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Introduzione
Iniziamo dal termine. Incipit, da incipere, significa incominciare.
Se nella terminologia canonica la voce incipit definisce propriamente la parola o la frase iniziale di un
qualsiasi componimento, l’uso che ne viene fatto è più esteso.
Tentare di definire i confini di qualcosa di marginale e indistinto come l’inizio di un’opera non è
semplice: una parola, una frase, un capitolo, parlando di cinema un’inquadratura, una sequenza, un
atto. Perché se l’inizio è la prima cosa che compare sullo schermo lo è anche tutto ciò che ci porta per
mano nel cuore della storia e ci introduce ad essa.
Definiti i confini della materia di indagine ci inoltreremo in una sorta di ‘mappatura orientativa’
avvalendoci di una serie di esempi rubati qua e là all’interno della storia del cinema per indagare sulle
potenzialità e modalità espressive del linguaggio cinematografico, mettere a confronto gli strumenti di
analisi del testo audiovisivo con strumenti che derivano da altri ambiti espressivi quali la tipografia, la
grafica, l’immagine pittorica, l’animazione, la musica, considerare il triplice atto percettivo che in esso
si realizza, comprendente simultaneamente il vedere, l’ascoltare, il leggere, verificare la
corrispondenza e la relazione tra il livello dell’espressione e il livello del contenuto, tra l'uso estetico di
musica e immagine e il processo della narrazione.
Nessuna volontà di esaurire l’argomento in questione, solo il proposito di introdurlo per aprire spazi e
spunti di riflessione su scelte espressive, forme, colori ed emozioni, con l’intento di creare un repertorio
audiovisivo a cui attingere per uno specifico fine operativo, e individuare un approccio metodologico
come strumento pratico di progetto.
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Capitolo 1
L’incipit soglia e sogno del film
1.1. Lo spettatore cinematografico
Se è vero che leggendo la prima pagina di un romanzo, ascoltando le prime battute ad apertura di un
sipario, immergendosi in un film quando il buio di una sala diventa luce, il lettore spettatore instaura un
legame di complicità tra sé e la finzione allora anche l’incipit di una trattazione su tale argomento
dovrebbe saper influenzare a proprio vantaggio la disposizione del suo ipotetico lettore.
Come iniziare quando l’oggetto della propria indagine è proprio l’inizio?
Da dove cominciare quando la pagina è bianca ed è la soglia, l’ingresso, a plasmare l’esperienza della
visione?
Perché non partire proprio dal fruitore, attraverso una sorta di camera look, per sedurlo e attirarlo nella
rete del racconto, con una forma di appello marcata e provocatoria.
In fondo, parlando di cinema non si può prescindere dallo spettatore, né dalla sua disposizione e
disponibilità percettiva.
Quando si parla di spettatore cinematografico si pensa ad una persona che siede in poltrona in una sala
e guarda ciò che viene proiettato sullo schermo, qualcuno che decide di vedere un film, sceglie un titolo
tra tanti, raggiunge un cinema, compra un biglietto, si siede e aspetta che si spengano le luci.
La prima fonte di complessità comprende tutti quei meccanismi che non appartengono strettamente al
testo filmico, ma condizionano il pubblico e la sua disposizione. Meno libero di quanto creda, lo
spettatore fa sue una serie di opinioni, idee, supposizioni che non dipendono né da lui né dal film.
Un film piace e attira, ancora prima di essere visto, merito di una serie di informazioni che in alcuni casi
coincidono con la pubblicità, in altri prescindono da essa.
C’è il cosiddetto passaparola, quel sofisticato pettegolezzo che diffonde a voce pregi e difetti di un film
rivelandone parti di trama; i manifesti, i trailers, sempre più frequentemente brani musicali o videoclip,
moderne casse di risonanza del film stesso, si impongono la stampa e i media, con critiche, interviste,
sinossi; c’è un titolo, accattivante biglietto da visita, un’esca che deve convincere, far presa su una
platea più larga possibile e al contempo suggerire, talvolta ingannare.
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Anche se tramontato nella sua definizione più classica c’è il divismo e la sua ancora forte azione di
richiamo. Sempre più ibridati mescolati e confusi ci sono i generi, il recupero di personaggi e formule
già note al grande pubblico, adattamenti, sequel e remake.
Non c’è dubbio quindi che una certa disponibilità alla visione prescinda dalla visione stessa, che le
aspettative siano tante e che all’esordio sia chiesto di non deluderle.
