4
un complesso di nuove cariche di nomina imperiale, che non si uniformarono
più ai principi dell'antica magistratura. I funzionari imperiali invasero tutta
l'amministrazione e vennero a formare un vasto gruppo di uffici ordinati in
una speciale gerarchia la cui prima caratteristica era che il rango veniva
determinato dallo stipendio. Emblematico il riordinamento compiuto da
Adriano il quale divise quattro categorie tra coloro che percepivano trecento,
duecento, cento o sessantamila sesterzi. Indubbiamente il divieto di percepire
emolumenti fu tipico, e non poteva essere altrimenti, di un'epoca storica in
cui le cariche elettive politiche erano affidate unicamente agli appartenenti al
ceto nobile o benestante. Aprire una finestra sulla storia accennando alle
istituzioni greche e romane antiche risulta utile essenzialmente per due ordini
di motivi: innanzi tutto per constatare che quella dell'indennità parlamentare
è una storia millenaria; secondariamente poi per dimostrare che il dibattito
che ha accesso discussioni tra i sostenitori dell'indennità ed i suoi avversari,
soprattutto nel corso della seconda metà dell'ottocento, rintraccia il proprio
archetipo nel confronto tra quei due grandi sistemi antichi: risiedono proprio
in tale contrapposizione due diverse risposte al medesimo problema che era
non solo “giuridico”, ma anche allora sociale. Sulla base di questi esigui dati
ci si potrebbe già domandare, per esempio, se fosse la gratuità della carica a
generare un sistema aristocratico, o viceversa non fosse piuttosto il sistema
aristocratico che poteva consentirsi la gratuità. Tuttavia non è il caso di
anticipare nulla delle tematiche che verranno affrontate nel prosieguo della
5
trattazione e pare adesso opportuno, fatta questa premessa, concentrare
l’attenzione su una data e, più in generale, su un momento storico
fondamentali e che ci riguardano più da vicino: il 4 marzo 1848, lo Statuto
Sardo, che è diventato poi lo Statuto del Regno d'Italia, fu da re Carlo
Alberto proclamato solennemente “legge perpetua ed irrevocabile della
monarchia”.
Conviene affrontare preliminarmente una questione intimamente connessa al
tema che si sta trattando: la derogabilità o modificabilità dello Statuto. Negli
ottantaquattro articoli che lo componevano infatti non vi era accenno alla
possibilità di una revisione, né di una deroga o di variazioni nelle
disposizioni contenute negli articoli stessi. Tuttavia ai compilatori dello
Statuto giammai era venuto in mente di consacrare con quelle parole
l’intangibilità assoluta delle disposizioni, impedendo per sempre qualsiasi
riforma; quella dichiarazione messa in fronte allo Statuto aveva un diverso
significato: da una parte importava il riconoscimento e la consacrazione di
quei diritti e di quelle franchigie contenuti nella carta costituzionale, dall'altra
parte escludeva il concetto che questa fosse “una graziosa e revocabile
concessione che il re faceva al popolo”
1
, come era stato per le carte ottriate
dei re di Francia. Lo stesso conte di Cavour diceva: “la parola irrevocabile è
solo applicabile letteralmente ai nuovi grandi principi proclamati da esso...
1
Mancini Galeotti, Norme e usi del parlamento italiano, pag. 161.
6
Ma ciò non vuol dire che le condizioni particolari del patto non siano
suscettibili di progressivi miglioramenti operati di comune accordo tra le
parti contraenti...”; diciamo fin da subito quindi che l'articolo 50 a norma del
quale le funzioni di senatore e di deputato non danno luogo ad alcuna
retribuzione od indennità, sanciva un principio fondamentale che tuttavia non
rappresentava uno scoglio assolutamente insuperabile; i compilatori dello
Statuto vollero inserire tale principio nella Costituzione senza dubbio per
conferirgli una consistenza più salda di quella che avrebbe avuta in una legge
elettorale
2
.
