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INTRODUZIONE
Il mio desiderio di approfondire lo studio della produzione teatrale di Gianni Rodari, forse meno
nota rispetto a quella narrativa e di letteratura per l’infanzia, ma senz’altro fondamentale nel
suo percorso di educatore e scrittore, nasce dall’incontro con il suo testo più celebre, il suo
manifesto: La grammatica della fantasia, scritto nel 1973 e pubblicato da Einaudi.
Tra gli accesi dibattiti del Novecento sul valore e la funzione della fiaba, senza mai dimenticare
le riflessioni gramsciane sulla cultura popolare e subalterna e la lezione di Calvino con Fiabe
italiane, Rodari si focalizza, nella sua Grammatica, proprio su uno dei pilastri di questo
dibattito.
Nel capitolo Le carte di Propp, infatti, Rodari prende in esame questo autore, attraverso, tra le
altre, una delle sue opere principali Le radici storiche dei racconti di fate, del 1949.
È proprio in questo testo che viene esposta la teoria per cui il nucleo più antico delle fiabe
magiche deriva dai rituali di iniziazione in uso nelle società primitive. Da quel momento in poi,
la fiaba ha potuto vivere come tale solo nel momento in cui l’antico rito è venuto meno,
lasciando di sé solo il racconto.
Le fiabe sarebbero quindi nate dalla caduta dal mondo sacro al mondo laico, e poi da qui
sarebbero approdate nel mondo infantile: stesso è il percorso di quegli oggetti prima rituali e
culturali, come le marionette e i burattini, che hanno come loro più lontane antenate le maschere
rituali dei popoli primitivi, che sono poi stati “ridotti” a giocattoli.
In effetti, pare proprio che quel passaggio dal sacro al profano di cui si parla per le fiabe riguardi
anche il teatro stesso: insomma, «dal sacro al profano, dal rito al teatro, dal teatro al mondo dei
giochi», afferma Rodari nel suo testo-manifesto.
Il discorso per l’autore, però, si fa inevitabilmente inscindibile da un contesto concreto, politico:
all’origine e intrinseco nella nostra cultura, quindi, il teatro deve però poi diventare uno
strumento per la presa di coscienza collettiva e di unione cittadina, almeno nella società ideale
disegnata dai Pionieri e raccontata da Rodari nel Manuale del Pioniere, il manuale appunto che
raccoglie dati per la costruzione di una società nuova basata sull’uguaglianza dei popoli, dei
paesi, senza distinzione alcuna di classe, lingua o condizione economica: qui viene infatti
proposto, all’interno del capitolo La filodrammatica un tipo di teatro fatto da, con e per i
ragazzi, in cui educare i giovani artisti e il loro pubblico.
Come declinare allora l’incanto della fiaba, che secondo Propp richiama quel mondo atavico e
rituale, alla concretezza del teatro di cui parla Rodari, con i suoi espedienti e i suoi strumenti
da applicare al reale e al quotidiano?
Forse potremmo trovare una possibile risposta nelle rivisitazioni dell’autore in chiave teatrale
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delle fiabe popolari: da La finta addormentata nel bosco alla anderseniana I vestiti nuovi
de ll ’im pe rator e.
L’autore è infatti convinto di poter partire dalla tradizione e dal folklore di cui questi testi si
fanno portavoce, per dare spazio a un teatro che non si esaurisca nel risultato del “saggio finale”
ma che risplenda soprattutto nella sua fase di ideazione, lavorazione e collaborazione tra i
bambini.
Ed è solo da quello spirito e dall’essenza della fiaba popolare, da cui discende parte della nostra
cultura, che può nascere un teatro veramente in ascolto della società attuale e per la società
attuale, senza distinzione tra grandi e piccini.
Solo dopo queste rivisitazioni, Rodari riuscirà ad arrivare infine alla stesura della sua personale
fiaba teatrale, La storia di tutte le storie, frutto del laboratorio condotto per i bambini di La
Spezia, opera che lui stesso considera il punto più alto del proprio percorso teatrale, in
collaborazione con lo scenografo Emanuele Luzzati, che assieme a Tonino Conte rappresenta
per Genova e il panorama teatrale ligure un punto di riferimento fondamentale, in quanto
fondatore del Teatro della Tosse, uno dei primi spazi, al di fuori dello Stabile, in grado di
immaginare un teatro diverso, che parte anche, semplicemente, dalle proprie possibilità
quotidiane, nell’immaginario della vita domestica.
