INTRODUZIONE
A partire dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, lo studio
dello sviluppo sociale infantile è stato caratterizzato da un crescente numero
di ricerche e da un dibattito teorico-metodologico piuttosto vivace. Prima
degli anni Cinquanta questo ambito di interesse era quasi ignorato dalla
comunità scientifica internazionale (Monaco, 2006).
Come sostiene Schaffer (1987), inizialmente il comportamento sociale
era visto come una classe del comportamento individuale e chi si occupava
di sviluppo sociale infantile guardava soprattutto alla prima comparsa di
specifici pattern sociali (come per esempio il sorriso, l'attenzione visiva) o
alla loro incidenza nel processo evolutivo.
Verso la fine degli anni Sessanta si è verificato un importante
cambiamento teorico-metodologico: il focus delle ricerche iniziò a spostarsi
dall'individuo alla diade. Non ci si concentrava più, dunque, sulle
caratteristiche individuali del comportamento, ma si guardava alle
interazioni tra il bambino e il suo partner (solitamente la madre), alle
modalità con cui si stabilivano tali interazioni nelle diverse età e ai ruoli
assunti di volta in volta da ciascun membro della diade (Schaffer, 1987).
Tale cambiamento di indirizzo fu reso possibile dalla nuova
concezione del bambino come soggetto attivo che partecipa alla costruzione
di legami affettivi sin dai primi giorni di vita: il bambino è in grado sin dalla
nascita di stimolare le interazioni sociali e di rispondere ad esse,
contribuendo alla creazione di un “sistema interazionale” in continua
evoluzione, caratterizzato da particolari fenomeni come la sincronia madre-
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bambino, la reciprocità e l'intenzionalità (Stern, 1985).
Nel passaggio dallo studio dell'individuo allo studio della diade
adulto-bambino e, più spesso, madre-bambino, è possibile individuare due
importanti innovazioni. In primo luogo il riconoscimento al bambino, sin
dai primi mesi di vita, di una competenza sociale precoce, che non riguarda
solo i comportamenti specifici (sorriso, attenzione, vocalizzo), ma
soprattutto le caratteristiche di organizzazione, struttura e integrazione delle
capacità sociali che egli va acquisendo (Monaco, 2006). In secondo luogo
avviene un ampliamento del mondo sociale del bambino: la capacità di
costruire legami interattivi precoci non implica solo le interazioni con la
madre ma include anche figure significative, in precedenza considerate
assenti o marginali, come il padre, i coetanei, gli educatori (Camaioni,
1987).
Verso la fine degli anni Ottanta emerge infatti un approccio allo studio
dello sviluppo sociale infantile che Schaffer (1987) definisce “poliadico”.
Uno studio cioè esteso a più contesti di vita di cui il bambino fa parte: la
famiglia, il nido, il gruppo dei pari.
La prospettiva poliadica è di fondamentale importanza, poiché le
modalità di azione e interazione di un bambino all'interno di un gruppo e di
uno specifico contesto possono richiedere abilità e competenze diverse
rispetto a quelle previste dalla relazione a due (Monaco, 2006); oltretutto la
prospettiva poliadica ha permesso di considerare l'influenza che i vari
contesti possono esercitare sulle modalità di strutturazione e di sviluppo
degli scambi sociali (Camaioni, 1987).
In questo lavoro verrà affrontato appunto l'argomento sull'influenza
che, all'interno del contesto familiare, esercitano gli stili educativi genitoriali
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sullo sviluppo della competenza sociale dei bambini in età prescolare.
Per delineare l'argomento, nel primo capitolo di questo elaborato viene
introdotto il concetto di competenza sociale, partendo, in particolare, dagli
studi di Linda Rose-Krasnor (1997): viene ripercorso lo sviluppo sociale del
bambino dai primi “riflessi” involontari, che costituiscono la costellazione
dei comportamenti di attaccamento che favoriscono la vicinanza alla madre,
alla scoperta di sé e dell'altro e quindi ad una più consapevole
partecipazione alle interazioni sociali. All'interno del primo capitolo verrà
fatto riferimento a due argomenti strettamente connessi allo sviluppo della
competenza sociale, che sono stati negli ultimi decenni oggetto
dell'attenzione da parte di molti studiosi del campo dello sviluppo: le
relazioni con i pari e il comportamento solitario. Non si può infatti non tener
conto dell'importante contributo portato dalle interazioni con i pari allo
sviluppo della competenza sociale nei primi anni di vita. Tali interazioni
favoriscono l'apprendimento di comportamenti sociali positivi e adeguati. Si
è dimostrato, infatti, che bambini che hanno scarse o nulle interazioni sociali
presentano una problematica competenza sociale, mostrando comportamenti
inadeguati che, se ripetuti nel tempo, portano al rifiuto o all'esclusione da
parte dei pari, con gravi ricadute sull'autostima e, di conseguenza sulle
capacità cognitive, emotive, affettive, sociali.
