lo studio sperimentale, nel desiderio di rispondere
ad alcuni dei problemi lasciati aperti da quelli precedenti, pone a confronto fra loro
quattro gruppi di soggetti: un gruppo di controllo, uno sottoposto ad un videogioco
non aggressivo, un altro ad un videogioco aggressivo ma non realistico, ed un ultimo
ad un videogioco aggressivo e realistico. I risultati, se da un lato impongono cautela
nella valutazione degli effetti dei videogiochi -spesso funzione delle caratteristiche
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del giocatore- e richiedono differenziazioni fra gioco e gioco, consentono di
affermare, dall’altro, che la preoccupazione ad essi relativa è tutt’altro che infondata.
AGGRESSIVITÀ E MEDIA VIOLENTI
Già nel 1908, McDougall annoverò fra gli istinti che muovono la condotta umana
quello di “pugnacità”, ovvero l’istinto aggressivo; da quel momento in poi, tutte le
principali correnti teoriche interne alla psicologia si sono confrontate con il problema
dell’aggressività ed hanno tentato di offrirne una spiegazione. Il diffondersi sempre
più rapido della cultura cinematografica prima, e di quella televisiva poi, ha inoltre
spinto i rappresentanti di ciascuna di questi approcci teorici a porsi il problema degli
effetti suscitati dagli spettacoli violenti sugli spettatori. La conoscenza dello stato
dell’arte in tema di effetti dei film violenti, è condizione necessaria alla
comprensione di quelli dei videogiochi, ultima forma di iconicità violenta. Oltre a
ciò, la conoscenza delle ipotesi esplicative di tale fenomeno ci consentirà di valutare
quale fra esse sia la più idonea a rendere ragione degli effetti di un media che, pur
condividendo in parte le caratteristiche di un film, richiede anche una partecipazione
attiva del giocatore alle vicende rappresentate sullo schermo.
La descrizione che farà seguito ci consentirà dunque di capire quali siano i rischi
connessi all’uso di questi nuovi mezzi di comunicazione, e di comprendere
maggiormente quali elementi del videogioco possano mediare il passaggio da una
semplice partecipazione ad esperienze virtuali, alla eventuale messa in atto di
comportamenti violenti.
Dopo una breve analisi dei principali approcci teorici relativi al tema
dell’aggressività, verranno discussi i risultati delle ricerche relative alle conseguenze
di un’esposizione a spettacoli violenti; tali risultati permetteranno -tra l’altro- di
comprendere il perché delle scelte operate nella presente e nelle precedenti ricerche,
relativamente alle variabili sperimentali giudicate necessarie alla comprensione ed
alla valutazione degli effetti dei videogiochi aggressivi sui giocatori.
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Le principali teorie sull’aggressività
Due autori si sono interessati all’origine etimologica del termine aggressività, e sono
pervenuti a due esiti diversi, ma altrettanto significativi.
Giacomo Ghidelli (1998) rintraccia un’origine comune per i termini violenza e
uomo. « In latino, infatti, violenza è vis. Sempre in latino, all’inizio, uomo è vir ».
L’autore fa notare come ambedue queste parole trovino la loro origine in una radice
greca che significa appunto violenza. Luisella De Cataldo invece (Neuburger, 1996)
afferma che il termine violenza derivi da quella linea di radicali indo-europei, greci e
latini che rimandano all’idea di vita e di vitale. Inoltre ci ricorda che la violenza è
una componente essenziale della memoria collettiva, ed una componente primaria
delle narrazioni relative all’origine del mondo. « ...La storia dell’umanità inizia con
un crimine orrendo: un fratricidio per motivi futili. Non c’è regno, città, dinastia,
movimento ideologico che non abbia i suoi scheletri nell’armadio. Romolo uccide
Remo e fonda Roma. Persino la religione comincia con una crocifissione che ha tutta
l’aria di un errore giudiziario... » (pag.7).
Pur se in modo diverso, gli autori ci consentono di riflettere sulla pervasività della
violenza e sulla necessità di studiarla per poter comprendere meglio la nostra
umanità e la nostra stessa vita. Non è un caso che le principali correnti della
psicologia si siano interessate a questo tema, pur avendone date letture diverse.