Ne La storia di tutte le storie, comunque, sono protagoniste alcune delle maschere della
Commedia dell’Arte, come Arlecchino, Colombina e Pulcinella: esse viaggiano nello spazio in
sella all’arcobaleno, tra il Pianeta Zorro, la luna e la terra, per poi comprendere, guardandolo
da lontano, l’urgenza di tornare sul nostro pianeta a lottare contro tutti i padroni prepotenti e
violenti come il loro crudele nemico Pantalone. La rappresentazione si chiuderà in un corteo di
cui saranno protagonisti i bambini spettatori, in cui ognuno potrà protestare contro ciò che ai
suoi occhi appare come una ingiustizia.
È abbastanza chiara, quindi, l’urgenza di Rodari di far prendere coscienza ai bambini delle
ingiustizie sociali e educarli a non cedere a nessun compromesso ma piuttosto a lottare per
eliminare i mali della società.
Iscritto al PCI e vicino al movimento operaio, di certo Rodari non trascura l’aspetto politico e
la coscienza collettiva che il teatro può far scaturire nei suoi spettatori.
Non a caso, l’autore, oltre a cimentarsi nel lavoro di burattinaio («Il lavoro più bello del
mondo!» dice lui), partecipa, dalla fine degli anni Quaranta, tra Bologna e Reggio Emilia, agli
eventi del cosiddetto teatro di Massa, genere teatrale apparso in Italia, nel secondo dopoguerra,
con Marcello Sartarelli: è la prima volta in cui degli spettacoli teatrali vedono i protagonisti
delle lotte sociali salire sul palco e invadere gli spazi pubblici.
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Rodari partecipa a numerosi eventi del genere, come nel 1950, a vedere Domani è gioventù a
Modena, dello stesso Sartarelli fino a scrivere lui stesso opere di teatro di Massa come Stanotte
non dorme il cortile, uno spettacolo che fonde la necessità di mettere a nudo la crudeltà e la
sofferenza di un’infanzia che vive nell’epoca sospesa tra le due guerre alla possibilità, tra il
ricordo e il sogno, di immaginare un futuro più luminoso, forse utopico, ma non per questo
meno rilevante o degno d’ascolto.
L’esperienza di educatore e di maestro di scuola elementare, di scrittore e narratore e quella di
militante politico sono aspetti della personalità di Rodari evidentemente inscindibili: non esiste
ai suoi occhi un teatro-ragazzi che non indaghi e che non rifletta sulle condizioni di classe del
popolo italiano, sulle ingiustizie sociali, pur sempre attraverso quel velo di comicità, ironia e
leggerezza che lo contraddistinguono profondamente.
A questo riguardo, è sembrato interessante e proficuo un confronto con il saggio Per un teatro
proletario di bambini del 1969 di Walter Benjamin, autore di cui Rodari era appassionato e
attento studioso.
Benjamin qui riflette infatti sugli strumenti per un’educazione teatrale fondata sulla coscienza
di classe dei bambini e immagina quindi delle strategie per un teatro nuovo. Riflette insomma,
dal punto di vista teorico, partendo dall’esperienza della studiosa ed educatrice lettone Asja
Lacis che lavora con i bambini-bringati russi, i besprisorniki, a Orël, durante il cosiddetto
“Ottobre teatrale”, tra il 1918 e 1919, su ciò che Rodari tenta di applicare nella sua pratica
educativa nei laboratori teatrali per bambini e ragazzi.
Un teatro diverso, insomma, quello di Rodari, che si confronta con la fiaba, abbraccia il
fantastico e approda nella riflessione politica, un teatro fatto dai ragazzi, con i ragazzi e per i
ragazzi e proprio per questo un teatro vivo, riflessivo, in ascolto, un teatro per il “pubblico di
domani”.
Come può, però, un testo così lontano in quanto a contesto sociale, politico, geografia e
coscienza popolare, riflettersi nel lavoro di un autore che opera nell’Emilia degli anni Sessanta
e Settanta?
Questo elaborato, allora, si propone infine di indagare i punti di contatto, alla luce del percorso
di evoluzione di Gianni Rodari in ambito teatrale, con il saggio di Benjamin: dove le due
poetiche possono comunicare, come possono farlo e in che termini.