Se poi decidessimo di chiamare in causa i meccanismi psichici messi in atto dall’inizio della visione di un
film le cose si complicherebbero ulteriormente: percezione, comprensione, memorizzazione,
partecipazione, solo per citare alcune delle dinamiche psicologiche che si dispiegano nell’evento
cinematografico.
Basta concentrarsi sulle condizioni di visione per comprendere l’importanza della soglia iniziale: la
postura dello spettatore, il suo corpo abbandonato in poltrona, l’oscurità all’interno della quale lo
schermo costituisce l’unica fonte luminosa, un silenzio contemplativo che dovrebbe immergerlo ancor di
più nella dimensione sonora del film.
La fascinazione del ritmo luminoso sullo schermo crea una situazione ipnotica e oniride, accompagnata
da una sorta di complicità nel farsi trascinare nella magia dello spettacolo.
All’inizio lo spettatore è ben disposto, indulgente, ma al contempo pretende che la sua curiosità venga
premiata e la sua attenzione catturata rapidamente.
1.2. Il cinema come atto di magia
Il cinema è un atto di magia: come il mago nasconde il procedimento che crea la magia così il regista
cinematografico, occultando la macchina cinema e dirigendo lo sguardo dello spettatore, realizza quel
inganno spettacolare che è alla base di una realtà fatta di luci ed ombre, di suoni e di musica, un
inganno che ci consente di vedere l’invisibile.
“l’arte – come diceva Picasso – è una bugia che insegna a vedere la verità” e la magia del cinema
risiede proprio in questa frontiera confusa ed ambivalente sospesa tra realtà e rappresentazione.
1.3. La macchina dei sogni tra realtà e rappresentazione
In questo contesto gli esordi cinematografici si configurano come porte emblematiche di sogni-film,
soglie significative in grado di attivare desideri, suggerire atmosfere, indicare itinerari, fornire stimoli.
Non solo banale ruolo di introduzioni informative, quindi, ma sequenze autonome, capitoli zero di storie
alle quali appartengono pur per metafora o condensazione, incipit seduttivi che soddisfano lo sguardo e
insieme forniscono informazioni sul processo di produzione.
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Un universo di immagini, di suoni, di parole, che invade il nostro sguardo e si impone allo spettatore con
tutta la sua forza comunicativa cercando di uscire dalla marginalità in cui da sempre è stato relegato,
un universo brillante e multiforme che si impone con coraggio all’attenzione degli spettatori, voli di una
fantasia e di una creatività capaci di produrre e introdurre una miriade di mondi possibili.
Il cinema come fabbrica dei sogni, quindi, e come sogno stesso.
Un sogno speciale, simile a quelli consapevoli ad occhi aperti che sappiamo essere tali e che per questo
fanno meno paura; e se l’esperienza ideale che un film può dare al suo pubblico è davvero questa
all’incipit spetta il compito di farci chiudere le palpebre e di farci entrare in questo viaggio sospeso tra
finzione e realtà.
1.4. Dentro e fuori: i titoli di testa
Si spengono le luci, si levano le prime note della melodia musicale, le immagini appaiono
progressivamente sullo schermo, scorrono i titoli di testa. Un momento delicato che innesca subito
complesse attese, dirige l’attenzione e la favorevole disposizione dello spettatore, un momento che
stabilisce il registro stesso del film e su cui si fonda l’intero universo funzionale.
E’ ora di entrare…
Luogo rituale che ci si aspetta di ritrovare ad ogni visione, luogo sospeso tra il dentro e il fuori, quello
dei titoli di testa è lo spazio della transizione, una zona decisa, liminare, di passaggio dall’esterno
all’interno, dal reale al funzionale.
Le funzioni svolte dai titoli di testa sono di fatto molteplici e ambigue: rappresentano un momento
privilegiato di ripiegamento del film su se stesso, di messa in atto di una strategia autoriflessiva, di un
discorso metacinematografico, evidenziano la presenza di un processo di produzione.
E al contempo promuovono l’entrata dello spettatore nella finzione, introducendo l’inizio di un
racconto, seminano indizi, suggeriscono un’atmosfera, evocano un tema, alludono ad un genere.
