Tra il 1991 e il 1999 l’Italia ha varato il più grande programma
di privatizzazioni su scala europea mai realizzato. I primi esperimenti
hanno riguardato imprese dell’Iri e dell’Eni
1
per poi allargarsi al
settore delle banche (Comit, Credit e Imi) e delle assicurazioni (Ina).
La ristrutturazione ha preso di mira anche i servizi pubblici con la
trasformazione in Spa delle utilities nel campo dei trasporti, delle
telecomunicazioni e dell’energia elettrica. Il “nuovo corso”, così
inaugurato, è proseguito con la privatizzazione di Stet ed Enel, e la
stagione delle privatizzazioni non sembra intenzionata a concludersi
finché lo Stato non avrà venduto tutto il vendibile.
Gli obiettivi perseguiti dai Governi italiani mediante la cessione
delle imprese pubbliche sono, del resto, perfettamente in linea con gli
indirizzi di politica economica promossi dall’Unione Europea
2
e con
gli orientamenti dei Paesi che ne fanno parte. In altri termini, il
progressivo ritiro dello Stato e l’emergere di un nuovo protagonista, il
mercato, non è un fenomeno esclusivamente italiano come spesso
accade: nella maggior parte dei Paesi europei la grande crescita delle
dimensioni e delle inefficienze dell’intervento pubblico ha messo al
primo posto nell’agenda politica dei Governi la sua riforma e,
soprattutto, il suo ridimensionamento.
E’ quasi ovunque caduta la concezione “ottimistica” che aveva
dominato il pensiero riformista sviluppatosi in Europa a partire dalla
fine dell’Ottocento, secondo cui lo Stato sarebbe in grado di porre
rimedio alle disfunzioni del mercato migliorando il benessere
collettivo, mentre si è affermata l’idea che il mercato sia capace di
1
Francesco Lo Passo e Alfredo Macchiati, “La ristrutturazione dell’impresa pubblica in Italia
negli anni Novanta. Il caso di Iri ed Eni”, in Francesco Giavazzi, Alessandro Penati e Guido
Tabellini (a cura di), Liberalizzazione dei mercati e privatizzazioni, Il Mulino, Bologna 1998.
2
Direttiva 96/92/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 dicembre 1996 concernente
norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica.
correggere spontaneamente la maggior parte delle sue “eventuali”
imperfezioni. In generale, il consenso circa la desiderabilità di un
sistema economico basato sulla libera iniziativa e sulla concorrenza da
un lato, e la forte ostilità maturata nei confronti delle imprese
pubbliche dall’altro, hanno spinto i governi a promuovere la
liberalizzazione dei mercati e la privatizzazione delle imprese
pubbliche.
Il dato interessante è che lo slogan “meno stato più mercato”
non soltanto echeggia nei Parlamenti del Vecchio Continente, ma si è
rivelato un elemento fondamentale dell’ortodossia economica globale,
comune ai paesi industriali, alle economie emergenti e a quelle in
transizione. Il dibattito sulle privatizzazioni è balzato agli onori della
cronaca a seguito della politica economica di stampo liberista
intrapresa dai Governi degli Stati Uniti e del Regno Unito a partire
dalla fine degli anni Settanta. Da allora il fenomeno delle
privatizzazioni ha conosciuto una dinamica esponenziale,
coinvolgendo più di cento Paesi
3
e investendo gli ambiti in cui da
sempre operavano le imprese pubbliche: industria, finanza,
telecomunicazioni, servizi di pubblica utilità e, naturalmente, energia.
Questa tendenza “planetaria” verso la privatizzazione è uno dei
sintomi di quell’evoluzione di più ampio respiro che si manifesta nella
generalità dei settori industriali e che consiste nella transizione dal
tradizionale modello di produzione di tipo fordista a quello che viene
comunemente indicato come postfordista
4
. Questa trasformazione in
atto concerne tanto il campo della teoria organizzativa, quanto quello
3
Per un’analisi empirica del processo di privatizzazione nel mondo si veda Domenico Siniscalco,
Bernardo Bortolotti, Marcella Fantini, Serena Vitalini, Privatizzazioni difficili, Il Mulino, Bologna
1999.
4
Cfr. il capitolo intitolato appunto “Dal fordismo al postfordismo” in Marco Revelli, La sinistra
sociale: oltre la civiltà del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 39-100.
delle concrete strategie aziendali ed è particolarmente visibile nei
comparti ad elevata intensità di capitale, quale appunto il settore
elettrico.
