4
Partorito dalla mente geniale di un dipendente della Toyota e da questa sviluppato
(prese infatti il nome di Modello Toyota o Toyotismo) questo nuovo tipo di
organizzazione della produzione è stato considerato l’erede del modello fordista e la
nuova tappa dell’evoluzione del moderno capitalismo, tanto da essere considerato
espressione di una nuova forma di capitalismo non organizzato.
Il merito della sua diffusione va certamente diviso tra la Toyota, meritevole di averlo
pensato e sviluppato caparbiamente in anni durissimi per l’industria automobilistica
giapponese, e le numerose industrie nipponiche che lo hanno esportato in tutto il
mondo attraverso i transplant (filiali produttive situate all’estero). Tra queste
certamente la Honda Motor Company ricopre un ruolo fondamentale: con oltre
ottanta stabilimenti nei cinque continenti, che producono auto, moto e macchine
agricole, l’impatto che essa ha avuto sull’industria delle due ruote, e in generale
sull’industria dei trasporti, è stato impressionante.
Nonostante le ferite della guerra, nonostante i limiti imposti dalla gestione americana
postbellica e i tentativi del Miti (il Ministero Giapponese dell’Industria e del
Commercio Estero) di imporre una politica di sviluppo che privilegiasse l’industria
pesante, la Honda fu in grado, in soli quindici anni dalla sua nascita, di sfidare e
battere il meglio della produzione europea sulle piste del Continental Circus e di
impiantare uno stabilimento nel cuore del più importante e vivace mercato del
mondo, quello europeo, vera culla del motociclismo in ogni sua forma ed espressione.
Sono passati quaranta anni, ma il primato della Honda è tuttora indiscusso. Il modello
Toyota si è affermato in tutti i settori dell’industria, a cominciare dal settore che
5
rappresenta l’avanguardia della tecnologia, applicata al prodotto di massima
diffusione: l’automobile.
Eppure proprio l’industria dell’automobile, dopo aver faticosamente abbandonato il
modello fordista, che essa stessa aveva ideato, e aver introdotto le nuove tecniche di
produzione flessibile, dopo aver sperimentato un ventennio di età dell’oro, ora si
trova di fronte ad una nuova crisi, che ha radici lontane e tuttavia profonde.
L’evoluzione della società occidentale è stata accompagnata, e talvolta preceduta,
dall’evoluzione dell’industria dei trasporti: la mobilità delle persone e delle merci ha
condizionato il nostro modo di vivere, lavorare, abitare, ha accompagnato e favorito
la crescita economica, ha cambiato il nostro legame con il territorio, ha modificato la
divisione spaziale del lavoro, ha mutato profondamente il paesaggio. Ha,
curiosamente, accorciato le distanze che ci separano gli uni dagli altri ma allo stesso
tempo ha aumentato, ora che possiamo raggiungere ogni luogo comodamente seduti
nella nostra automobile, il tempo che impieghiamo per spostarci da un luogo all’altro,
ad esempio dalla casa al posto di lavoro.
Se a guidare lo sviluppo dell’industria dell’auto è stato in passato il desiderio di
raggiungere rapidamente e comodamente ogni luogo, di poter scegliere quando
partire, che percorso fare, dove fermarsi, di godere cioè della flessibilità che i mezzi
di trasporto pubblici non erano e non sono in grado di offrire, ora che la congestione
del traffico ha raggiunto livelli mai sperimentati prima in occidente l’automobile non
è più in grado di rispondere ai nostri bisogni. Il ritmo incalzante della vita moderna
richiede una flessibilità che l’automobile non può più offrire.
6
Senza contare che l’impatto sull’ambiente di 220 milioni di veicoli nella sola Unione
Europea
1
, costituiti per la maggior parte da automobili ad uso privato, sta avendo tra
le sue conseguenze l’adozione di severe misure di limitazione in numerosi Paesi,
come blocchi del traffico, circolazione a targhe alterne e così via.