L'isolamento sociale, infine, viene argomentato per rilevare un
cambiamento nella concezione dello stare soli. Se prima, infatti, lo stare soli
veniva identificato con il non essere socialmente competente, numerose
ricerche hanno invece rilevato come il comportamento dello stare da soli
deve essere interpretato all'interno del contesto in cui emerge e tenendo
conto della competenza sociale generale del bambino.
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Nel secondo capitolo vengono presi in considerazione gli stili
educativi genitoriali, facendo riferimento principalmente alle teorie della
Baumrind e ai quattro stili educativi da lei individuati: autoritario,
permissivo, autorevole e trascurante o rifiutante. Sarà fatto cenno, inoltre,
alle funzioni genitoriali e alle rappresentazioni dei genitori.
Il terzo capitolo sviluppa l'argomento peculiare di questo lavoro:
l'influenza degli stili educativi genitoriali sullo sviluppo della competenza
sociale dei bambini in età prescolare. Verranno confrontati studi che
confermano una correlazione positiva tra gli stili educativi e la competenza
sociale dei bambini: in particolar modo verranno presi in considerazioni
alcuni comportamenti che rientrano nelle pratiche genitoriali (gioco,
conflitti, maltrattamenti, abuso, etc.).
Infine, nel quarto capitolo vengono riportati e commentati i risultati di
una ricerca sperimentale. Alla luce della letteratura esaminata nei primi tre
capitoli, la ricerca si propone di verificare se esista un'associazione tra lo
stile educativo genitoriale (inteso come qualità del coinvolgimento emotivo
con il proprio figlio e assunzione di uno stile democratico) e lo sviluppo
sociale del bambino valutato a scuola.
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CAPITOLO 1.
LO SVILUPPO DELLA COMPETENZA SOCIALE
1.1 Definire la competenza sociale
Quando ci si approccia allo studio dello sviluppo della competenza
sociale, il primo problema che bisognerebbe affrontare è quello di definire la
competenza sociale. Nonostante la notevole mole di ricerche dedicate all'area
della competenza sociale infantile «tale concetto si presenta come uno tra
quelli meno definiti ed epistemologicamente più elusivi della psicologia dello
sviluppo» (Baumgartner e Tallandini, 2002; p. 35).
La letteratura degli ultimi quarant'anni ci fornisce una grande varietà di
definizioni, ma per la maggior parte di tali definizioni l'aspetto centrale della
competenza sociale riguarda l'efficacia nelle relazioni: il successo sociale è,
cioè, un fattore determinante della competenza sociale (Rose-Krasnor, 1997).
Per meglio dire, la competenza sociale è intesa come quella capacità di iniziare
e mantenere interazioni positive, di sviluppare legami affiliativi (come ad
esempio farsi degli amici, essere accettati dai coetanei) e di evitare ruoli –
emarginazione/vittimizzazione – e conseguenze – isolamento/ansia – negativi
(Ladd e Pettit, 2002).
È solo a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso che si è
iniziato a considerare il bambino come partecipante attivo nella costruzione del
proprio mondo sociale e quindi come socialmente competente. Gli studiosi
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spostarono l'attenzione dall'individuo – di cui venivano osservati la comparsa
di alcuni pattern sociali, come il sorriso o lo sguardo – alla diade,
concentrandosi sulle relazioni tra il bambino e il suo partner (la madre o il
caregiver) e sulle modalità con cui tali interazioni si strutturano. Per la prima
volta viene riconosciuta al bambino una competenza sociale, che non si limita a
semplici comportamenti (il sorriso, lo sguardo, il riconoscimento della voce
materna, ecc), ma che lo vede anzi coinvolto attivamente nella costruzione di
una relazione.
Se guardiamo alla storia della psicologia, per Freud (1938) il bambino è
caratterizzato esclusivamente da bisogni biologici e solo in un secondo
momento interessato agli altri in quanto fonte di gratificazione dei propri
bisogni. Per i comportamentisti il bambino è – riprendendo quanto affermato
da John Locke (1693), il quale potrebbe essere definito un precursore di questa
corrente – una tabula rasa, un recipiente passivo, che viene riempito
dall'ambiente attraverso le associazioni apprese. Ancora, per Bandura (1977)
l'apprendimento per osservazione è il meccanismo primario attraverso cui il
bambino acquisisce un repertorio comportamentale utile per la vita sociale.
Con Piaget (1929; 1954) il bambino inizia a godere di una maggiore
considerazione: educare un bambino non significa plasmarlo, in maniera
passiva, ma iniziare un processo di negoziazione con un partner che ha delle
idee sul proprio io. Compito dell'adulto è quello di fornire al bambino le giuste
esperienze, cioè stimoli significativi per lo stadio di comprensione raggiunto
dal piccolo e per permettergli di passare allo stadio successivo. Gli etologi,
infine, considerano il bambino come un organismo che viene al mondo
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portando con sé prima di tutto la sua individualità e, in aggiunta, l'eredità dei
suoi antenati. In particolare, il lavoro degli etologi ha contribuito a porre
l'attenzione sull'osservazione nel contesto nel quale si manifestano i
comportamenti (Schaffer, 1996).