Una succinta panoramica sui due modelli costituisce una
premessa indispensabile da un lato, per comprendere il fenomeno
delle privatizzazioni
5
che trova una sua giustificazione storica sia nei
profondi cambiamenti a livello tecnologico e organizzativo che
caratterizzano le moderne economie sia nella evoluzione della
domanda e nella integrazione dei mercati dall’altro, per ricondurlo
nell’alveo di quella rivoluzione spazio-temporale che va sotto il nome
di globalizzazione
6
.
Ma non basta. Per cogliere l’“essenza” del fenomeno
privatizzazione nel settore elettrico, occorre far precedere la
trattazione del tema da una sommaria descrizione delle peculiarità che
contraddistinguono l’“energia elettrica” nel paniere dei prodotti di
consumo. Questo perché gli ostacoli oggettivi che gli “addetti ai
lavori” stanno incontrando nel passaggio dal pubblico al privato e le
legittime resistenze che una tale manovra ha suscitato presso una parte
dell’opinione pubblica dipendono quasi esclusivamente dal fatto che si
ha a che fare con un “bene” un po’ speciale.
5
Non lascia dubbi, a questo proposito, l’affermazione contenuta nell’ultimo rapporto Cnel, dove si
legge: “Alla società postfordista non serve più la tradizionale configurazione di “Stato-soggetto”
cioè un apparato istituzionale che trae la sua legittimazione concreta dall’esercizio efficiente ed
efficace di alcune funzioni anche molto particolari. Non è un caso, probabilmente, che l’avanzare
del postfordismo è stato nei fatti parallelo alla crescita progressiva delle autonomie funzionali e
dall’articolazione funzionale sul territorio di alcuni grandi settori di tradizionale impegno statuale”
(Postfordismo e nuova ricomposizione sociale, Documenti Cnel, n° 26, Roma 2000, pp. 52-53).
6
Per una rassegna delle molteplici definizioni di globalizzazione oggi disponibili, cfr. Malcolm
Waters, Globalization, Routledge, London e New York 1995.
Se ci si proponesse di stilare una “classifica” delle
caratteristiche dell’energia elettrica in ordine di importanza
utilizzando come criterio ordinatore il senso comune, intuitivamente si
individuerebbe nella essenzialità del servizio l’aspetto basilare.
La consapevolezza di trovarsi di fronte ad una risorsa
insostituibile giustifica ampiamente l’attenzione di cui da sempre il
settore elettrico è stato oggetto sia da parte degli operatori privati che
di quelli pubblici e il particolare interesse con cui l’opinione pubblica
ha seguito le alterne vicende che lo hanno visto protagonista della
nazionalizzazione ieri e della privatizzazione oggi.
Prima di addentrarsi nel labirinto delle scelte italiane in campo
elettrico, è parso utile, proprio in ragione della sua funzione strategica,
esplicitare ulteriormente il ruolo che l’energia elettrica ha assunto e
ricopre tuttora in seno alla società.
La sua capacità di innescare trasformazioni tecnologiche in
grado di rivoluzionare in maniera irreversibile gli “usi e costumi” di
intere collettività si è manifestata con evidenza già nella prima metà
del secolo scorso inaugurando l’epoca fordista. Fu proprio allora che
cominciarono a disvelarsi le potenzialità dell’energia elettrica nelle
sue innumerevoli applicazioni e si intrapresero i primi tentativi di
regolamentare un settore il cui andamento poteva influenzare
pesantemente una nazione sotto molteplici aspetti.
In questo quadro, seppur un po’ in ritardo, si inserisce anche
l’Italia con la sua traballante economia del dopoguerra e con la sua
ansia di allinearsi al più presto al resto delle potenze occidentali.
Proprio la situazione contingente del Paese fa emergere la necessità da
parte dello Stato di controllare uno dei rami chiave dell’industria e
innesca i primi roventi dibattiti sulla nazionalizzazione.
Compiendo un salto temporale di una trentina d’anni, si ritrova
l’Italia ancora una volta alle prese con il settore elettrico, ma questa
volta nel tentativo di disfarsene. Il contesto produttivo si è
completamente modificato e per tenere il passo in un ambiente
ultracompetitivo e globalizzato occorre rendere l’organizzazione
elettrica “agile e snella”, liberandola dai lacci di una burocrazia troppo
lenta e troppo garantista.