1.5. Il valore del frammento
“Se è vero che l’intero è sempre diverso dalle sue parti è forse altrettanto vero che la singola parte
riesce a fornire una traccia significativa del suo possibile rapporto con il tutto cosi come il frammento
rimanda ad un intero diverso e secondo modalità differenti”
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L’incipit, segmento rappresentativo del testo filmico dotato di una certa organizzazione e coerenza
interna è caratterizzato da un’alta concentrazione significante e di significato. L’analisi di tale
frammento è volta all’individuazione delle strategie di produzione di senso, all’indagine dei vari livelli
di significazione e del valore espressivo delle scelte linguistiche in relazione al testo filmico e alla
ricezione spettatoriale. Concentrarsi sull’incipit come specifica materia di indagine non significa isolare
un elemento del film per separarlo dagli altri a cui è indissolubilmente legato, ma analizzarne un
frammento come traccia rivelatrice di un tutto.
Rispetto all’apparato paratestuale che circonda il film, manifesto, trailer, logo della casa di produzione,
l’esordio appare senza dubbio come il luogo più seducente, plurale e comunicativo, costituendo non
tanto l’avvio di un’azione ma l’ingresso in un mondo ancora sconosciuto, una soglia varcando la quale lo
spettatore da inizio alla propria conoscenza di quel mondo, con un impatto brutale, un invito alla
contemplazione, con una una lancinante emozione, attraverso cui è in grado di sondare l’intimità di un
film, di saggiarne la sua natura profonda, di scoprirne i suoi lati intimi e segreti.
1.6. L’incipit tra enunciato ed enunciazione
L'incipit cinematografico, quindi, trasmettendo le prime, fondamentali informazioni riguardo alla
narrazione, stabilisce un tramite, getta un ponte tra il racconto e i suoi destinatari. Nei primi minuti di
un film il racconto, per stimolare quel delicato meccanismo percettivo e cognitivo che fonda il
coinvolgimento dello spettatore, fa appello ad ogni mezzo, impiega ogni stratagemma, aprendosi a
forme narrative libere, che si rivolgono in forma più o meno mediata allo spettatore, seducendolo,
invitandolo alla visione.
Proprio la sua natura di spartiacque lo rende naturalmente duttile alla presenza di marche enunciative e
forme di interpellazione, che si rivolgono a colui per il quale è costruito il racconto: lo spettatore.
Gli stessi titoli di testa presentano queste caratteristiche, ponendosi in un certo senso come forme di
interpellazione
e il ricorso allo scritto in sovrapposizione o meno a immagini o suoni può essere letto proprio come una
sorta di confidenza, un avviso destinato allo spettatore, uno sguardo dietro le quinte.
Pur appartenendo alla stesso livello enunciativo delle immagini, i titoli di testa si collocano in posizione
extradiegetica rispetto ad esse volgendosi naturalmente verso l'esterno e coinvolgendo
contemporaneamente due livelli del sapere spettatoriale, quello relativo alla diegesi e quello che
riguarda il film come oggetto di valore:i titoli di testa chiamano in causa problematiche legate
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all’enunciazione dichiarando fin dall’inizio lo statuto filmico e narrativo delle immagini, il loro essere
prodotto di un atto discorsivo.
Strategie d’appello, marche enunciative, tracce testuali dell’istanza narrante produttrice del testo,
le diciture verbali ci segnalano un discorso di secondo grado sul discorso stesso: ed è allora che si
manifesta una sorta di sdoppiamento dell’enunciato, ovvero la messa in atto di una strategia
autoriflessiva che svolge un discorso metadiscorsivo più specificamente metacinematografico: il film si
designa in quanto tale, ci parla di se in quanto film raccontandoci il proprio processo di produzione.
La sequenza dei titoli di testa si configura quindi come una delle componenti possibili della strategia
degli esordi cinematografici, in bilico tra questione enunciativa e paratestuale, indecisa tra il dentro e
il fuori, tra l’enunciato e l’enunciazione, tra l’inaugurazione del mondo funzionale e l’informazione sul
processo di produzione.
1.7. La questione dei limiti
L’incipit può essere definito quindi come qualcosa che va oltre le prime battute di una storia,
assimilabile all’atto iniziale di un progetto.
Una prima questione si pone dunque sulla lunghezza. Va considerato inizio ciò che si vede
immediatamente dopo l’apertura del sipario o piuttosto l’intera parte introduttiva? E in questo caso
cosa si intende per introduzione?
Se infatti sappiamo che generalmente l’incipit ha inizio dalla prima inquadratura meno evidente è
definire dove esso termini.
