Si cercherà pertanto di tracciare brevemente l’evoluzione storica, attraverso le
principali civiltà, fino a quella contemporanea, della configurazione legislativa
della lesione personale, nei limiti che ci siamo imposti.
1.1.1 Dalla legge di Manù ai codici italiani dell’800
La legge di Manù accenna a determinare figure medico-legali di lesione
personale tra cui la frattura di un osso, se era scorso il sangue, se era stata
intaccata la pelle, se la carne era andata in brani, se era stata prodotta una
piaga alla mano, al piede, all’occhio, all’orecchio, ai genitali, se vi era stato
colpo seguito da doglia. La sanzione penale traeva fondamento dal principio del
taglione.
Presso gli Egizi sembra che la situazione non fosse diversa; anche presso di
essi sarebbe stata adottata la legge del taglione. Altrettanto risulta dalle
indagini storiche circa la legislazione mosaica; si legge nel Levitico “rottura per
rottura, occhio per occhio, dente per dente; facciaglisi tal lesione corporale
quale egli aveva fatto ad altri”. Gravemente punito risultava anche l’aborto
provocato in conseguenza alla lesione personale.
Si accenna nel Talmud alla mutilazione, al risarcimento del danno per il dolore
e le preoccupazioni inferte, per il lavoro trascurato e per l’onta subita; veniva
anche stabilito il risarcimento del danno in rapporto al deprezzamento
apportato all’integrità fisica. Le leggi ittite trattano dei colpi e delle ferite.
Quando il colpo determina una incapacità temporanea il colpevole deve fornire
alla vittima un corrispettivo per il suo mancato lavoro durante la malattia. Chi
aveva percosso una persona colpendogli i denti era considerato come autore di
una ferita. Particolari penalità in moneta erano previste per la frattura del
piede e della mano. Così per un’orecchia spaccata o nel caso in cui la vittima
fosse storpiata. Per l’aborto fu fissato un tasso di composizione diverso a
seconda che la gravidanza fosse più o meno inoltrata. Nel codice Avesta di
Zoroastro, l’Avesta prende in considerazione il versamento del sangue e la
frattura dell’osso per la comminazione delle pene, cioè chiari elementi di natura
medica.
In Roma la legislazione decemvirale prevedeva tra le varie lesioni la rottura di
membra, la frattura e lo slogamento di un osso; la legge Aquilia trattava anche
delle letalità delle ferite.
Nel diritto romano le lesioni personali erano comprese nella nozione latissima
delle iniuriae e sembra che, secondo la legge delle XII Tavole, le sole ingiurie
represse fossero appunto le lesioni personali e le percosse.
Questa legge prevedeva la rottura di un membro, la frattura di un osso o
l’ingiuria semplice la quale consisteva, verosimilmente, nelle lesioni lievi e nelle
percosse
1
. Soltanto più tardi l’actio iniuniarum venne estesa anche alle
aggressioni alla personalità morale o giuridica.
La giurisprudenza distinse poi l’iniuria atrox (ingiuria fisica o aggravata da altre
circostanze) dall’iniuria levis, per la quale il pretore aveva facoltà, ma non
obbligo, di ammettere l’azione giudiziaria.
Sia le XII Tavole, sia la Lex Cornelia de iniuriis contemplavano come iniuriae
(al pari delle lesioni personali, ma distintamente) i fatti di pulsare (sine dolore
caedere: dare spinte) e di verberare (cum dolore caedere: percuotere).
1
TABULA VIII
In queste Tavole è visibile il tentativo dei legislatori di superare i residui della sanzione
primitiva dei delitti, consistente originariamente nella vendetta privata. Anche se non
mancano, naturalmente, disposizioni volte a riaffermare norme preesistenti, regie o
consuetudinarie: così, per esempio, per l'omicidio involontario è rinnovata la primitiva sanzione
della consegna di un ariete agli agnati dell'ucciso. Ma ora è necessaria una condanna da parte
del popolo. Il tentativo di superare i residui della sanzione primitiva consistente nella vendetta
privata è particolarmente individuabile nella regolamentazione delle lesioni personali. Nel caso
del membrum ruptum – la lesione permanente – il taglione era conservato, ma subordinato
all'ipotesi di una composizione pattizia.