Nell’era postfordista la collettività si è ormai abituata a
dipendere dall’energia elettrica, ma la sua indispensabilità assume
sembianze completamente differenti. Di fronte alle richieste
diversificate di una utenza progressivamente più interconnessa ed
esigente la parola d’ordine diventa privatizzare. Solo così, si pensa
infatti, l’industria elettrica sarà in grado di soddisfare con tempismo la
propria clientela e nello stesso tempo fornire i giusti stimoli alle
imprese italiane che si dibattono nell’arena del mercato globale.
In sintesi, cambiano i contesti produttivi e organizzativi, si
modifica il rapporto tra energia elettrica e società, ma ciò che resta
comunque invariata è la rilevanza strategica di un bene sempre più
prezioso e raro.
Nei capitoli che seguono verranno illustrate le tappe che hanno
segnato questo processo evolutivo in campo energetico e le
implicazioni che il passaggio dalla prospettiva fordista a quella
postfordista ha comportato per il settore elettrico italiano.
Quest’ultimo aspetto si risolverà nella descrizione delle motivazioni
che hanno condotto ai due eventi “simbolo” della storia nazionale
dell’industria elettrica, la nazionalizzazione e la privatizzazione.
Questi termini, al di là del loro significato “tecnico”,
racchiudono in sé due concezioni diametralmente opposte – ma
perfettamente adeguate al contesto in cui si concretizzano – della
funzione sociale dell’energia elettrica. Sarà interessante rilevare come
le giustificazioni addotte dai sostenitori dell’una negli anni Cinquanta
siano riprese trent’anni dopo per far valere le ragioni dell’altra…
CONCETTI GENERALI
1 Il modello fordista: l’ottimismo del sistema chiuso
Il modello taylorista-fordista ha dominato il contesto produttivo
industriale per circa due terzi di secolo, dagli inizi del Novecento fino
alla metà degli anni Settanta. Come suggerisce la locuzione stessa, i
tratti fondamentali di questo paradigma tecnico-organizzativo
derivano per un verso dalle elaborazioni teoriche di Frederick Taylor
7
e per l’altro dalle esperienze imprenditoriali concrete di Henry Ford
8
.
L’azione sinergica di questi “innovatori” di inizio secolo
sembrò rappresentare una risposta coerente con i mutamenti
economici, tecnologici e sociali del tempo, prima negli Stati Uniti e
successivamente negli altri Paesi. L’epoca a cavallo del XIX e XX
secolo segnò infatti il superamento del sistema di produzione
artigianale e l’avvento della produzione di massa
9
.
All’origine della grande impresa vi fu il prepotente sviluppo
innovativo registratosi nell’ambito dei processi produttivi meccanici,
elettrici e chimici a partire dal 1870. Tra i progressi tecnici che
concorsero a determinare il passaggio all’industria moderna e posero
le basi per una produzione di serie, il più significativo fu
7
Frederick Winslow Taylor, Scientific Management, Harper & Brothers, 1947; tr. it.:
L’organizzazione scientifica del lavoro, Etas-Kompass, Milano 1967.
8
Henry Ford, My life and work, (in collaborazione con Samuel Crowther), Arno Press, New York
1973; tr. it.: La mia vita e la mia opera, La Salamandra, Milano 1980.
9
Cfr. Michael J. Piore e Charles Sabel, The Second Industrial Divide.Possibilities for Prosperity,
Basic Books, New York 1984; tr. it.: Le due vie dello sviluppo industriale. Produzione di massa e
produzione flessibile, ISEDI Petrini, Torino 1987, pp. 47-88.
l’introduzione dell’American System
10
, i cui tratti caratteristici
consistevano nella standardizzazione dei prodotti e dei mezzi di
produzione, nella disponibilità sistematica di pezzi intercambiabili e
nella tendenziale progressiva specializzazione delle macchine
utensili
11
.
Questi punti di forza dello sviluppo industriale rappresentavano
una vera e propria rivoluzione delle pratiche di produzione fino ad
allora vigenti. All’interno delle officine, l’attività produttiva si
caratterizzava infatti per l’utilizzo di macchinari generici per lotti
molto ridotti e per l’impiego di una forza lavoro altamente
specializzata nell’assemblaggio di componenti provenienti da botteghe
artigiane che lavoravano su commesse individuali.