Sinteticamente possiamo dire che le concezioni relative all’aggressività siano state
essenzialmente tre: la prima considerò la violenza come un istinto connaturato alla
specie umana; la seconda la ridusse a semplice comportamento appreso, e la terza
cercò di mediare queste due posizioni estreme vedendo nella violenza una “risposta”
a precise condizioni emotive interne.
L’aggressività come istinto
Con il termine istinto ci si riferisce ad « uno schema di comportamento -
programmato filogeneticamente e pertanto non acquisito - tendente ad una meta
importante per la sopravvivenza dell’individuo o della specie, che l’organismo attua
secondo modalità stabili e pressoché automatizzate » (Di Maria; Di Nuovo, 1984).
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Le due principali teorie che interpretarono l’aggressività in questo senso furono la
teoria etologica e quella freudiana.
La teoria etologica
Lorenz (1963) accorda all’aggressività una funzione al servizio della specie. Come la
predisposizione a prendersi cura dei piccoli, la spinta all’alimentazione o la spinta
riproduttiva, così anche l’aggressività accresce le probabilità di sopravvivenza e
dunque facilita la conservazione della specie in diversi modi. Anzitutto consente che
gli individui non vivano troppo vicini, ma al contrario si disperdano su un territorio
piuttosto ampio, in modo da consentire una maggiore disponibilità delle risorse;
inoltre permette di selezionare, tramite combattimenti, i partner più sani e più idonei
all’accoppiamento, così come consente di sviluppare una gerarchia sociale in cui le
posizioni di rango più alto sono occupate dagli individui migliori e più adatti.
L’aggressività viene dunque concettualizzata come un’energia interna all’uomo ed
ineliminabile; la presenza di stimoli scatenanti (eliciting stimulus), spinge
l’organismo a convogliare tale energia lungo specifici “pattern comportamentali”
innati (ad esempio mordere, aggredire, graffiare...), cosa che affievolisce la spinta
interna alla violenza. Se l’organismo non riesce però ad incontrare uno stimolo
sufficientemente idoneo all’espressione della sua energia, l’aggressività può
cumularsi e dunque “esplodere” spontaneamente anche in assenza di chiare ragioni
scatenanti. Il modello utilizzato per esprimere questo concetto è quello della “caldaia
a vapore ad alimentazione continua”: all’aumentare della pressione è necessario
liberare continuamente vapore; se la valvola di sicurezza che controlla l’uscita del
vapore si blocca, l’accumulo di pressione raggiunge livelli troppo alti e dunque si
arriva ad una esplosione.
Per ridurre o limitare l’espressione di aggressività fra esseri umani è perciò
necessario consentire una liberazione continua e controllata dell’energia aggressiva,
ricorrendo a forme rituali meno dannose ed accettate dalla società (ad esempio la
partecipazione attiva quanto passiva ad attività sportive competitive).
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La teoria di Freud
Inizialmente Freud concepì l’aggressività come una forza posta al servizio del
“principio del piacere”; l’aggressività era semplicemente considerata come una
reazione dell’individuo alle frustrazioni sperimentate durante la ricerca del piacere e
dell’appagamento della libido.
Due fatti poi, intorno agli anni ’20, contribuirono a mutare radicalmente tale
concezione: la scoperta del principio di ripetizione -cioè la tendenza a ripetere le
esperienze anche spiacevoli (Freud, 1920)- e, soprattutto, l’esperienza della prima
guerra mondiale, con tutto il suo carico di odio e di distruzione. A fianco dell’istinto
di vita (Eros), Freud individuò quindi una pulsione di morte (Thanatos) che non
tendeva tanto all’appagamento di un desiderio, quanto piuttosto al ritorno ad uno
“stato inorganico originario”. A tale pulsione di morte Freud assegnò un posto
autonomo nella teoria degli istinti. « Esistono due specie fondamentali di istinti, gli
istinti sessuali, nel senso più ampio del termine (Eros) e gli istinti aggressivi, il cui
scopo è la distruzione » (Freud, 1923). L’espressione di aggressività svolge secondo
Freud due compiti essenziali: il primo è quello di consentire una riduzione della
tensione connessa al bisogno di distruzione caratteristica di tale istinto; e il secondo è
quello di evitare che, rivolgendosi sul sé, tale tendenza conduca all’autodistruzione.