(a) SI MEMBRUM RUP(S)IT, NI CUM EO PACIT, TALIO ESTO. «Se ha leso un arto in maniera
permanente, e non transige con l'offeso, si applichi il taglione».
(b) MANU FUSTIVE SI OS FREGIT LIBERO, CCC, SI SERVO, CL POENAM SUBITO. «Se con
mano o bastone ruppe un osso ad un uomo libero subisca la pena di trecento assi, se ad un
servo di centocinquanta assi».
Per le lesioni non permanenti (os fractum), le leggi decemvirali abolirono addirittura il
preesistente taglione, sostituendolo con una pesantissima pena (dal greco poinhv, attraverso la
mediazione del dorico ‘poiná’ = riscatto, analogo al tedesco “Wergeld”, italiano – tramite il
Longobardo – ‘guidrigildo’): dovevano versarsi all'offeso trecento assi, se libero; se schiavo, al
suo padrone dovevano essere consegnati centocinquanta assi (vd. VIII, 3; Paulus l. s. de
iniuriis Coll. 2.5.5). La semplice iniuria (atti di violenza fisica più lievi (percosse), gli unici
definiti dal termine iniuria nella legislazione decemvirale) era invece colpita con una pena di
venticinque assi
Tutte le percosse e le lesioni fisiche furono lasciate all’azione privata fino alla
Lex Cornelia de iniuriis, che deferì la pulsatio e la verbatio alla competenza di
una questio, rimanendo sempre in facoltà dell’offeso di esperire l’azione privata
iniuriam aestimatoria, ovvero di promuovere l’actio legis Corneliae.
Il nostro diritto intermedio considerò il delitto di percosse o di lesioni personali
con relativa mitezza, e generalmente lo punì con pene pecuniarie.
Si formarono minuziosi elenchi delle percosse e delle lesioni, secondo la natura
e la gravità di esse, la parte del corpo colpita, i mezzi con cui erano inferte
(mani, bastone, armi permesse o proibite) et similia. Fu solo nel diritto
intermedio, in ogni modo, che l’ingiuria reale cominciò ad assumere un profilo
autonomo, come delitto di lesione corporale, staccandosi anche gradatamente
dal concetto di ingiuria, che designò infine unicamente l’offesa morale, il fatto
illecito contro la reputazione e la dignità delle persone.
I Germani distinguevano le varie lesioni in vari tipi a seconda della gravità, del
numero, della regione colpita, delle conseguenze derivanti, dei mezzi con cui
fossero prodotte ecc. Rotari, nell’editto longobardo, prevedeva varie entità di
pene per le seguenti lesioni: lo schiaffo, la piaga nel viso, l’accecamento di un
occhio, l’asportazione del naso, l’asportazione del labbro connessa o meno con
la messa allo scoperto dei denti, la perdita di un dente che si noti nel ridere, la
perdita di due o più denti, la ferita dell’orecchio, la ferita nel braccio, la
perforazione del braccio, la mutilazione della mano, del pollice e delle varie dita
della stessa, l’amputazione del piede, la rottura di un osso. Sembra anzi che
alcune leggi germaniche riconoscessero quattro precise figure di lesioni: ferite,
percosse, mutilazioni, paralisi. La qualificazione delle ferite derivava
soprattutto dall’emorragia, assente invece nelle percosse. Le ferite venivano
divise in più gradi a seconda delle dimensioni, della sede, della profondità.
Quale esito delle ferite si conoscevano le mutilazioni, le paralisi, gli
accorciamenti di arto.
Mentre nel diritto germanico si distinse fra percosse (Schlage, ingiuria reale del
diritto romano, coups del codice francese), ferite (Blutwunden, rispondenti a
blessurs) e mutilazioni (Verstümmelunghen, Lahmungen), in quello romano si
distinse a seconda che la percossa o la lesione fossero prodotte con le sole
mani, ovvero con bastone o con armi permesse o proibite.