Ai miglioramenti tecnologici si accompagnò il progressivo
ingrandimento dei complessi industriali. La concentrazione di
manodopera in grandi stabilimenti, se da un lato appariva come la
soluzione più adeguata alle esigenze di una produzione su larga scala,
dall’altro cominciava a porre problemi organizzativi nuovi per i quali
non potevano più valere le vecchie soluzioni di origine artigianale.
Sussisteva una ormai non più tollerabile contraddizione tra le
potenzialità produttive di una industria alle soglie della produzione di
massa e i modi ancora arcaici della sua conduzione. Soprattutto non
esistevano metodi rigorosi e uniformi per impostare il lavoro ed erano
10
Cfr. David A. Hounshell, From American System to Mass Production: the development of
manufacturing technology in the United States.1880-1932, The Johns HopKins University Press,
Baltimora 1987.
11
Sulla nascita dell’impresa moderna si veda anche Alfred D. Chandler jr, “Stati Uniti:
l’evoluzione dell’impresa”, in Storia economica Cambridge, vol.7, L’età del capitale, tomo II,
Stati Uniti. Giappone. Russia, Einaudi , Torino 1980, pp. 89-169.
gravemente carenti anche le procedure amministrative per calcolare i
costi delle singole fasi produttive
12
.
Fu proprio a questa situazione che Frederick Taylor, ingegnere
meccanico a diretto contatto con i problemi della nascente industria di
massa, tentò di porre rimedio attraverso l’organizzazione scientifica
del lavoro o taylorismo, dal nome del suo ideatore.
Fautore di una concezione positivistica della scienza, Taylor si
affida al postulato del one best way, ovvero al principio secondo cui
per ogni problema esiste sempre una ed una sola soluzione ottimale
che deve essere ricercata mediante l’applicazione del metodo
scientifico. Attraverso questa via è possibile elaborare una formula di
validità universale mediante la quale attuare una profonda
razionalizzazione dell’attività produttiva. Non a caso il taylorismo
viene classificato tra le teorie organizzative razionali insieme al
modello della Burocrazia weberiana e al modello dell’Administrative
Management
13
.
Assumendo come presupposto che per ottimizzare l’impiego
delle risorse occorra colmare il gap conoscitivo tra datore di lavoro e
lavoratore circa l’organizzazione del processo produttivo, Taylor
ritiene che la direzione aziendale, attraverso i suoi tecnici, debba
assumere su di sé il compito di definire i tempi e i metodi di
esecuzione di ogni mansione, fino ad allora lasciati al “libero arbitrio”
del singolo operaio.
12
Sulle caratteristiche della produzione artigiana e sulla cesura consumatasi con il passaggio alla
produzione di massa si veda il capitolo dedicato all’ascesa e al declino della produzione di massa
in James P. Womack, Daniel T. Jones, Daniel Roos e Donna Sammons Carpenter, The machine
that changed the world, Macmillan New York 1990; tr. it.: La macchina che ha cambiato il
mondo, Rizzoli, Milano 1991, pp. 23-53.
13
Per un quadro generale sulle teorie classiche dell’organizzazione del lavoro si veda Giovanni
Costa, Raoul C. D. Nacamulli (a cura di), Manuale di organizzazione aziendale, vol. I, “Le teorie
dell’organizzazione”, UTET, Torino 1996, parte II, cap. 3.
Il primo step consiste nel suddividere l’intero ciclo di
produzione nei suoi elementi costitutivi. Successivamente occorre
calcolare con precisione quanto tempo è in media necessario per
completare ogni operazione semplice. Una volta individuato il ritmo
ottimale di lavoro mediante questa rilevazione “scientifica” da parte
dei cronometristi, esso viene imposto al lavoratore come una norma
universale e astratta alla quale deve rigorosamente attenersi nello
svolgimento della mansione elementare impostagli dall’alto.
Questo capovolgimento delle pratiche organizzative comporta
una forte rottura rispetto al passato poiché implica una netta
separazione tra progettazione ed esecuzione dei compiti. Alla
manodopera vengono assegnati lavori ripetitivi, parcellari e
standardizzati, dove la mancanza di discrezionalità e di contenuti
intelligenti è prevista come condizione necessaria per ottenere una
produzione più intensa e uniforme. A fronte di questa
spersonalizzazione del processo di lavoro la fabbrica si trasforma in
una struttura gerarchicamente ordinata e regolata secondo procedure
strettamente formalizzate, insomma in una sorta di grande burocrazia
weberianamente concepita.