L’industria dell’automobile, seppure impegnata ad offrire vetture poco inquinanti, in
accordo con la normativa antinquinamento europea vigente, non può evitare che
molti automobilisti, che sono costretti a restare ogni giorno intrappolati per ore sulle
principali arterie di collegamento tra le periferie urbane e le grandi aree
metropolitane, scelgano di abbandonare l’auto in favore di mezzi di trasporto
alternativi, più flessibili e meno inquinanti. Veicoli oltretutto meno costosi, dal
momento che gli sforzi che i produttori di auto fanno nel tentativo di offrire vetture
sempre più lussuose, accessoriate, rispettose dell’ambiente e tuttavia performanti (a
che scopo, ci si chiede, visto che sono destinate a muoversi a passo d’uomo per la
maggior parte del tempo) si riflettono sul loro prezzo finale e sui costi di gestione.
Questi sono alcuni dei motivi che stanno spingendo molti automobilisti ad
abbandonare l’automobile, con ovvie conseguenze sul mercato dell’auto, in favore di
veicoli più economici, pratici, flessibili, divertenti e non ultimo poco inquinanti come
i Powered Two-Wheelers (veicoli a due ruote motorizzati). L’industria delle due
ruote sta infatti vivendo una seconda giovinezza, dopo essere stata protagonista della
ricostruzione postbellica e del boom economico degli anni sessanta, e questo grazie
anche alla intensa competizione tra i produttori europei, che hanno accompagnato la
1
Fonte: Istat
7
nascita e la crescita di tutto il settore dall'inizio del secolo, e quelli giapponesi, che
hanno introdotto nuovi metodi di produzione e nuove tecnologie.
Lo scopo del presente lavoro è quindi quello di analizzare, da un lato, l’industria e il
mercato delle due ruote in Europa, per ricostruirne la storia e le tappe evolutive, e
soprattutto per comprendere il cambiamento che il settore dei trasporti, e la società
con esso, sta attraversando per far fronte ai problemi della moderna mobilità urbana;
dall’altro quello di osservare da vicino la più grande tra le industrie delle due ruote al
fine di raccontarne la storia, descriverne le caratteristiche, le scelte e la filosofia che
l’hanno resa leader sui mercati di tutto il mondo, ponendo una attenzione particolare
allo stabilimento italiano di Atessa, in Abruzzo, e al distretto industriale che la Honda
Italia ha potuto faticosamente creare attorno a sé.
Nel primo capitolo verrà quindi raccontata la storia dell’industria europea della
motocicletta e del mercato europeo delle due ruote, per offrire un quadro di
riferimento in cui è inserita la trattazione delle tematiche relative alla mobilità urbana
e all’impatto ambientale dei mezzi di trasporto, confrontando criticamente pregi e
difetti di automobili e motociclette.
Nel secondo capitolo, dopo aver raccontato la genesi del modello fordista, si cercherà
invece di ricostruire le tappe che hanno portato alla nascita del sistema di produzione
flessibile ideato dalla Toyota che ha così profondamente mutato l’industria dei
trasporti, divenendo in breve tempo la caratteristica distintiva delle industrie
giapponesi che più di ogni altra ha permesso loro di imporsi sui mercati di tutto il
8
mondo, con una attenzione particolare alle industrie motociclistiche, capaci di
conquistare un primato assoluto nel mercato europeo delle due ruote.
Inoltre si cercherà di spiegare le condizioni socio-politiche che hanno permesso
all’industria giapponese di rinascere dopo le devastazioni subite nel biennio 1944-45
e successivamente di crescere ed espandersi ad un ritmo ben superiore a quello
dell’industria occidentale.
Successivamente, nel capitolo terzo, l’attenzione si sposterà sulla Honda Motor
Company, la più grande industria delle due ruote al mondo, per raccontare la storia e i
successi della società e del suo fondatore Soichiro Honda, ma soprattutto per
descriverne in dettaglio la filosofia produttiva, il “metodo Honda”, strettamente
derivato dal modello Toyota e basato sulle più diffuse tecniche di produzione
flessibile, ma permeato delle rivoluzionarie idee del suo geniale fondatore. L’analisi
dell’insediamento italiano della Honda ad Atessa permetterà di osservare da vicino
l’applicazione di tali tecniche e di comprendere le differenze di approccio alla
produzione tra i produttori occidentali e l’industria nipponica, dall’ossessione per la
qualità (Kaizen) alla scelta e formazione dei fornitori, dalle tecniche di
approvvigionamento Just in Time fino al sistema di rintracciabilità denominato
“rumba”, grazie anche alla testimonianza del vice presidente dello stabilimento
italiano, il dott. Silvio Di Lorenzo.