La perdita di una parte di un membro si equiparava talora alla perdita del
membro intero (es.: perdita di più di due dita di una mano), mentre il modo o
il significato vilipendioso rendeva più grave la lesione (o la percossa), e perciò
lo schiaffo comportava pena maggiore del pugno, come visibile in vari editti
longobardi o in uno storico passo di Benvenuto Cellini:
“I signori Otto mi fecion chiamare; onde io comparsi; e dandomi una grande
riprensione, e sgridato […], è dissi, che a quella grande offesa ed ingiuria che
Gherardo mi aveva fatta, mosso da collera grandissima, e non gli ho dato che una
ceffata, non mi pareva di meritare tanta gagliarda riprensione. Appena che
Prinzivalle della Stufa, il quale era degli Otto, mi lasciasse finir di dire ceffata, che
disse: Un pugno e non una ceffata gli desti. Sonato il campanozzo e mandatici tutti
fuora, in mia difesa disse Prinzivalle alli compagni: Considerate signori, la
semplicità di questo povero giovane, il quale si accusa di aver dato ceffata,
pensando che sia meno errore che dare un pugno, perché d’una ceffata in Mercato
Nuovo la pena è di 25 scudi, e di un pugno poco o nulla”.
[Cellini, Vita, I, XVI e XVII]
Dopo la legislazione imperiale dei secoli XII e XIII, gli statuti cominciarono ad
abbandonare le pene pecuniarie per le lesioni più gravi, comminando invece
sanzioni quali il bando, la confisca dei beni, la mutilazione (taglione) e talora
persino la morte. Sempre nel diritto statutario si trattava diversamente la
percossa dalla ferita, e a parte si contemplava il dare spinte, il trascinare per i
capelli, per la barba, etc.
Tra i Franchi Salii si distinguevano, e venivano punite con pene in denaro, le
seguenti lesioni: la ferita semplice, la ferita alla testa con scoprimento dell’osso
o se il cervello era posto a nudo, una piaga penetrante nell’addome, il taglio
incompleto o completo della mano, l’amputazione delle varie dita, la fuoriuscita
di un occhio, l’evirazione.
Nel primitivo diritto canonico della Chiesa Cattolica si menzionavano, quali
lesioni personali, l’indotta mutilazione delle mani e dei piedi e l’asportazione
degli occhi.
Le legislazioni statuarie non fecero altro che seguire il sistema previsto dalle
leggi barbariche. Lo Statuto di Susa (anno 1253), irrogava la pena di 50 soldi
per percosse senza arma che avessero prodotto spargimento di sangue.
Lo Statuto di Corneto 15 lire per ferite senza sangue alla faccia con armi, con
sangue 25 e 50 se residuava cicatrice e non dissimilmente gli Statuti di Lucca,
del Cadore, di Modena e Bologna.
Tale sistema fu seguito anche dopo il periodo feudale.
Nelle legislazione succedute a quelle medioevali, la specificazione delle lesioni
personali andò progressivamente avvicinandosi a quella contemporanea
tantochè in Francia il codice penale del 1791 prevedeva le ferite, che, giusta
attestati legali della persona dell’arte, avessero arrecata per più di 40 giorni
incapacità ad alcun lavoro personale, nonché più gravi lesioni punite con più
rilevante sanzione penale nel caso in cui vi fosse rottura per la perdita dell’uso
completo di un occhio, o di un membro. o per mutilazione di qualche parte
della testa e del corpo; massimo della pena per la perdita dell’uso assoluto
delle due braccia e delle due gambe.
Nel sec. 1787 Giuseppe II, imperatore austriaco fautore di una grande politica
riformatrice, promulgò un nuovo codice penale nel quale, oltre ad abolire la
tortura e a limitare la pena di morte, stabilì per i ferimenti la prigionia da un
mese a otto anni; per le mutilazioni, invece, il carcere duro e il lavoro pubblico.
Sistema analogo era stato adottato da Pietro Leopoldo di Toscana, Granduca di
Toscana, nel 1786.
Il successivo codice francese del 1810 contemplava le ferite o le percosse
volontarie ed altre violenze o vie di fatto che abbiano dato luogo a malattia o
incapacità di lavoro per più di 5 giorni od a malattia o incapacità per più di 20
giorni. Gravissima la pena per l’evirazione che consisteva nei lavori forzati a
perpetuità e, se l’offeso per la subita castrazione fosse deceduto entro 40
giorni dal fatto, la morte.