Paragonando il cinema alla letteratura ciò può avvenire dopo una sola riga, al termine di una lunga
argomentazione introduttiva, oppure lungo un percorso che esaurisce l’introduzione addentrandosi già
nella trama o nel profilo del protagonista. In ogni caso si devono impostare rapidamente o comunque in
modo accattivante le coordinate del dramma.
Primo atto quindi come momento chiave, introduttivo, motore della storia, innescando nello spettatore
un meccanismo di riconoscimento e di attesa, responsabile di quei meccanismi psicologici tramite cui lo
spettatore partecipa all’evento cinematografico, identificandosi e proiettandosi in esso.
Siano i rassicuranti incipit del cinema classico, esplicativi e atti a nascondere l’artificiosità della
rappresentazione, siano quelli spiazzanti della modernità, informazioni ridotte al minimo, sospensione
del racconto, siano quelli depistanti del cinema contemporaneo, desiderosi di prendersi gioco dello
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spettatore attraverso la sottrazione di indizi, lo spettatore ha la necessità di sapere cosa lo attende, di
cercare dei punti di riferimento.
L’esordio può essere definito come luogo deputato a guidarci alla scoperta di un mondo di cui non
sappiamo ancora nulla.
Questa è la sua funzione principale: coinvolgere lo spettatore nella storia e predisporlo ad essa. Per
questo non può essere troppo lungo perchè le attese vanno soddisfatte rapidamente.
Chiave di ingresso tra spettatore e dramma, esso termina quando nel momento in cui lo spettatore ha la
sensazione che qualcosa stia per cominciare e il suo immaginario lo porta automaticamente a delineare
le possibili coordinate della storia.
Da un punto di vista formale, estetico stilistico l’esordio sta tutto nelle prime inquadrature, nelle
modalità del loro svolgimento che concorrono a istituire i termini della ricezione spettatoriale, è
qualcosa di immediato, è alla prima riga che spetta il compito di creare l’atmosfera, di illustrare il
tema, di farci intuire tono e stile con in quale verrà trattato.
La storia comincia la dove qualcuno pensa sia giusto farla cominciare, in modi, luoghi e tempi diversi.
L’inizio è un ingresso, quindi tutto deve ancora accadere, lo spettatore non sa ancora nulla del viaggio
che sta per intraprendere e all’incipit spetta il compito di fornirgli le coordinate, di guidarlo alla
scoperta del racconto, di trasportarlo in un universo parallelo, già dalle prime inquadrature.
1.8. L’incipit come ouverture cinematografica
Nel contesto della nostra indagine l’esordio viene inteso come un prologo, assimilabile all’ouverture
dell’opera lirica, una composizione sinfonica autonoma che preannuncia il materiale tematico e
patemico della rappresentazione, un magma di suggestioni, spesso ambigue, enigmatiche, simboliche
che diventano intelligibili in corso d’opera e che creano nello spettatore a diversi livelli un complesso
sistema di attese, una serie di suggestioni ed emozioni, stimolando una serie di interrogativi.
L’ouverture cinematografica circoscrivibile o meno alla sequenza dei titoli di testa ritarda la narrazione
per articolare elementi visivi e sonori all’interno dei quali non riusciamo ancora a scorgere l’incipit di un
racconto ma che assurgono al ruolo di potenziali serbatoi di senso.
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A volte connesso all’intreccio, spesso scollegato dal resto del plot, l’esordio apre racconti e ricezioni e
attraverso differenti gradi di indeterminatezza, semina indizi in modo staminale, apre prime piste
interpretative, salienze percettive e sensoriali, accenni ad isotopie da attivare, selezionare,
determinare nell’intero corpo filmico che si snoderà subito dopo. Un’esca saporita che stuzzica lo
spettatore e lo fa cadere nella rete, stabilendo il tono dominante nella sua drammaticità,
spettacolarità, comicità, producendo nel pubblico un complesso sistema di attese.
L’esordio inteso quindi come antefatto, capitolo zero di storie, sintesi di musica e immagini,
sovrapposizione di suggestioni visive e sonore che ci guidano alla scoperta di un universo ancora
sconosciuto.
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Capitolo 2
L’incipit soglia del film: l’esperienza della visione
Se pensiamo al cinema come prodotto dell'immaginario, dotato di una realtà e di una vitalità autonoma,
l’incipit cinematografico si configura come l’ingresso in un universo nuovo fatto di sensazioni,
comportamenti e logiche assolutamente uniche ed originali, una soglia varcando la quale lo spettatore,
assumendo uno sguardo nuovo ad ogni visione, da inizio alla propria conoscenza di tale mondo, per
saggiarne la natura profonda e scoprirne i lati intimi e segreti.