Non meno importante è comprendere in quale modo e con quale sforzo la Honda
Italia Industriale è riuscita ad insediarsi in un territorio, quello abruzzese, tipicamente
agricolo e privo di un tessuto industriale e dei relativi servizi, grazie alla ferrea
9
volontà di creare e far crescere numerosi partner e fornitori locali e contribuendo così
allo sviluppo industriale della regione.
Nel capitolo quarto, dopo aver spiegato la genesi e il funzionamento del distretto
industriale nell’economia postbellica, in particolare in quella italiana, verrà quindi
descritto dettagliatamente il distretto nato attorno allo stabilimento Honda, le
caratteristiche che lo differenziano dal tipico distretto marshalliano e il
funzionamento della sua rete di subfornitura.
Per la stesura del presente lavoro sono state utilizzate fonti numerose e tra loro
differenti: oltre alla ampia bibliografia disponibile, in lingua italiana e inglese, per
quanto riguarda gli aspetti economici dell’argomento, quali la produzione snella, il
postfordismo, le peculiarità dell’economia giapponese e le caratteristiche
dell’economia distrettuale, si è attinto alle numerose pubblicazioni delle associazioni
dei Costruttori (Acem e Ancma) e alle statistiche, presenti in rete, rese disponibili da
queste ultime, dalle istituzioni europee, quali il Libro Bianco dei Trasporti, dal
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, quali il Piano Generale dei Trasporti e
della Logistica, e dall’Istituto Nazionale di Statistica. Inoltre molte informazioni
relative all’evoluzione del mercato delle due ruote e ai temi dell’impatto ambientale e
della mobilità sono state reperite in diversi numeri della rivista “Motociclismo”, edita
da Edisport, mentre per quanto concerne i dati relativi alla Honda Motor Company e
alla filiale italiana, la Honda Italia Industriale, essi sono stati per lo più raccolti nel
corso della visita effettuata allo stabilimento di Atessa (Ch), integrati da quanto
disponibile sulla storia della società nel sito internet della stessa.
10
Infine utili informazioni sono state raccolte in pubblicazioni relative al mondo delle
due ruote e ai suoi protagonisti, in particolare la biografia di Soichiro Honda
realizzata da Yves Derisbourg e la Storia della Moto di Massimo Clarke.
11
CAPITOLO PRIMO
L’INDUSTRIA EUROPEA DEI POWERED TWO-WHEELERS
12
1.1 CENNI STORICI
All’indomani del secondo conflitto mondiale, di fronte al desolante spettacolo offerto
dalle macerie di quella che era stata una fiorente industria, convertita alla produzione
bellica prima e bombardata e abbandonata a se stessa dopo, la necessità impellente di
ricostruire ciò che era andato perduto, il desiderio di voltare pagina e di lasciarsi la
guerra alle spalle spinsero uomini intraprendenti e geniali a creare, dal nulla e con
scarsissimi mezzi a disposizione, oggetti che hanno lasciato un segno indelebile nel
nostro passato. Oggetti che non solo esprimevano tutta la genialità dei loro ideatori
nella loro funzionalità, ma che altresì mostravano, nel design, nelle forme e nei
materiali tutta la creatività e il gusto tipicamente italiani, capaci di emergere ed
esprimersi anche nei momenti più bui. Uno di questi oggetti vedeva la luce nel 1946
grazie all’intraprendenza di Enrico Piaggio: la Vespa.
Gli stabilimenti Piaggio, convertiti durante la guerra alla produzione di motori e
accessori per l’aeronautica, alla fine del conflitto utilizzarono i motori d’avviamento
di loro produzione, e di cui avevano pieni i magazzini, per motorizzare uno scooter in
lamiera dal design ricercato e piacevole. La robustezza del mezzo, unitamente al
prezzo contenuto e ai consumi modesti, doti indispensabili in un Paese che a stento
cercava di rialzarsi, in cui il carburante scarseggiava e le strade erano a dir poco
dissestate, ne decretarono il successo. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza, la
Vespa resta in produzione, con il suo caratteristico motore a due tempi e la scocca in
lamiera, migliorata ed evoluta, certo, ma sempre fedele al disegno originale.