1.1.2 I codici preunitari e il codice Zanardelli
Per quanto concerne i vari codici italiani vigenti nell’800 di essi è facile averne
ragguaglio consultando i testi di medicina legale del secolo scorso.
In particolare il Lazzaretti ed il Freschi
2
riportano assai estesamente le norme
di legge concernenti i veri codici dei vari stati.
Qui di seguito sono riportati alcuni cenni di tale codificazione, con un breve e
diretto riferimento all’aspetto più strettamente medico forense delle lesioni
personali.
Il codice sardo del 1839 prevedeva le ferite o percosse volontarie, il pericolo di
vita, la malattia o incapacità personale per oltre 30 giorni. Delle ferite o
percosse veniva fatta una sorta di classificazione la quale, in un primo gruppo
sanciva le seguenti lesioni: rottura d’osso o in una gamba, o in una coscia, o in
un braccio, o in altra parte principale del corpo, o la perdita dell’uso assoluto di
un occhio, o di qualche membro, o la mutilazione o la debilitazione permanente
di qualche parte del corpo, o la deformità dell’aspetto, ed in un secondo
gruppo, lesioni di maggiore gravità quali la perdita dell’uso assoluto delle
braccia e delle gambe.
Il codice penale toscano del 1853 pose a base della valutazione delle lesioni
personali le conseguenze effettive di esse contrariamente al precedente del
1786 e previde quale lesione personale “un danno, un dolore al corpo, od una
perturbazione di mente”.
La lesione personale veniva poi distinta in ragione della entità degli effetti
nocivi che ne conseguissero (art. 326) in grave, gravissima e leggera.
Le gravi riguardavano la perturbazione transitoria delle facoltà mentali, il
debilitamento permanente di un senso o di un organo, il deturpamento della
2
Lazzaretti G. – La medicina forense. Firenze. 1861
Freschi F. – Manuale teorico pratico di medicina legale. Ed. Volpato. Milano, 1855
faccia, l’impedimento da parte del leso, per 30 o più giorni, di valersi, come
altrimenti avrebbe esso potuto, delle forze fisiche e mentali; le gravissime
quelle producenti malattia fisica o mentale, certamente o probabilmente
insanabile, privazione di un senso, di un piede, di una mano, dell’uso della
parola o della capacità di generare, l’aborto di una donna incinta da chi ne
conosceva lo stato; leggere tutte le altre.
Gli atti di violenza volontari, non aventi il carattere di tentato omicidio, e che
avessero prodotto ferimenti, contusioni, lacerazioni od offese simili, erano nel
codice parmense puniti con la reclusione, se, per giudizio della persona
dell’arte, le offese testé indicate, fossero pericolose di vita o la malattia
superasse i 30 giorni (art.315).
Anche senza tale pericolo, e senza tale durata di malattia, veniva egualmente
comminata la reclusione per gli atti di violenza che producessero rottura d’ossa
o in una gamba o in una coscia o in un braccio o in altra parte principale del
corpo o perdita assoluta dell’uso di un occhio o di qualche membro o la
mutilazione di qualche parte del corpo o la deformazione dell’aspetto (art.316).
La perdita assoluta della vista o di entrambe le braccia e le gambe, dava luogo
ai lavori forzati (art.317).
Per il regolamento romano le ferite con assoluto pericolo di vita erano punite
con la galera dai 10 ai 15 anni; quelle di qualche pericolo, con la galera dai 5 ai
10 anni; quelle senza pericolo con l’opera pubblica da 1 a 3 anni (art.318).
Aumentava di un grado la pena, quando dette ferite producevano perdita o
debilitazione di qualche membro, o deformità della persona (art.320).
Le leggi penali del 1819 per il regno delle Due Sicilie distinguevano le percosse
gravi o le ferite gravi, pericolose di vita o di storpio per se stesse(art.356) o
per gli accidenti (art.359), e le percosse o ferite lievi, rispettivamente punite
col secondo al terzo, e col primo al secondo grado di prigione (art.356); le
pericolose per gli accidenti col primo grado della stessa pena (art.359). Le
ultime col primo grado dell’esilio correzionale (art.361) e divideva inoltre la
percossa grave o la ferita grave che abbia prodotto storpio o mutilazione di per
sé o per gli accidenti.