1.2 LE FRANCHIGIE POSTALE E FERROVIARIA
Ai deputati e senatori fin dal primo instaurarsi del Parlamento subalpino fu
riconosciuta una specie di franchigia postale, dapprima con provvedimento di
tipo amministrativo del governo, successivamente con una espressa
disposizione di legge contenente un articolo 38 così concepito
3
: “Le
franchigie saranno limitate al carteggio della famiglia reale ed a quello dei
senatori e deputati durante la Sessione parlamentare, e per venti giorni
prima e dopo di essa”. Lo scopo di questa concessione era quello di mettere i
rappresentanti della nazione in condizione di conoscere gli affari del paese e
di ascoltare i reclami degli elettori e di ogni altro cittadino su tutto ciò che
2
In Francia al contrario una statuizione pressoché identica era contenuta proprio nelle leggi elettorali
del 1817 e del 1831.
3
Franchigia confermata ed istituzionalizzata con la legge del 15 maggio 1851 n. 67.
7
concerneva l'andamento della cosa pubblica. Rappresentava di fatto un
complemento del diritto di petizione e, di conseguenza, anche un vantaggio
per tutti i cittadini che potevano così mettersi in contatto con i rappresentanti
della nazione per cose di pubblico interesse o di particolare richiamo in
favore dei propri diritti
4
. Ma, pur contenuta in questi limiti abbastanza
ristretti, più che come un privilegio tale franchigia iniziò a essere considerata
come un onere, tanto più quando s'incominciò ad abusarne per opprimere i
deputati specialmente con una corrispondenza elettorale che nulla aveva a
che vedere con i pubblici interessi. Di fatto essa, pur avendo l’apparenza di
privilegio agli occhi della opinione pubblica, si risolveva in una tassa gravosa
imposta per ragione dell'ufficio di cui essi erano investiti, dal momento che a
senatori e deputati non era data facoltà di mandare egualmente in franchigia
la corrispondenza di risposta a quella che ricevevano. Fu così che ben presto
fioccarono in Parlamento le proposte per la sua abolizione: il primo a
chiederne l'abolizione fu il deputato Gallenda nel 1862 e precisamente il 5
aprile, mentre si discuteva un disegno di legge sulla riforma postale con il
quale, tra l’altro, si estendeva la franchigia per tutta la legislatura corrente.
Dopo di lui parecchi altri deputati
5
tornarono più volte alla carica tanto che si
può affermare che quasi non passò una sessione senza che qualcuno
reclamasse l'abolizione o almeno una radicale riforma nell'esercizio di questa
franchigia. Il deputato Briganti-Bellini propose nel 1864 di distribuire ai
4
Mancini-Galeotti, Norme ed usi del parlamento italiano.
5
Tra gli altri in particolare Ricciardi, Bonghi e Di San Donato.
8
membri del Parlamento francobolli speciali, “l’applicazione dei quali sulla
sopraccarta non avrebbe dato diritto di esigere dai destinatari se non che la
tassa stabilita per le lettere affrancate”. I ministri a loro volta
temporeggiavano promettendo studi e riforme che fossero volti piuttosto che
a togliere di mezzo l'istituto, ormai consolidata consuetudine, a tentare di
riparare agli inconvenienti lamentati. Proprio a tal fine il Gadda, ministro dei
Lavori Pubblici, presentò il 7 marzo del 1870 un disegno di legge col quale si
proponeva di accordare la franchigia postale, senza alcuna limitazione, alla
corrispondenza diretta alle Presidenze del Senato e della Camera, ed a quella
dalle medesime spedita. Inoltre si ammetteva in franchigia, limitatamente al
tempo in cui erano aperte le Camere legislative ed al luogo dove aveva sede
il Parlamento, la corrispondenza diretta ai senatori e deputati, e quella dai
medesimi spedita. Tuttavia la successiva chiusura della sessione fece cadere
quel disegno di legge; ed al riaprirsi della nuova sessione, dal momento che
continuavano ancora le istanze dei deputati per l'abolizione della franchigia
postale, il ministro Spaventa ne fece una formale proposta che il Parlamento
sanzionò nel 1874, il 14 giugno, per mezzo della legge n. 1983. Da allora
della franchigia non rimase che il ricordo.