In altre parole, il taylorismo permette di compiere sulla forza
lavoro la stessa operazione che l’American System aveva realizzato
sulle componenti fisiche del prodotto, ovvero la standardizzazione dei
comportamenti umani. Questa procedura consente al datore di lavoro
di ricorrere ad una manodopera “altamente dequalificata” e facilmente
sostituibile, a cui si richiedono capacità ed esperienze minime, che
comporta scarsi costi di addestramento e verso cui è possibile
esercitare la politica retributiva “del bastone e della carota”.
Questa tipologia “ideale” di classe operaia delineata da Taylor
non si discosta poi molto dal quella che Ford impiegava nelle sue
fabbriche e alla quale richiedeva l’erogazione di uno sforzo
elementare, costante e continuamente controllabile rispetto a standard
predefiniti di efficienza. Per questa ragione il taylorismo
14
viene a
buon diritto ricompreso nel più ampio sistema fordista di produzione.
L’origine storica di tale sistema risale al 1913, quando
l’imprenditore Henry Ford, pioniere dell’industria dell’auto e
convinto sostenitore della necessità di una produzione in serie con
pezzi standardizzati, adottò nel suo stabilimento di Highland Park a
Detroit l’assembly line, ovvero la catena di montaggio semovente.
Questa tecnica era peraltro già impiegata nel sistema di produzione di
fabbrica: la sua intuizione fu quella di applicarla su vasta scala,
diventando il principale artefice della sua diffusione. L’utilizzo della
catena di montaggio permise infatti a Ford di realizzare la prima
esperienza di produzione di serie che si concretizzò nella costruzione
del celebre Modello T, l’automobile che segnò l’inizio del consumo di
massa
15
.
Incorporando nella tecnologia meccanica della catena il ritmo
di lavoro imposto alla manodopera Ford, indirettamente, perfezionava
il taylorismo. L’impresa fordista rappresentava una sorta di traduzione
pratica dei principi dell’organizzazione scientifica del lavoro nella
grande industria a produzione di massa, decisa a sfruttare le nuove
tecnologie di inizio secolo. Anzi, American System e taylorismo
14
Per una attenta analisi sociologica del taylorismo si veda Giuseppe Bonazzi, Storia del pensiero
organizzativo, “Collana di sociologia”, Franco Angeli, Milano 1995, parte I, cap. 1.
15
Scrive Revelli: “ Fu così che Henry Ford trasformò l’auto da oggetto di élite in prodotto per il
consumo di massa, applicando sistematicamente la logica delle economie di scala, standardizzando
il prodotto e massificandone la produzione a livelli fino allora impensabili, forzandola ben oltre i
volumi ragionevolmente immaginabili e offrendo il prodotto auto a categorie sociali che mai
avrebbero pensato di poterselo permettere.” (M. Revelli, La sinistra sociale, cit., pp. 41-42).
avevano costituito le necessarie premesse per l’introduzione di questo
nuovo paradigma produttivo che soppiantò definitivamente il sistema
artigianale delle origini e inaugurò l’era della grande impresa
capitalistica.
Gli esperimenti di Ford, naturalmente, non rimasero circoscritti
al ristretto ambito di Highland Park, ma rapidamente si diffusero in
campo manifatturiero determinando notevoli aumenti di produttività
nel settore e la conseguente espansione dell’industria americana. Il
nuovo modello socio-economico addirittura uscì dai confini del
mondo industriale costituendosi come riferimento anche per la
pubblica amministrazione e per la società nel suo complesso e
imponendosi per gran parte del XX secolo come modalità operativa
dominante delle economie avanzate. Il ruolo-chiave ricoperto da Ford
nello sviluppo dell’economia industriale moderna ha portato alla
coniazione del termine fordismo per indicare questo nuovo regime
produttivo nato dalla combinazione dell’organizzazione taylorista con
la crescente meccanizzazione dei processi produttivi e la
standardizzazione dei prodotti finali.