Secondo la definizione data dalla Corte suprema di giustizia di Napoli con sua
decisione del 30 gennaio 1824,
“Lo storpio è, secondo il comune linguaggio, l’essersi renduta permanentemente
viziosa una parte della costruzione fisica del corpo umano, o l’essersi in tutto o in
parte permanentemente debilitata l’umana agibilità”.
Per un sovrano Decreto, emanato il dì 5 gennaio 1840, sono considerate gravi
anche le percosse e le ferite giudicate pericolose di sfregio, che viene dalla
Giurisprudenza di Napoli ritenuto alla stregua di storpio.
Il quale storpio, sia per una Circolare del 3 gennaio 1838, emanata dal
Ministro di grazia e giustizia a tutti i procuratori generali criminali del regno, sia
per quanto stabiliva il sopra allegato Decreto reale, venne pareggiato allo
sfregio:
“Per esecuzione degli articoli 356 e seguenti (qui sopra riportati) oltre la perizia che
si eseguisce nel principio dell’istruzione sulle percosse e ferite con pericolo di vita o
di storpio, dovrai farsene altre onde certificare l’esito del pericolo, e così
determinare la natura del procedimento e la pena. Sarà opportuno di eseguire la
seconda perizia nel vigesimo giorno dopo quello delle offese; giacché
ordinariamente dopo questo intervento non si può conoscere il risultato. Se nel
vigesimo giorno si trovi sussistente il pericolo, si procederà alla terza perizia nel
giorno quarantesimo, posteriore a quello delle offese.
La seconda e la terza perizia si eseguiranno prima dei termini sopra stabiliti,
allorquando antecedentemente cessi il pericolo o accada lo storpio, la mutilazione o
la morte dell’offeso. Quindi le autorità incaricate dell’istruzione dovranno procurare
di avere spesso notizia sull’esito del pericolo, ad oggetto di regolare l’epoca di
dette perizie ecc.”
Tale era la prescrizione della Circolare 8 gennaio 1820, emanata dal Ministero
della giustizia e di grazia ai procuratori generali delle corti criminali del regno di
Napoli.
Il Codice di San Marino distingueva la percossa senza vestigio, che non lascerà
cioè né contusione, né perforamento, né lacerazione, né altra traccia esterna
qualsiasi o commozione interna, dalla percossa o ferita semplice giudicata di
nessun pericolo. Inoltre la ferita veniva ritenuta grave per gli accidenti, cioè
giudicata pericolosa di vita, o di mutilazione, o di storpio, o di sfregio al viso, o
di permanente debilitazione di un senso o di un organo, o delle facoltà mentali;
o grave di sua natura, che addusse cioè effettivamente il paziente in prossimo
pericolo di vita o da cui derivò al paziente mutilazione, o storpio, o sfregio al
viso, o permanente debilitazione di un senso, o di un organo, o delle facoltà
mentali.
Infine, il Codice sardo italiano del 1859, all’art. 537, designava in generale le
ferite, le percosse o simili offese volontarie contro le persone; le suddivideva a
seconda che avessero caratteri di gravi, gravissime, leggere e leggerissime
(art. 550). Includeva anche disposizioni nelle quali si prevedeva una diversa
sanzione penale a seconda che la morte in seguito a ferite o percosse avesse a
verificarsi prima o dopo i 40 giorni.
Vari codici moderni distinguono la lesione dalla percossa (per esempio quello
francese), ma nel nostro codice Zanardelli la distinzione non esisteva, poiché
era ritenuto sufficiente, ai fini della la sussistenza del delitto di lesioni, la
produzione di un danno nel corpo o nella salute o di una perturbazione di
mente (art. 372), di modo che erano considerate lesioni lievissime quei fatti
che oggi sono ritenuti percosse.