Ebbe più fortuna invece la franchigia ferroviaria: fino al 1860 questa
franchigia non fu mai ammessa; tanto che nella tornata del 28 gennaio 1859
si lessero alla Camera due lettere, una del Ministro della Casa del Re, l’altra
9
del ministro dei Lavori Pubblici: il primo scriveva semplicemente per
invitare i deputati alla festa da ballo che avrebbe avuto luogo nel regio
palazzo di Genova per celebrare le nozze della principessa Clotilde con il
principe Napoleone. Proprio in conseguenza di tal invito il ministro dei
Lavori Pubblici scriveva: “il ministro sottoscritto, essendo informato che
alcuni signori deputati interverranno alle feste offerte dalla città di Genova
alle loro Altezze Imperiali, il principe Napoleone e la principessa Clotilde,
pregiasi di offrire per mezzo della signoria vostra illustrissima ai suddetti
signori deputati un biglietto di andata e ritorno in vetture di prima classe fra
Torino e Genova, valevole da domenica 30 corrente a tutto il mercoledì
successivo. Tale biglietto sarà trasmesso ad ognuno dei signori deputati in
seguito ad elenco nominativo che la signoria vostra illustrissima è pregata di
fare pervenire al più presto possibile a questo Ministero, con indicazione del
convoglio prescelto, al fine di tenere pronte le vetture.”
Ed un eguale invito si lesse nella tornata 12 aprile 1860 per quei deputati che
desiderassero recarsi a Firenze, per assistere all'entrata di re Vittorio
Emanuele in quella città: “il ministro dell'interno, partecipando alla Camera
che domenica 15 corrente sua maestà parte per Firenze accompagnata da
sua eccellenza il Presidente del Consiglio e da tutti i ministri, annunzia come
siansi date le opportune disposizioni perché i membri del Parlamento, i quali
desiderino di accompagnare Sua Maestà, abbiano la comodità di un treno
speciale da Torino a Genova e di un bastimento per il tragitto di mare.
10
Coloro i quali vorranno prender parte a questa solennità, che si può dire
nazionale, avranno la compiacenza di dare il loro nome all'ufficio di
questura...”
Della franchigia sorse tuttavia reale necessità, allorché venne proclamata la
costituzione del nuovo Regno d'Italia che annetteva anche le province
meridionali. La grande distanza delle periferie del neonato Stato dalla
capitale e le notevoli spese di viaggio a carico di senatori e deputati che
dovevano recarsi a Roma, resero necessaria l'adozione di un provvedimento
che alleggerisse almeno in parte i membri del Parlamento dal grave dispendio
che dovevano sopportare, e che avesse forma diversa dall’omaggio del
biglietto per il singolo evento; fu così concesso a deputati e senatori il
passaggio gratuito sulle ferrovie e sui piroscafi sussidiati dallo Stato
6
per i
viaggi verso e da Sardegna e Sicilia . Il Parlamento poi credette opportuno
lasciare all’arbitrio del potere esecutivo tutto ciò che riguardasse l'esercizio di
questa concessione: ed infatti essa fu alternativamente estesa o ristretta
“secondo che meglio talentava ai vari ministri”
7
. Forti discussioni furono
sollevate nel corso degli anni anche a proposito di questa franchigia: il
Brunialti ebbe a dire al riguardo: “il biglietto gratuito giova ai deputati tanto
più quanto più sono negligenti, quanto più hanno larga la coscienza e, in
luogo di attendere agli affari del paese, attendono ai propri od a quelli dei
6
Regio decreto del 26 dicembre 1861 n. 402.
7
Mancini-Galeotti, Norme e usi del parlamento italiano, p. 570.
11
loro clienti e corrono l’Italia a spese dello Stato a difendere cause od a
spacciare i loro panni.”
8
La Camera si occupò di rado di questa specie di prerogativa, consacrata
dall'uso prima ancora che dalla legge. Una volta
9
il deputato Ricciardi
proponeva di abolire i libretti ferroviari, sostituendo ad essi due biglietti per
ciascun deputato, uno per recarsi dal suo domicilio alla sede del Parlamento,
e l'altro per far ritorno a casa, tutte le volte che la Camera si fosse prorogata
anche solo per tre giorni: questa proposta venne seppellita in mezzo alla
generale disapprovazione con l'ordine del giorno puro e semplice come ci
riferiscono Mancini e Galeotti. Un'altra volta
10
la Camera discusse, per
incidente, della franchigia ferroviaria in occasione di alcuni processi intentati
a tre deputati per uso indebito fatto da estranei dei libretti ferroviari che ad
essi appartenevano. Non arrivarono mai però in Parlamento gli eco delle
critiche più o meno fondate generate dagli inconvenienti che derivavano
dall'uso smodato della prerogativa in questione. Emblematico è il commento
di Mancini e Galeotti: “certo è che se si pone mente, che i membri delle
nostre Assemblee Legislative nessun compenso hanno dell'opera loro
faticosa e dispendiosa, non parrà incomportabile una certa larghezza
nell'unico corrispettivo che lo Stato concede ad essi.”