Centrale è la questione dello sguardo e il tipo di esperienza: dietro quello dell’istanza narrante c’è un
pensiero, un modello di osservazione e interpretazione del reale, una capacità di pensare per musica e
immagini, un modo di nominare il mondo selezionando alcuni aspetti e sottacendone altri, ma è lo
sguardo dello spettatore a costituire nuove forme e nuove relazioni, a cogliere sensazioni ed emozioni,
negoziando il proprio posizionamento.
Lo sguardo spettatoriale percepisce quei segni visivi e sonori che più lo colpiscono a livello patemico ed
emozionale, moduli estetici e percettivi che arricchiscono la sua immaginazione e che vanno a costituire
il proprio personale immaginario. “Guardare con gli occhi di un altro non significa vedere e sentire le
stesse cose, significa percorrere i medesimi spazi, con riferimenti e approdi diversi”
Il modo con cui spazio e tempo vengono frammentati, deformati, ricomposti, dilatati, esercita
un’influenza diretta sulla nostra condizione di pensare, percepire, fruire l’esperienza della visione e in
tale contesto lo spazio e il tempo filmico dell’esordio si configurano come luoghi della nostra percezione
e della nostra esperienza, determinando il tipo di impatto emotivo e il grado di coinvolgimento con cui
ci affacciamo all’inizio della narrazione vera e propria.
Basandosi sulle differenti tipologie di immaginario è possibile individuare nuove tipologie di
classificazione, nuovi raggruppamenti, nuovi percorsi e relazioni.
In questo capitolo ci concentreremo in particolare sui livelli di coinvolgimento spettatoriale, sul tipo di
stretta di mano che l’incipit cinematografico instaura tra narratore e spettatore.
I percorsi proposti non vanno considerati assoluti o immutabili, ma solo tracce possibili, chiavi di lettura
e strumenti di analisi e di interpretazione.
Prenderemo in esame tre tipologie di esperienze e di sguardi spettatoriali: l’impatto brutale dato da
uno shock percettivo, l’invito alla contemplazione, e l’emozione intensa, acuta, penetrante.
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2.1. Lo shock percettivo
L’impatto brutale, lo shock percettivo si basa su un contrasto, su una logica della contrapposizione
senza risoluzione che si realizza a differenti livelli.
Tinte forti, violente, accecanti, colori fortemente saturati, dominanti cromatiche disturbanti operano
una violenza ai danni della naturalità di una visione e inaugurano ricezioni all’insegna dello shock visivo.
Tale impatto visivo brutale si accompagna ad uno shock sonoro quando a visioni sghembe, inquadrature
distorte, effetti di distorsione operati sulla linearità del flusso temporale, sull’immagine pittorica, sul
lettering, su filmico e profilmico, si uniscono sonorità elettroniche taglienti e dissonanti che creano una
sensazione di dissociazione e irregolarità a livello percettivo olistico.
2.1.1. L’incipit come shock visivo
Dominanti cromatiche disturbanti operano una violenza visiva ai danni della naturalità di una visione, di
una percezione. Lo sfondo rosso sangue che apre Arancia Meccanica trova la sua opposizione e
completamento nello sfondo bianco accecante e glaciale che inaugura Lady Vendetta.
Differente è il bianco monotono e monocromo che si estende nello spazio della prima inquadratura di
Fargo che, annullando forme e distanze, crea un vuoto visivo e uno shock da riconoscimento in uno
spettatore privo di riferimenti, spaesato e disorientato.
Tale vuoto visivo trova la sua esasperazione e assoluta negazione nell'inquadratura nera iniziale di
Dancer in the Dark in cui domina la totale assenza della visione.