L'avere riconosciuto al bambino un ruolo fondamentale, e soprattutto
attivo, nella costruzione del proprio mondo sociale, ha permesso infatti di
affiancare allo studio dello sviluppo delle competenze sociali, lo studio delle
condizioni e dei contesti, familiari ed extrafamiliari, che lo favoriscono
(Corsano, 2007).
La crescente attenzione, da parte degli studiosi, rivolta ad approfondire la
natura delle competenze sociali e a darne quindi una definizione, ha prodotto
diverse prospettive.
In tempi recenti Rose-Krasnor (1997) ha individuato quattro approcci che
comprendono e distinguono le diverse definizioni di competenza sociale
presenti nella letteratura.
Il primo approccio identifica la competenza con le abilità sociali: in tal
caso l'attenzione è rivolta al riconoscimento delle abilità ritenute necessarie per
individuare i bambini socialmente competenti. Per esempio, Rubin, Bukowski
e Parker (1998) hanno individuato dieci abilità, alcune connesse al piano
manifesto dell'azione e del comportamento, altre a quello interno delle
emozioni e del pensiero: a) capacità di agire positivamente e in modo altruista;
b) inibire comportamenti negativi derivanti dall'immagine che si possiede
dell'altro; c) trovare mezzi diversi e adeguati per dare inizio, mantenere o
concludere un'interazione; e) comunicare in modo chiaro; f) prestare attenzione
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alla comunicazione e alle richieste degli altri, per potervi rispondere
adeguatamente; g) comprendere i pensieri, le emozioni, le intenzioni altrui; h)
esprimere le proprie emozioni in modo appropriato rispetto alla situazione; i)
saper astrarre, durante un'interazione, informazioni sul partner e sull'ambiente;
l) comprendere le conseguenze delle proprie azioni sociali; m) saper costruire
giudizi di tipo morale che possano guidare il proprio comportamento. Al di là
delle abilità che possono essere considerate – tenendo conto anche dei diversi
contesti culturali e sociali che possono essere presi in considerazione –, è
importante sottolineare come un individuo socialmente competente dovrebbe,
oltre che manifestare tali abilità, essere in grado di coordinare e integrare le
dimensioni cui esse si riferiscono, relative all'ambito dell'azione, dell'emozione
e del pensiero (Corsano, 2007).
Come fa notare Rose-Krasnor (1997), l'approccio basato sulle abilità
individua la competenza sociale nell'individuo come un tratto o una capacità,
piuttosto che come emergente dalle interazioni tra gli individui.
È stato inoltre osservato come, concentrando l'attenzione sui singoli
comportamenti, il funzionamento dell'intero sistema di organizzazione delle
azioni volte a soddisfare gli obiettivi potrebbe essere perso. Così, le azioni
possono sembrare competenti quando viste come unità indipendenti, ma il
bambino potrebbe non essere abile nell'integrarle e utilizzarle adattivamente
(Rose-Krasnor, 1997).
Un tale approccio basato sulle abilità porta inevitabilmente alla stesura di
liste di comportamenti potenzialmente ottimali ma, come si può ben dedurre,
per la sua potenziale natura arbitraria e per la sua influenza culturale, esso
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potrebbe generare confusione nel determinare quali siano i comportamenti
effettivamente rappresentativi della competenza sociale.
Il secondo approccio individuato da Rose-Krasnor (1997) considera lo
status sociometrico del bambino all'interno del gruppo dei pari come misura
della competenza sociale. È stata infatti da tempo riscontrata l'associazione tra
il rifiuto da parte dei pari e le situazioni di disadattamento nelle età successive.
Un problema di questo tipo di approccio riguarda la dubbia direzione
della relazione causale tra competenza sociale e status sociometrico: verrebbe
fatto di chiedersi se sia lo status che determini la qualità della competenza
sociale, o non si dia invece l'esatto contrario. Per esempio, un bambino
collaborativo e socialmente accettato dai pari è collaborativo perché accettato o
è accettato perché collaborativo?
I bambini che tendono ad essere trascurati o esclusi dal gruppo dei
coetanei sono generalmente quelli che mostrano un comportamento aggressivo,
che violano le norme (Wood, Cowan e Baker, 2002) e che presentano difficoltà
a scuola (Tomada, 2002). Uno degli aspetti più allarmanti dell'esclusione è che
essa tende a perdurare nel tempo, per cui un bambino escluso dal gruppo dei
coetanei negli anni prescolari tende ad esserlo anche negli anni successivi
(Baumgartner e Bombi, 2005). Maggiormente preoccupante è il fatto che, con
il passare del tempo, il rifiuto da parte dei coetanei ha serie ripercussioni sullo
sviluppo psicologico dell'individuo: riduzione dell'autostima o perfino disturbi
psichiatrici (Coplan, Findlay e Nelson, 2004).
Diversi studi, indagando come si stabilisce lo status tra pari che non si
conoscono, hanno contribuito a determinare la relazione causale tra
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