8
Malvezzi, L’indennità ai deputati, 1905, p. 119.
9
Tornata del 6 giugno 1867.
10
Tornata del 15 dicembre 1873.
12
1.3 IL DIBATTITO IN PARLAMENTO
Tralasciando qui di far menzione di alcune prerogative minori
11
nonché degli
onori funebri tributati ai parlamentari defunti, e dal momento che, come
detto, deputati e senatori non percepivano indennità, potremmo concludere
che si esaurivano qui le prerogative “economiche” dei membri del
Parlamento.
Tuttavia, ed arriviamo così al cuore dell'argomento, occorre far menzione di
una serie di tentativi e di proposte fatte, fin dai primi anni del Parlamento
subalpino, per introdurre il sistema dell'indennità parlamentare, e del dibattito
che ne scaturì.
Il primo di questi tentativi si individua nella tornata del 8 luglio 1848
allorché, discutendosi nella Camera la legge sull'unione della Lombardia e
delle province venete al Piemonte, il deputato Palluel propose di aggiungere
a questa legge un articolo, il numero 8, che disponeva: I deputati
dell'Assemblea Costituente, che non sono stipendiati dal governo, avranno
diritto ad una indennità di lire 15 al giorno durante la sessione. Questa sarà
a carico dello Stato. A seguito di questa proposta il deputato Folliet
proponeva a sua volta un emendamento a questa aggiunta nel senso che si
stabilisse un'eccezione per i deputati che avevano già la residenza nella città
in cui la Costituente si sarebbe radunata. Altra eccezione la propose il
11
In particolare l’esenzione dei membri del Parlamento dal servizio di giurati durante le sessioni
parlamentari; la facoltà di poter visitare, senza speciali permessi, la maggior parte degli edifici
pubblici tra i quali specialmente le carceri.
13
deputato Martinet per gli impiegati i quali avessero già uno stipendio. Un
altro deputato, del quale i resoconti parlamentari non specificano il nome,
faceva notare come l'equità richiedesse che nessuno ricevesse denaro dalla
nazione. Allora, dopo che numerosi altri deputati avevano espresso la loro
opinione contraria o a favore degli emendamenti proposti, intervenne il
Presidente per far ordine, e propose di rimettere alla decisione della Camera
due domande: innanzitutto se dovevasi accordare un'indennità ai deputati
della Costituente, successivamente quale dovesse essere questa indennità. Al
deputato Brunier che prendeva la parola per appoggiare l'indennità, affinché
cioè essa venisse accordata a tutti i rappresentanti del popolo, rispondeva
l’onorevole Bixio il quale, essendo di contrario avviso, proponeva un'unica
considerazione: “che, mentre il Ministro delle finanze ci presenta delle leggi
straordinarie ed accettabili solamente in tempi calamitosi, per sovvenire agli
incalzanti bisogni della patria, non è opportuno né decoroso a noi di votare
delle indennità ai rappresentanti del paese”. Un parere degno di nota era
quello del deputato Valerio che si dichiarava propenso al principio che si
dovesse concedere un'indennità ai deputati in quanto eminentemente
democratico e necessaria conseguenza del voto universale. Inutile dire che
tale proposta fu respinta ed anzi il resoconto riporta che dopo l'esito della
votazione ci furono “applausi delle tribune”. Così commentavano Mancini e
Galeotti: “ad un simile provvedimento infatti, giustificato dalla ragion pura,
ripugna ancora la coscienza nazionale”. In quella stessa tornata la Camera
14
subalpina discusse ed approvò la seguente proposta fatta dai deputati
Martinet e Guglianetti: I rappresentanti dell'Assemblea Costituente che
saranno impiegati, cesseranno di aver diritto allo stipendio per tutto il tempo
delle sessioni della Costituente. Passata la legge in Senato, si risollevava
anche in quella sede la stessa questione; toccò al senatore Stara proporre
un'indennità per i deputati della Costituente in ragione di lire 10 per ciascun
giorno, a contare da quello dell'apertura fino a quello della chiusura
inclusivamente. Non godranno però di tale indennità quelli tra i deputati che,
essendo impiegati, godranno d'uno stipendio annuo di lire 4000. Il Senato
respinse questa proposta.