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2.1.1.1. ARANCIA MECCANICA di Stanley Kubrick
REGIA: Stanley Kubrick; SOGGETTO: dall'omonimo romanzo di Anthony Burgess ; SCENEGGIATURA: Stanley Kubrick
FOTOGRAFIA: John Alcott ; MUSICA: Ludwig van Beethoven (Sinfonia n. 9 in re minore op. 125; Edward Elgar (Pomp
and Circumstance marce n. 1 e 4); Gioacchino Rossini (Ouvertures da La gazza ladra e dal Guglielmo Tell); Terry
Tucker (Ouvertures to the Sun); Henry Purcell (Music of the Funeral of Queen Mary); James Yorkston (Molly Malone);
Arthur Freed e Nacio Herb Brown (Singin’in the Rain); Nicolaj Rimsky-Korsakov (Shéhérazade); Erika Eigen (I Want to
Marry a Lighthouse Keeper) MONTAGGIO: Bill Butler; COSTUMI: Milena Canonero; SCENOGRAFIA: John Barry;
PITTURE E SCULTURE: Herman Makkink, Cornelius Makkink, Liz Moore, Christiane Kubrick; PRODUZIONE: Stanley
Kubrick, Warner Bros., Hawk Film, Polaris Production; ORIGINE: USA; DURATA: 138’; ANNO DI EDIZIONE: 1971
SINOSSI
Arancia meccanica è una riflessione sull'uomo, sulla sua natura a contatto con i condizionamenti della
cultura, sulla discrepanza tra violenza libera e selvaggia e violenza istituzionalizzata.
Il film pone domande sul libero arbitrio e sulla coercizione, mostra il degrado umano e sociale per
mettere in risalto l’istinto violento di ogni individuo: chi ha il potere lo esercita oltre i limiti consentiti
da decenza e buon costume.
Attraverso la vicenda di Alex, capo del gruppo dei ‘Drughi’ si racconta la storia più estesa dell'uomo,
delle sue contraddizioni e dei suoi istinti, un esempio di caricatura in cui si riconoscono comportamenti,
difetti, debolezze di esseri umani inseriti in un contesto culturale e sociale inadeguato.
TRAMA
Arancia Meccanica si ispira all’omonimo libro di Anthony Burgess, pubblicato nel 1962.
Siamo a Londra in un Inghilterra vagamente futuristica lacerata da una profonda crisi sociale.
Il giovane Alex DeLarge, capo di una banda di teppisti, vive di droga, rapine e spedizioni criminali: il
pestaggio di un barbone, una guerra tra bande, l’assalto a una casa isolata, il padrone di casa
massacrato di botte, la moglie stuprata. Alex, inoltre, è appassionato per la musica di Beethoven, di cui
si serve per immergersi in sogni innaturali. Scontenti per il suo dispotismo, i compagni, dopo che Alex
uccide ‘la signora dei gatti’, lo colpiscono e lo lasciano nelle mani della polizia.
Condannato a quattordici anni di reclusione, il giovane si finge mite, e ottiene, per poter uscire di
prigione, di essere sottoposto ad un trattamento di condizionamento al bene mediante nausea per il
male. Rimesso in libertà, dopo essere diventato remissivo e pacifico, sono gli altri ora ad essere violenti
con lui: la famiglia lo respinge, due suoi amici, divenuti poliziotti, lo seviziano, lo scrittore sua vittima
cerca di farlo impazzire.
Dopo un tentativo di suicidio, viene ricoverato a spese dello Stato in una clinica.
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Il governo conservatore progetta di usare il giovane contro l’opposizione e riserva ad Alex mille
attenzioni facendogli intravedere un futuro roseo.
Alex beato, ammiccante, accetta l’opportunità offertagli, deciso a sfruttare la sua nuova posizione per
appagare il suo gusto insaziabile per sesso e violenza.
2.1.1.1.1. L’incipit
LA STRUTTURA
L’incipit è costituito da due parti: la sequenza di titoli di testa, caratterizzati da uno schermo rosso e
tre cartelli,l precedono un’inquadratura fissa e una lunga carrellata all’indietro.
La prima inquadratura mostra il primo piano di Alex, il protagonista, rivolto verso lo schermo.
Il primo piano si allarga ai personaggi e all’ambiente arredato con sculture raffiguranti donne nude.
STRUMENTI DESCRITTIVI: ANALISI DELLE MATERIE VISIVE E SONORE
[Inq.1-4]
fig. 1- 2
Ad uno schermo rosso fuoco per quasi un minuto si succedono tre cartelli caratterizzati da una scritta
bianca su sfondo rosso e blu.
WARNER BROS. A KUNNEY COMPANY. Presents; A STANLEY KUBRICK PRODUCTION; A CLOCKWORK
ORANGE
[Inq.5]
fig. 3- 4
Terminati i titoli di testa la prima inquadratura mostra il primo piano immobile di Alex rivolto verso la
m.d.p., ha un occhio truccato e uno no, e indossa una bombetta scura.