La scelta di avviare una produzione di massa, aumentando
notevolmente i volumi produttivi, rispondeva alla diffusa convinzione
che la riduzione di costo dei prodotti, resa possibile dal
conseguimento di economie di scala, avrebbe reso il mercato
accessibile a strati sempre più larghi di consumatori. Il
raggiungimento di questo obiettivo presupponeva da una parte la
fornitura di un output omogeneo e uniforme, dall’altra esigeva
impianti di grandi dimensioni per poter ampliare la produzione. Le
industrie si riorganizzavano con lo scopo di produrre sempre di più e a
costi sempre minori, avviando processi di concentrazione sia
orizzontale – raggruppando più imprese operanti nello stesso settore,
magari per unificare gli approvvigionamenti di materie prime o le reti
di vendita – sia verticale – associando o controllando altre industrie
connesse, ad esempio quelle che fornivano componenti necessari per il
loro ciclo produttivo.
La realizzazione di prodotti standard, invece, era resa possibile
dall’impiego della catena di montaggio, ovvero di un tipo di
tecnologia che Thompson
16
, teorico dell’azione organizzativa,
definisce di concatenamento
17
. Questa tecnologia risulta molto
efficace quando si devono produrre oggetti complessi, sempre uguali a
se stessi e in grande quantità; le operazioni vengono strutturate in
serie, in modo rigido e predeterminato lungo un percorso lineare e
scandito nei tempi. Il modello fordista, presupponendo che la massima
efficienza del sistema possa essere garantita solo dalla sua
prevedibilità, affida ad apposite strutture di staff il compito di definire
i programmi cui devono attenersi gli operatori di linea. Questo metodo
offre la garanzia di una produzione regolare e costante, in conformità
con piani prestabiliti e consente un alto grado di pianificabilità nella
gestione delle risorse.
D’altro canto la parcellizzazione del prodotto e dei processi
fraziona le attività in modo così minuto che diventa indispensabile una
gestione coordinata delle operazioni e del loro sincronismo. Il forte
bisogno di integrare in modo consistente e continuativo un sistema
16
James D. Thompson, Organizations in Action, McGraw-Hill, Berkeley 1967; tr. it.: L’azione
organizzativa, ISEDI Petrini, Torino 1988.
17
“Una tecnologia di concatenamento (long-linked technology) implica un’interdipendenza seriale,
nel senso che un atto Z può essere espletato solo dopo la completa riuscita di un atto Y, che a sua
volta dipende da un atto X, e così via. L’esempio emblematico della razionalità tecnica, la catena
di montaggio della produzione in serie, rivela questa natura di concatenamento. Essa si avvicina
alla perfezione strumentale quando produce un solo tipo di prodotto standard, in modo ripetitivo e
a passo costante” (ibidem, p. 85).
molto esteso e differenziato di interdipendenze implica, a sua volta, un
alto livello di formalizzazione delle strutture produttive. Questa
esigenza si riflette in una divisione burocratica del lavoro, con confini
precisi tra le mansioni, e determina la necessità di un ordinamento
gerarchico per cui il potere di comando di alcuni soggetti ordina il
comportamento di altri.
Il metodo di produzione fordista richiede una notevole capacità
di supervisione da parte dell’impresa di tutte le variabili rilevanti, non
solo interne, ma anche esterne e, per tale ragione, appare connotato,
nei suoi risvolti organizzativi e tecnologici, da una forte rigidità. La
pretesa di neutralizzare l’interdipendenza attraverso un ferreo
controllo preventivo delle relazioni e delle operazioni rende il nucleo
tecnologico molto poco flessibile e incapace di adattarsi ad eventuali
perturbazioni.
L’istintiva pulsione di questo sistema organizzativo, finalizzato
all’efficienza attraverso la prevedibilità, è allora quella di chiudersi
ermeticamente, cioè di porre al riparo il proprio processo operativo
dalle influenze provenienti dall’ambiente
18
. Gli stabilimenti fordisti si
riempiono di aree di stoccaggio per stabilizzare i flussi in entrata e in
uscita e per isolare un segmento produttivo dall’altro onde evitare che
un guasto in un punto si propaghi all’intero sistema
19
.
18
“PROPOSIZIONE 2.1 Secondo razionalità, le organizzazioni cercano di chiudere
ermeticamente i loro nuclei tecnologici alle influenze ambientali” (ibidem, p. 89).
19
“PROPOSIZIONE 2.2 Secondo razionalità, le organizzazioni cercano di costituire protezioni per
ridurre l’impatto (buffer) dalle influenze ambientali circondando i loro nuclei tecnici con
componenti di input e di output” (ibidem, p. 91).