Se da un lato infatti, c’è un autore che elabora una teoria convincente per un teatro fatto e visto
da una determinata classe politica e il desiderio conseguente di trasmettere certi ideali anche
alle nuove generazioni, dall’altra c’è un maestro, educatore e artista che sente la forte esigenza
di trasmettere quegli stessi valori proletari ai più piccoli, ma senza che questa trasmissione
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valoriale diventi predominante a tal punto da non condere la possibilità ai bambini di
immaginare, sognare, dare spazio anche all’utopia, se necessario, in quella ricerca curiosa e in
quella lenta costruzione di un mondo migliore, uguale e democratico.
Si apre così, dunque, una riflessione su quelle che sono state alcune figure di riferimento in
quanto a studio sul pubblico teatrale del secolo scorso che possono comunicare con Rodari e il
suo percorso: da Pasolini, che immagina un teatro proletario che passa però per la mediazione
di quelli che lui definisce nel suo Manifesto per un teatro di parola “gli intellettuali avanzati”,
fino a Brecht e l’idea di un teatro volto alla forte presa di coscienza e di posizione netta da parte
del pubblico, da Asja Lacis e la sua pedagogia che sale sul palco, alle riflessioni teoriche di
Benjamin che ripensano un teatro e una società basata sulla centralità e l’importanza della classe
proletaria.
Rodari, allora, che spazio ha in tutto questo? Come incide, se incide, e come contribuisce a
questa riflessione? È quell’“innoffensivo socialdemocratico” di cui parla Goffredo Fofi su
Ombre Rosse nel 1974 o riesce seriamente a fornire un contributo fertile per l’avanzamento
della società verso una democrazia più aperta, viva, in ascolto di tutti e senza distinzione,
nemmeno a livello di generazioni?
Quel che è certo, è che Rodari sceglie di far partire la sua rivoluzione dai bambini, da quel
mondo, cioè, lontano per eccellenza dalle dinamiche di scambio, potere, acquisto, dove tutto
può ancora accadere e dove, in particolare, tutto accade grazie alla fantasia, all’immaginazione,
a quel sesto senso che Rodari affida all’uomo, accanto alla vista, udito, tatto, gusto e olfatto:
quello dell’utopia.
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CAPITOLO I
1. Cenni biografici e produzione letteraria di Gianni Rodari
Molto spesso, della considerevole carriera di Gianni Rodari, nato a Omegna il 23 ottobre 1920,
si ricorda solo la sua attività di autore per bambini, con le sue filastrocche e i suoi romanzi
fantastici. Di certo, questo sguardo verso il mondo dei più piccoli attraverso le rime e la
narrativa è centrale per lo scrittore piemontese, ma sono varie le esperienze che Rodari fa, prima
di arrivare ad accogliere il mondo dell’infanzia come sua dimensione prediletta.
Il padre fornaio, figura di riferimento e di rifugio per lui, tornerà ripetutamente nei suoi testi,
mentre con la madre rigida, molto credente, raramente affettuosa ed espansiva, ha un rapporto
molto meno disteso. Rodari passa i primi anni della sua vita a Omegna, dove frequenta la scuola
elementare, durante la quale si mostra però un bambino poco socievole, timido e schivo, con
varie difficoltà a fare amicizia con i suoi coetanei. Alla loro compagnia preferisce infatti la
guida silenziosa di suo fratello minore Cesare e le letture solitarie nel cortile di casa, ed è forse
proprio questa “solitudine a stimolare in lui la contemplazione e le fantasticherie, e a renderlo
precocemente pensoso”
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.
In questa fase, Rodari accoglie infatti la scrittura come un antidoto alla solitudine, come un
mezzo per esprimere ciò a cui all’interno di un contesto predefinito, come la classe scolastica
o la famiglia, non riesce a dare spazio. Inizia così a scrivere le sue prime poesie, che vengono
poi illustrate da un compagno di scuola. Quando però Gianni scopre le parole di Quasimodo,
Montale, Saba, Ungaretti e Gatto decide di abbandonare la scrittura perché ritiene che non sarà
mai capace di creare opere di tale portata e sceglie allora di lasciarsi guidare, nelle sue
campagne, dalla lettura delle grandi opere della poesia del Novecento che accende in lui il
desiderio di immaginare e scoprire mondi nuovi.
La valle, per un bambino di Omegna quale io sono stato, tutta casa, scuola e oratorio, era un luogo di favole
aeree
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.
Quando Gianni ha solo dieci anni, il padre muore però prematuramente a causa di una
polmonite fulminante:
1
Marcello Argilli, Gianni Rodari. Una biografia, Einaudi, Torino, 1990, p. 5.
2
Ivi, p. 6.