Successivamente ha inizio una lunga carrellata all’indietro che scopre gradualmente prima i compagni
seduti accanto a lui, vestiti di bianco e con in mano un bicchiere di latte, e successivamente l’intero
ambiente: sculture bianche raffiguranti donne nude con le gambe aperte indossano parrucche colorate e
gambe e braccia fungono da piedi di tavolini.
Sulle note sinistre dell’arrangiamento elettronico di Walter Carlos della marcia funebre di Purcell,
Musical for the Funeral of Queen Mary, la voce over del protagonista comincia la sua autopresentazione
in prima persona e continua a parlare per tutta la durata della carrellata.
2.1.1.1.1.1. L’incipit dal punto di vista spettatoriale
MUSICA E IMMAGINE: PERCEZIONI E DIALETTICHE AUDIOVISIVE
L’incipit di Arancia Meccanica è un ritratto color rosso sangue che, attraverso la sintesi di musica e
colori, delinea già i tratti allucinati di Alex DeLarge in tutta la sua ferocia e brutalità.
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L’inchiostro rosso della ‘sword pen’ di Burgess sembra dilagare sulla pellicola del film già a partire dalla
prima inquadratura, uno sfondo rosso sangue fiammante, infuocato, shockante da togliere il respiro, che
diventa lapide su cui incidere i titoli di testa e su cui risuona l’arrangiamento elettronico della musica
funebre di Hennry Purcell, amplificando la profonda sensazione di saturazione visiva.
Il rosso fuoco fa il suo debutto sullo schermo in coppia con un blu intenso ed elettrico in una dialettica
timbrica e visiva che pare filtrata dallo sguardo di Alex, come il frutto di una visione istintiva e
allucinata che irrompe con violenza e sembra voler imporre in modo libero e incondizionato il proprio
dominio visionario su musica e colori.
Una dimensione estetica accecante e un territorio visionario si uniscono ad atmosfere sinistre e
sepolcrali evocate dalla marcia funebre e amplificate da risonanze metalliche, sonorità e visioni che
parlano il linguaggio della violenza e della distorsione e sembrano già voler esprimere una passionalità
brutale, istintiva, irrefrenabile connaturata alla personalità del protagonista.
Alex si presenta spalancando allo spettatore le porte del suo mondo, il primo piano si allarga ai
personaggi e all’ambiente, dichiarando il suo punto di vista, e la dialettica timbrica rosso - blu sembra
giungere ad una sintesi cromatica rappresentata dall’inquadratura del bicchiere di latte tenuto fra le
mani del protagonista. Il latte, alimento tradizionalmente associato a concetti di innocenza e candore
puerile, di genuinità e naturalità, è in realtà “latte piu”, ovvero, come ci informa lo stesso Alex, latte
con l’aggiunta di “qualche droguccia mescalina” che può vantare fra le sue virtù nutritive anche quella
di rendere “robusto e disposto all’esercizio dell’amata ultraviolenza”, stile di vita e forma di
espressione degli impulsi irrefrenabili del protagonista.
Il contrasto cromatico iniziale e la conseguente ambiguità risolutiva a cui esso giunge sintetizzano il
processo di neutralizzazione delle corrispondenze valoriali convenzionali, in favore di un processo di
risemantizzazione che investe tanto il piano visivo quanto quello linguistico e musicale: un linguaggio
straniante che modifica il senso originario della parola fino a stravolgerlo completamente, un lessico in
cui significato e significante sono in balia dell’istinto e dell’arbitrio dell’Es, espressioni istintive musicali
che mandano alla deriva il delicato equilibrio fra musica e immagine generando controverse dialettiche
audiovisive, aspre, dissonanti, ironiche ma in perfetta sincronia con tono e contenuto latente del film.
Tale articolata sintassi linguistica sottesa al film spinge a considerare le singole componenti visive e
sonore come interdipendenti, realizzando a livello olistico percettivo risonanze invasive, brutali e
aggressive: una sorta di schizofrenia espressiva si stabilisce tra il funereo e minaccioso brano musicale e
la vitalità dei colori accecanti, dal rossofuoco e blu elettrico dei titoli di testa al bianco eccitato del
latte più, passando per i vestiti di Alex e dei suoi drughi e diffondendosi nell’intero ambiente del
Korova, e amplifica la condizione di libertà associativa che si configura come carattere predominante