Questo bisogno però non coincide necessariamente con la messa in atto di
comportamenti violenti, dal momento che le tendenze ostili possono esprimersi
anche sotto forme socialmente accettate, come avviene nell’umorismo tagliente o
nelle fantasie.
Strettamente connesso a questi temi fu quello di catarsi. Il termine ha un’origine
molto antica, e subì nel corso degli anni interpretazioni differenti. Secondo la
concezione corrente, la catarsi è uno dei due possibili effetti della visione di
spettacoli violenti; assistere ad un film a contenuto aggressivo consentirebbe allo
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spettatore di liberarsi vicariamente delle sue tendenze distruttive attraverso un
complesso gioco di identificazioni e proiezioni.
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Presa semplicisticamente, questa
posizione potrebbe condurre a ritenere che, sotto qualunque condizione,
l’esposizione a stimoli violenti porti con sé una riduzione delle tendenze aggressive.
In realtà affinché ciò avvenga è necessario l’intervento attivo della cognizione e la
possibilità da parte del soggetto di rielaborare gli stimoli in entrata.
Se Aristotele riteneva infatti che la rappresentazione drammatica delle passioni
avrebbe spontaneamente portato ad una “purificazione delle passioni”, Freud, già
nella prima versione del suo pensiero, chiamò in causa il ruolo della coscienza e
della consapevolezza. E’ noto infatti che il termine catarsi venne da lui introdotto in
relazione ai temi dell’isteria; la cura catartica consentiva l’ “abreazione” di
un’energia repressa non liquidata, attraverso la rievocazione di una scena spiacevole
rimossa (Freud-Breuer, 1985). Già in questa prima concezione si evidenziava come
fosse « l’affiorare cosciente e l’espressione del materiale rimosso a consentire la
liberazione delle cariche affettive legate a tale materiale » (Varin, 1998).
Attualmente la riflessione si è spinta oltre ed è giunta ad identificare nella possibilità
di una elaborazione cognitiva e soggettiva del percepito la condizione
imprescindibile al verificarsi di un effetto “catartico”. « Non si tratterà più di
purificazione dalle passioni o di scarica di energie represse, ma di creare le
condizioni che permettano la pensabilità dell’esperienza emotiva » (De Polo, 1998).
Secondo diversi autori, l’effetto catartico legato alla visione di un film violento, è
condizionato dalla possibilità di effettuare una rielaborazione soggettiva di ciò che si
è visto. Se questo è vero, diventa centrale capire come questa rielaborazione possa
avere luogo, e quali fattori contribuiscono a facilitarla piuttosto che ad ostacolarla.
Le variabili ritenute a tal proposito più rilevanti sono l’età e il tasso di eccitazione
emozionale suscitato dalla scene rappresentate.
In relazione al primo punto Liliane Lurçat (1990) dice che « la televisione esercita un
effetto di fascinazione sui bambini », nel senso che essi si sentono profondamente
1
Con catarsi si intende la possibilità che il film produca nella mente dello spettatore un effetto
liberatorio rispetto ai potenziali impulsi omologhi a quelli raffigurati nel film. Per esempio, stante il
fatto che nell’animo di ogni uomo esistono fantasie e tendenze aggressive, l’effetto catartico
consisterebbe in una elaborazione interiore, conseguente alla visione del film, per cui avviene un
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coinvolti da ciò che vedono nello schermo, e si illudono di partecipare ad uno
scambio comunicativo, nonostante la comunicazione televisiva sia in realtà a senso
unico. L’autrice prosegue ricordando che la produzione televisiva, seguendo il
modello della spettacolarizzazione, esemplifica le situazioni reali della vita
trasformando pensieri, problemi e personaggi in situazioni connotate da un’unica
dimensione affettiva: la realtà diventa quindi o completamente buona o
completamente cattiva. Tale modalità semplicistica, tra l’altro, caratterizza
normalmente il pensiero infantile, avvezzo ad adoperare categorie unidimensionali e
dicotomiche nel processo di concettualizzazione della realtà. Il rischio connesso ad
una tale semplificazione delle categorie di riferimento è che il bambino legga le
situazioni in cui si trova in modo altrettanto semplicistico, e vi risponda adottando
comportamenti inadeguati e disadattivi. Questo avviene anche a causa della
presentazione che la televisione fa dei personaggi violenti; spesso essi assumono la
parte dell’eroe e dunque inducono nello spettatore l’idea che i pattern di
comportamento da loro adottati siano, oltre che utili, adeguati.