Altro tentativo di proporre alla Camera l'introduzione di un'indennità vi fu il
1 ottobre del 1849 da parte del deputato Martinet che nell'articolo unico del
quale si componeva il proprio progetto proponeva: Cesserà durante tutto il
tempo delle sessioni del Parlamento di decorrere il loro stipendio a favore di
tutti i membri della Camera dei deputati muniti di un impiego stipendiato dal
governo, ad eccezione dei ministri. Il ministro segretario di Stato per gli
affari delle finanze è incaricato dell'esecuzione della presente legge. Dopo
l'esposizione del progetto di legge seguì il dibattito che vide coinvolti
soprattutto i deputati Cadorna, Farina, Guglianetti, Lanza ed ovviamente lo
stesso Martinet. Il primo di essi appoggiava la proposta Martinet così come
d'altronde il Lanza la cui opinione appare interessante: “sono dell'avviso del
proponente, in quanto che lo spirito dello Statuto permettendo di sedere in
15
questa Camera a qualsiasi cittadino che venga eletto dai propri elettori,
senza richiedere dall’eleggibile alcun censo, ne viene di conseguenza che
dovrebbe anche stabilire l'indennità ai deputati, acciò coloro che non
avessero alcun bene di fortuna, e debbano abbandonare quella professione
che esercitarono nel proprio paese per vivere, possano, mediante
quest'indennità, dignitosamente rappresentare il loro collegio e la nazione;
ma purtroppo vi è nello spirito dello Statuto questa contraddizione
manifesta... io non credo che la Camera dei deputati, nemmeno il
Parlamento, siano competenti per variare un articolo dello Statuto,
quantunque sia contraddittorio con lo spirito del medesimo; lo Statuto
bisogna eseguirlo come esiste, noi non abbiamo l'autorità di variarlo.
Bisognerebbe per questo che gli elettori fossero avvertiti, e si riunisse un
Parlamento apposito al fine di decidere questa questione perché io tengo che
lo Statuto si debba considerare come cosa inviolabile nella lettera come
nello spirito. In secondo luogo ho osservato che quantunque sia principio di
giustizia che tutti i rappresentanti della nazione si trovino in condizione
eguale, tuttavia bisognerà anche, per certe riforme, attendere i tempi
opportuni. Credo che i presenti, sotto il rapporto finanziario, siano tutt'altro
che opportuni per votare ai deputati un'indennità, la quale verrebbe ad
accrescere le spese dello Stato. In terzo luogo anche qualora fosse deciso che
il Parlamento avesse la facoltà di interpretare lo Statuto o mutarlo, per me
non sarebbe dignitoso che i deputati della presente legislatura votassero al
16
loro medesimi un'indennità”. Il Lanza quindi respingeva la proposizione non
perché non la considerasse giusta, bensì in quanto contraria allo Statuto,
impopolare oltre che inopportuna. Il deputato Cadorna invece non trovava
che vi fosse un ostacolo nell'articolo 50, perché l'ostacolo poteva nascere solo
da una disposizione proibitiva, mentre l'articolo 50 non importava, a suo
avviso, una disposizione di tal genere. Tuttavia interveniva l'onorevole Farina
per far notare al Cadorna che sebbene l'articolo 50 non comportasse una
proibizione, tuttavia stabiliva positivamente che quest'indennità non dovesse
aver luogo; e siccome lo Statuto era di per sé intangibile non poteva essere
variato dai poteri legislativi, non era assolutamente possibile stabilire una
legge in senso del tutto opposto alle disposizioni della carta fondamentale
senza che ciò comportasse una violazione della stessa.
A favore dell'indennità in quella stessa tornata si schierava invece l'onorevole
Guglianetti: “la mia idea – diceva - è che a stabilire l'assoluta indipendenza
dei rappresentanti del popolo dal potere esecutivo non si ha altro mezzo fuor
quello dell'assoluta incompatibilità tra la qualità di impiegato e quella di
deputato... ciò però non impedisce che fin d'ora si vegga un'ingiustizia in ciò,
che gli impiegati ritengono lo stipendio quando sono rappresentanti del
popolo, mentre i rappresentanti del popolo sono privati di qualunque
indennità. In primo luogo la sola ragione per cui l’impiegato può ottenere lo
stipendio dallo Stato è il servizio che il medesimo presta allo Stato. Ora io