13
Grazie alla Vespa e alla sua diffusione (si dice giustamente che motorizzò l’Italia
intera) gli italiani scoprirono un modo nuovo di viaggiare, di lavorare, di vivere, e
Piaggio è diventata, ed è rimasta, la prima industria italiana nel settore delle due
ruote.
2
L’idea di un veicolo a motore a due ruote è in realtà ben più vecchia, potendosi
collocare verso la fine del XIX secolo
3
, e dai primi esprimenti alla realizzazione e
commercializzazione dei primi modelli il passo fu piuttosto breve: già all’inizio del
XX secolo erano molti i produttori, europei e americani, ad offrire mezzi veloci e
relativamente affidabili, destinati a temerari dal ricco portafoglio che si sfidavano in
numerose gare di durata. Il successo delle corse diede slancio alla produzione e
alimentò l’industria europea e americana delle due ruote fino al secondo conflitto
mondiale, dal quale molte imprese uscirono distrutte. L’industria italiana, in testa
nelle competizioni come nella produzione e nell’innovazione tecnologica grazie a
marchi come Moto Guzzi, Gilera, Aermacchi, alla fine del conflitto era in ginocchio,
ma, come detto, grazie all’intraprendenza e alla determinazione tutte italiane, la
rinascita era solo questione di tempo. E se nel 1946 vennero immatricolate in Italia
4300 motociclette, soltanto 10 anni dopo, in pieno boom economico, le
immatricolazioni toccavano le 270 mila unità.
Oggi questo numero è cresciuto fino a raggiungere le 524 mila immatricolazioni
dell’anno 2000, restituendo all’Italia il primato del primo mercato in Europa.
2
Dati ANCMA
3
il primo prototipo di veicolo a due ruote a motore si deve a Daimler e risale al 1885.
14
L’industria europea dei PTW (Powered Two-Wheelers)
4
conobbe una rapida ripresa
negli anni cinquanta, contestualmente alla ripresa delle competizioni dopo
l’interruzione dovuta alla guerra. I produttori italiani, tedeschi e inglesi si sfidavano
sulle piste di tutta europa con mezzi strettamente derivati da modelli di serie e questo
favorì naturalmente il progresso tecnico dei prodotti commercializzati. Ma a partire
dai primi anni sessanta l’industria europea dovette confrontarsi con i produttori
giapponesi, capaci nel volgere di poche stagioni dal loro arrivo nel Continental
Circus
5
di sconfiggere la migliore produzione europea sul suo stesso terreno, quello
delle prestazioni. Giunti per la prima volta sull’isola di Man per competere nel
leggendario Tourist Trophy nel 1959, in soli due anni furono in grado di stravincere
le categorie 125 e 250, ed iniziarono un dominio destinato a durare fino ai giorni
nostri.
Le difficoltà mostrate dall’industria europea nel far fronte ad una sfida di tale portata
non tardarono a manifestarsi: di fronte al crescente gradimento mostrato dal mercato
del vecchio continente verso i bolidi giapponesi i produttori italiani e inglesi si
dimostrarono del tutto impreparati e sprofondarono in una crisi che costò il
fallimento, nel decennio successivo, di gran parte dei marchi storici della produzione
d’oltre manica (AJS, BSA, Triumph e Norton), e di alcuni gloriosi marchi italiani
come Mv e Mondial.
Le importazioni di veicoli giapponesi erano nel frattempo cresciute al punto che i
vertici delle istituzioni economiche dell’allora Comunità Economica Europea
4
Veicoli a due ruote motorizzati.
5
Il campionato del mondo di velocità.
15
ottennero l’emanazione da parte della Commissione di una direttiva che poneva
pesanti restrizioni alle importazioni di motocicli per salvaguardare ciò che restava
dell’industria della motocicletta.
La produzione italiana, infatti, che nel 1955 aveva toccato le 600 mila unità, dieci
anni più tardi non raggiungeva i 510 mila pezzi.
Nel 1974, grazie all’emanazione della sopracitata direttiva, superò invece il milione
di pezzi, a testimonianza del fatto che solo le barriere, tariffarie e non, potevano
permettere all’industria europea di sostenere l’attacco portatole dai giapponesi.
L’Europa restava quindi un mercato di fondamentale importanza: da un lato perché
rappresentava la culla dell’industria motociclistica e del motociclismo sportivo, ben
radicato nella cultura locale e nell’immaginario collettivo, dall’altro perché
rappresentava un potenziale mercato capace di assorbire milioni di veicoli l’anno, e
quindi era lo sbocco naturale di una industria fiorente e aggressiva, ma costretta entro
confini nazionali troppo stretti, come quella nipponica.