Il Codice vigente ha introdotto la distinzione tra percosse (art. 581
3
) e lesioni
(art. 582
4
), fondandola sull’assenza o presenza di malattia. A tal proposito,
nella Relazione al Progetto definitivo, il guardasigilli scrive:
3
C.P., Art. 581, Percosse - Chiunque percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel
corpo o nella mente, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a sei mesi
o con la multa fino a lire seicentomila. Tale disposizione non si applica quando la legge
considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro
reato.
4
C.P., Art. 582, Lesione personale - Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla
quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre
anni. Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle
circostanze aggravanti previste negli artt. 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel n. 1 e
nell'ultima parte dell'articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa (*).
“Il nuovo delitto di percosse differisce da quello di lesioni, non tanto per la
materialità dell’azione, che può essere la stessa, e neppure per l’elemento
subiettivo, il quale essendo ugualmente costituito dalla volontà cosciente di
percuotere, mal potrebbe contrapporsi a quello di recar offesa all’integrità fisica
individuale, che inerisce altresì alla lesione personale: ma se ne distingue, più
propriamente, per una condizione negativa, essendo elemento caratteristico del
delitto di percosse, che dalle stesse non debbano essere derivate al soggetto
conseguenze morbose.
In altri termini, le percosse potranno, come tali, essere più lievemente punite, a
seguito di querela della parte offesa, soltanto se esse non siano produttive di
malattia, ed ogni loro efficienza si riduca esclusivamente ad una sensazione fisica
dolorosa, che non lasci residui di tracce organiche”
Da questa succinta esposizione del progressivo evolvere delle norme codificate
se ne deduce che molte configurazioni medico-biologiche di lesione personale
sono comparse nel diritto positivo da epoche remote.
1.2 Lesioni e percosse oggi
I delitti di lesione personale (e di percosse) rientrano nel titolo dei delitti contro
la persona, contemplati nel titolo XII del Codice Penale. Questo titolo è
suddiviso in tre capi: il primo è dedicato ai delitti contro la vita e l’incolumità
individuale; il secondo ai delitti contro l’onore; il terzo ai delitti contro la libertà
(*)Articolo così modificato dalla L. 26 gennaio 1963, n. 24. Il secondo comma è stato
successivamente così sostituito dalla L. 24 novembre 1981, n. 689.
Precedentemente alla modifica del novembre ’81, l’art. 582 dichiarava che la punibilità della
lesione a querela doveva determinare malattia di durata “non superiore a dieci giorni”. Si era
allora posta la questione relativa al fatto che l’articolo prevedeva, così come prevede ancor
oggi in riferimento al termine di venti giorni, due diverse ipotesi delittuose a diverso regime di
procedibilità (malattia superiore ai dieci giorni, procedibile d’ufficio, inferiore a dieci giorni,
procedibile a querela) differenziate solo in base alla durata della malattia, il che è palesemente
in contrasto col principio di eguaglianza davanti alla legge riconosciuto dall’art. 3 Cost. La
questione veniva giudicata inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza dalla
Suprema Corte. Corte Cost., 30 luglio 1984, n.235, Elia (app.)***
individuale. Nei delitti qui esaminati, il bene tutelato (l’oggettività giuridica) è
costituito dall’incolumità individuale
5
.
Per le percosse nell’art. 581 si dice: “Chiunque percuote taluno”, precisandosi
che da questo fatto del percuotere non deve derivare “una malattia nel corpo o
nella mente”.
Per la lesione personale nell’art. 582 si dice: “Chiunque cagiona ad alcuno
una lesione personale”.
La lesione personale è tale solo quando ne derivi una malattia nel corpo o nella
mente. Nel caso in cui la malattia causi incapacità di attendere alle ordinarie
occupazioni per un certo tempo, indebolimento permanente di un senso o
di un organo, perdita di un senso o di un arto, deformazione o sfregio
permanente del viso, si applicheranno le aggravanti, di cui all’art. 583 c.p.
6
.
Quindi la differenza prima tra le percosse e le lesioni personali sta nel mancare
alle prime la capacità di creare uno stato di malattia.