In relazione al secondo punto, invece, l’attenzione dei ricercatori si è concentrata sul
rapporto fra emozioni e cognizioni. Se per alcuni un elevato grado di eccitazione
emotiva -indipendentemente dalla sua origine- favorisce l’elaborazione cognitiva del
materiale (specialmente il ricordo), secondo altri essa sarebbe di ostacolo. Una
ricerca condotta da Baroni e altri (1989) ha dimostrato ad esempio che le scene a più
forte carica emotivo-eccitativa (come ad esempio le scene paurose) venivano
ricordate meglio da un punto di vista quantitativo, nel senso che i bambini si
dimostravano capaci di riferire accuratamente dettagli relativi ai singoli elementi
verbali contenuti nella scena. D’altro canto, diversi studi dimostrano che i materiali
televisivi fortemente saturi d’azione, emozioni e ritmi serrati -tali cioè da indurre e
mantenere un tasso elevato di arousal- possono produrre un impoverimento nei
processi di elaborazione simbolica (Singer, 1982). Similmente, Collins e altri (1974)
dimostrarono che la comprensione delle relazioni causali nel bambino poteva venire
ostacolata dalla presenza di scene fortemente emotigene come quelle di una violenza
aggiustamento emotivo-cognitivo il cui effetto è il depotenziamento delle fantasmatiche aggressive e
un maggior controllo di eventuali comportamenti aggressivi (Imbasciati, 1998).
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fisica, per il fatto che il bambino focalizzava la sua attenzione solo su quello stimolo
a discapito degli altri.
L’aggressività come comportamento appreso
Rifiutando lo studio dell’aggressività come disposizione motivazionale o come
condizione interna dell’organismo, il comportamentismo concepì l’aggressività al
pari di un qualunque altro comportamento, e si preoccupò di valutare quali fossero le
condizioni capaci di suscitare una risposta violenta. Conseguentemente, la
definizione di aggressività fu necessariamente riduttiva, ed escluse tanto la
dimensione dell’intenzionalità, tanto quella dell’intensità. Ogni « risposta che emette
stimoli nocivi verso un altro organismo » venne dunque considerata un caso di
aggressività. (Buss, 1961). L’approccio, pur nel suo riduzionismo, consentì di
studiare il fenomeno in modo sperimentale e scientifico, e permise di evidenziare
quali fossero i principali fattori responsabili della nascita e del mantenimento del
comportamento violento.
I primi studi sul tema trovano origine nel più vasto ambito delle ricerche sul
comportamento appreso. Skinner, intorno agli anni ’30, introdusse in psicologia il
termine “condizionamento operante” per riferirsi ad un meccanismo tale per cui
l’associazione di un esito piacevole ad una risposta, ne facilita la futura ricomparsa;
il succedersi di una risposta e di un evento che la rende più probabile è detto
“rinforzo”. Il rinforzo può essere sia positivo (quando consiste nella presentazione di
stimoli piacevoli) o negativo (quando invece consiste nell’eliminazione di uno
stimolo disturbante, come una scossa elettrica, una risposta d’ansia...).
Come accaduto per la psicoanalisi, anche il comportamentismo più recente sposta
però la sua attenzione dalle variabili genericamente presenti nel contesto, alle
caratteristiche del soggetto che compie l’azione. Bandura (1973) e Baron (1977) ad
esempio, ritengono che ai fini della comprensione scientifica dell’atto aggressivo sia
necessario tener presenti tutte le seguenti variabili:
Le variabili relative all’aggressore, e quindi le sue precedenti esperienze, il
modo in cui la situazione viene percepita, l’abitudine alla risposta
aggressiva, ecc..
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I processi di acquisizione di modelli e norme culturali favorevoli o meno
all’espressione di aggressività: modelli tipici della famiglia o del gruppo di
riferimento appresi soprattutto tramite l’imitazione, norme di carattere
generale, stereotipi, ed altri schemi mentali acquisiti per esempio dai
messa media.