I giapponesi, Honda in testa ma poi anche Suzuki e Yamaha, sfidarono i rivali
europei dapprima nelle competizioni, scelta dettata dal desiderio di mostrare la
propria abilità tecnica, poi nella produzione in grande serie, soprattutto in quelle
cilindrate in cui eccelleva la produzione del vecchio continente: le piccole cilindrate,
da 125 a 350 centimetri cubici, in cui era fondamentale il costo ridotto e l’economia
d’uso, e le maximoto, da oltre 750 centimetri cubici, nelle quali era importante il
raggiungimento di grandi prestazioni abbinate ad una elevata affidabilità.
16
Negli anni settanta i quattro colossi nipponici (Honda, Suzuki, Yamaha e Kawasaki)
dominavano ormai il mercato europeo, e poco potevano fare i piccoli e poco flessibili
produttori italiani come Moto Guzzi, Ducati o Mv (che chiuse i battenti sul finire del
decennio).
Passate attraverso la gestione statale (Moto Guzzi) e l’amministrazione controllata
(Ducati), le case italiane sono sopravvissute, al contrario di quelle inglesi, e
successivamente sono riuscite a tornare in auge grazie soprattutto alle vittorie
sportive di Ducati e di Aprilia, che recentemente è diventata proprietaria dei marchi
Moto Guzzi e Laverda.
La sfida si era nel frattempo spostata, all’inizio degli anni ottanta, su di un nuovo
terreno, quello delle piccole 125 sportive a due tempi, un mercato di nicchia che
l’arrivo in Europa di Honda nei primi anni settanta aveva rivitalizzato. Questo ha
giovato enormemente a produttori italiani di moto e ciclomotori a due tempi, come
Aprilia e Malaguti, che, seppure non in grado di offrire la stessa qualità vantata dai
prodotti giapponesi, erano capaci di creare mezzi dal design accattivante e ricchi di
personalità.
Sul finire del decennio, poi, Aprilia si è affacciata sul mondo delle competizioni su
pista e ha colto i primi importanti successi nel Motomondiale, permettendosi di
sfidare, e battere, un colosso come Honda nelle piccole cilindrate (125 e 250 cc.)
6
.
Una nuova crisi ha scosso il mercato italiano all’inizio degli anni novanta, quando la
tassazione di quello che era considerato un bene di lusso ha raggiunto il suo massimo
6
Aprilia ha vinto, dal suo esordio nelle competizioni, ben 21 titoli mondiali tra pista e motocross.
17
storico, frenando la produzione così come le importazioni: dopo diversi anni in cui la
produzione italiana aveva superato il milione di unità , nel 1993 scese a soli 685 mila
pezzi. Contemporaneamente le immatricolazioni, che pochi anni prima erano state
poco meno di 240 mila, nello stesso anno erano scese a 80 mila.
Soltanto il mercato dei ciclomotori, da sempre di importanza fondamentale per
l’industria italiana delle due ruote, era stato risparmiato, e si manteneva su livelli
discreti, seppure lontani da quelli degli anni d’oro (815 mila pezzi venduti nel 1980,
solo 450 mila nel 1993).
A dare nuovo impulso al mercato delle due ruote è stata una “invenzione” di
Yamaha: il cosiddetto “maxiscooter”, scooter di grossa cilindrata (dapprima di 125
centimetri cubici, subito cresciuti a 150 o 250 per permettere l’uso dell’autostrada, e
che oggi hanno raggiunto i 650 cc), di generose dimensioni e prestazioni, pensato per
un utilizzo turistico o come puro mezzo di trasporto casa-ufficio grazie alla grande
protettività.
Dal suo arrivo sul mercato italiano, quello che in Europa ha mostrato il maggiore
gradimento verso questo prodotto, nel 1996, le immatricolazioni sono cresciute ad un
ritmo vertiginoso: da 91 mila a 123 mila l’anno seguente, raddoppiate nel 1998 (238
mila), per toccare nel 2000 le 524 mila. Di queste, 399 mila erano scooter di
cilindrata compresa tra 50 e 250 cc.
7
7
Fonte Ancma