Fu proprio il Saltelli, Presidente di sezione della Corte di Cassazione del Regno,
già Segretario nella Commissione Ministeriale incaricata di dare parere sul
progetto preliminare del nostro Codice Penale, vigente dal luglio del 1931, a
chiarire senza ombra di equivoci il criterio di distinzione tra lesioni e percosse,
in una nota sentenza:
“La differenza fra il reato di percosse e quello di lesioni risiede nella condizione
negativa che caratterizza il reato di percosse, nella circostanza cioè, che dal fatto
non derivi malattia, ossia un processo di alterazione anatomica o funzionale
5
Incolumità individuale considerata in rapporto a persone determinate, perché i fatti che
possono minacciare un numero indefinito di persone (es.: strage) sono contemplati nel titolo
dei delitti contro l’incolumità pubblica.
6
C.P. Art. 583, Circostanze aggravanti - La lesione personale è grave, e si applica la
reclusione da tre a sette anni: 1) se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita
della persona offesa, ovvero una malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie
occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni; 2) se il fatto produce
l'indebolimento permanente di un senso o di un organo; 3) se la persona offesa è una
donna incinta e dal fatto deriva l'acceleramento del parto (*). La lesione personale è
gravissima, e si applica la reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto deriva: 1) una malattia
certamente o probabilmente insanabile; 2) la perdita di un senso; 3) la perdita di un arto, o
una mutilazione che renda l'arto inservibile, ovvero la perdita dell'uso di un organo o della
capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella; 4) la
deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso; 5) l'aborto della persona offesa (*). (*)
Numero abrogato dalla L. 22 maggio 1978, n. 124.
dell’organismo, ma bensì come unica conseguenza, una reazione fisica dolorosa,
non accompagnata da alterazioni organiche”
[Cass., Sez. II, 27 giugno 1934. La nozione di malattia come criterio di distinzione
fra lesione personale e percosse. Annali di Diritto e Procedura Penale, 1935]
Il fatto del percuotere cessa di essere costitutivo del delitto di percosse per
diventare elemento materiale del delitto di lesione personale, quando produce
uno dei danni menzionati, oppure del delitto di omicidio preterintenzionale se
ne deriva la morte. Tuttavia, mentre nel delitto di percosse l’elemento
materiale è solo il fatto del percuotere, questo può essere elemento materiale
del delitto di lesione personale, ma non lo esaurisce, potendo essere costituito
da altre attività.
E’ chiaro dunque che nelle percosse l’elemento materiale sia rappresentato
sempre da un atto violento (calcio, pugno, spinta), implicito nel verbo stesso
percuotere, che significa battere, picchiare, colpire, e ne deriva che l’elemento
soggettivo o psicologico del delitto di percosse consiste nella volontà cosciente
di percuotere taluno, ma da questo atto non devono scaturire conseguenze che
vadano al di là della sola sensazione dolorosa.
L’elemento psicologico del delitto di lesione personale è dato invece dalla
volontà cosciente di ledere, cioè di cagionare una lesione alla persona
(intenzione generica di produrre un danno alla persona e non intenzione
specifica di causare un determinato danno).
Un problema certamente rilevante nell’analisi dell’art.582, riguarda l’ambigua
formulazione del primo comma che, nell’enfatizzare il rapporto di derivazione
causale tra malattia nel corpo e lesione inferta al soggetto passivo, suggerisce
una ricostruzione della fattispecie in esame a mo’ di delitto “a doppio evento”,
il primo coincidente con la lesione ed il secondo con la malattia.
Una spiegazione in merito a tale struttura può trarsi dall’analisi della sua
genesi specifica, a fondamento della quale è doveroso ricordare il proposito del
legislatore di focalizzare l’elemento soggettivo del diritto previsto dall’art.582
c.p. sulla sola lesione, confinando la malattia al ruolo di mera conseguenza
oggettiva dell’azione, che viene attribuita al soggetto per il solo fatto di essersi
verificata.
Tale scena normativa trova del resto origine, stando a quanto si ricava dai
lavori preparatori del codice Rocco, nelle esigenze di semplificazione probatoria
circa la conformità tra voluto e realizzato nell’ambito delle aggressioni violente
all’integrità fisica altrui; problema questo, di natura complessa, posto che, sul
piano pratico, il dolo delle percosse, costituito dalla volontà cosciente di
percuotere, mal si distingue da quello di recare offesa all’integrità individuale,
che inerisce altresì alla lesione personale
7
.