Le variabili relative allo stimolo che incita al comportamento aggressivo e
alla specifica situazione in cui l’aggressione si verifica.
le variabili che contribuiscono a rinforzare il comportamento appreso e a
mantenerlo quindi nel repertorio comportamentale del soggetto.
Bandura, con la nozione di “reciproco determinismo”, sottolinea come la condotta
umana sia la risultante di un’interazione multipla fra l’ambiente, la persona ed il suo
comportamento. Nella concezione dell’autore, sono sostanzialmente i processi e le
strutture cognitive a selezionare le informazioni rilevanti dell’ambiente, a consentirci
di riconoscerle, e dunque a permetterci di mettere in atto gli schemi d’azione ritenuti
più pertinenti ed adeguati; uno dei criteri fondamentali utilizzati per decidere quale
sia il comportamento da adottare in ciascuna situazione è l’interiorizzazione di
esperienze precedenti sia personali che vicarie. A tal proposito l’autore sottolinea
l’importanza del processo imitativo; attraverso esso, il soggetto si appropria
rapidamente di insiemi articolati e complessi di conoscenze o di comportamenti in
virtù di ciò che vede fare ad un’altra persona (detta modello) evitando di apprendere
ogni cosa per prove ed errori, e di mettere in atto quei comportamenti che hanno
condotto ad esiti svantaggiosi per il modello. (rinforzo vicario).
La totalità delle ricerche neo-comportamentiste condotte sul tema, si è espressa sul
ruolo primario svolto dai mass-media nella trasmissione e nell’incitamento alla
violenza.
Anzitutto, dal momento che la violenza appare in TV molto più spesso di quanto non
accada nella vita reale, i mezzi di comunicazione offrono più opportunità di
sperimentare la violenza rispetto alla vita stessa offrendo un maggior numero di
“modelli”. Inoltre, le azioni rappresentate insegnano agli spettatori come
comportarsi, quale tipo di atteggiamento sia adeguato in una data situazione e,
specialmente, quale tipo di conseguenza vi faccia seguito (Bandura, 1965, 1971,
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1973). In una ricerca del 1963 ad esempio, l’autore dimostrò che anche i bambini che
avevano giudicato negativamente il comportamento aggressivo di un modello visto
in TV, erano disposti ad imitarlo se vedevano che ad esso faceva seguito una qualche
forma di vantaggio materiale o sociale per il protagonista. Questo, d’altro canto, era
in linea con le osservazioni di Zajonc’s (1954) relative alla scelta del leader; i
bambini sceglievano come modello colui che otteneva successo indipendentemente
dal modo da questi utilizzato per raggiungere il potere.
Oltre a ciò Bandura ed altri hanno sottolineato che la visione ripetuta di scene
violente può condurre tanto ad una disinibizione del comportamento, quanto ad una
desensibilizzazione emozionale. In relazione al primo punto si sostiene che i media
possano indebolire la reticenza dei soggetti a mettere in atto quei comportamenti
aggressivi che, pur facendo potenzialmente parte del loro repertorio
comportamentale, sono normalmente inibiti. (Comstock et. al., 1978 e Comstock,
1980). Mentre, in relazione al secondo punto, si ritiene che l’esposizione continua a
fenomeni violenti determini un abbassamento della sensibilità emotiva alla violenza,
la quale viene ad essere considerata un normale comportamento. Conferme di ciò
vengono dalle ricerche di Thomas et. al. (1977): costoro hanno dimostrato che, tanto
gli adulti quanto i bambini, sottoposti ad un video aggressivo di almeno 11 minuti,
mostravano un livello di responsività emozionale diminuito (misurato col GSR)
davanti a scene di aggressione reale. Inoltre si notò che bambini esposti a un
programma televisivo violento erano meno propensi a intervenire con azioni
appropriate in un alterco fra altri due bambini, rispetto a coloro che avevano visto un
film neutro (Thomas & Drabman, 1975).
Infine, i mass media rinforzano i comportamenti aggressivi mostrando che ad essi
fanno spesso seguito ricompense materiali o psicologiche (gli eroi negativi sono
ricchi, potenti, invidiati...sono persone “di successo”).