Nel codice del 1930 dunque, il legislatore, poco propenso alla responsabilità
oggettiva, incentrò soggettivamente il delitto di lesioni su una generica volontà
di ledere e nell’addebitare il maggior danno eventualmente provocato (la
malattia) sulla base del solo nesso di causalità materiale tra condotta ed
evento. Allo stesso criterio di imputazione oggettiva si sottopose inoltre, sulla
base della originaria disciplina applicativa delle circostanze aggravanti,
l’attribuzione al soggetto agente degli ulteriori risultati lesivi previsti dall’art.
583 c.p. evitando, al tempo stesso, in coerenza con lo spirito della riforma, di
riproporre la fattispecie di lesioni personali preterintenzionali già prevista
dall’art. 374 c.p. del 1889. Si legge, infatti, nella Relazione del Guardasigilli sul
progetto definitivo di c.p.:
“Ho già rilevato più innanzi che l’evento costitutivo del delitto stabilito nell’art. 581
[ora 582 c.p.] su cui deve riflettersi la volontà cosciente del colpevole, è la lesione
personale, e cioè l’effetto di alterazione o disordine organico, che immediatamente
consegue all’attività materiale dell’agente. Ogni aggravamento della malattia,
quale processo morboso della lesione, od ogni conseguenza permanente
sull’integrità fisica, rappresentano circostanza aggravanti che sono addebitate al
colpevole, prescindendo dalla sua volontà di produrle. Da ciò è agevole dedurre
come non sarebbe stato possibile mantenere il così detto reato di lesione
preterintenzionale, che presuppone un rapporto tra la gravità della lesione causata
e la specifica intenzione del colpevole”.
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Lavori preparatori per il codice penale, Vol. IV, parte I, 483. Del resto, il codice Zanardelli
non prevedeva l’attuale distinzione tra percosse e lesioni personali.
La giurisprudenza successiva all’entrata in vigore del Codice del 1930,
confermò le direttive tracciate nei lavori preparatori, affermando pacificamente
che l’elemento psicologico del delitto di lesione personale non è diverso da
quello di percosse, consistendo in ambedue i reati nella volontà cosciente di
colpire l’avversario e perciò l’uno e l’altro delitto si definiscono solo in relazione
all’evento realizzato, a seconda cioè che il fatto del colpevole abbia prodotto o
meno una lesione con conseguenze morbose.
Nello stesso ordine di idee, cospicua parte della dottrina asserì che la malattia
derivante dalla condotta aggressiva dell’incolumità individuale dovesse essere
posta a carico dell’agente a titolo di responsabilità oggettiva, essendo richiesta
al reo la mera consapevolezza del carattere genericamente lesivo della propria
condotta.
Tuttavia, gli argomenti contro il descritto orientamento sono tanti e tutti
decisivi.
In primo luogo, appare indiscutibile sul piano logico-dogmatico che l’oggetto
del dolo nei delitti di percosse e di lesioni debba modellarsi sui dati strutturali
della singole fattispecie.
In secondo luogo, l’accoglimento di una nozione di dolo incentrata sulla
generica volontà di ledere porterebbe, sul piano del tentativo, all’impossibilità
di differenziare l’ipotesi di una tentata percossa da quella di una tentata
lesione.
In terzo luogo, la possibilità di differenziare il fine di percuotere e quello di
ledere emerge da alcune specifiche disposizioni del codice penale in cui uno
stesso fatto obiettivamente lesivo dell’incolumità individuale assume rilevanza
diversa in funzione del fine (percuotere o ledere) con cui è commesso. Del
resto, la figura del dolo indeterminato, proprio in quanto suscettibile di
determinarsi in modo puramente casuale, difficilmente sfugge al sospetto di
mascherare un’ipotesi di responsabilità oggettiva, incompatibile, di per sé, con
il dettato dell’art.27, 1° comma, Cost., come reinterpretato, in chiave di
affermazione del principio di colpevolezza, da alcune pronunce della Corte
costituzionale.