L’incentivazione: alcuni aspetti organizzativi
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Capitolo primo
Teorie organizzative e
motivazione
1 La motivazione
«Dopo aver esaminato e scartato l'intelligenza, il
temperamento, il tipo di personalità, il grado di
introversione, l'ereditarietà, l'ambiente infantile,
l'ispirazione, l'ossessione, il disturbo mentale (tutti tratti
che possono essere presenti o meno, dare il loro
contributo, essere magari dominanti), l'unico elemento
veramente generale, presente in tutti, è la motivazione»
J. Hillman (1998)
Il vero motore interno che spinge l’uomo in ogni sua
attività è indubbiamente la motivazione: il “voler fare”,
più che altri elementi. Non basta la propensione, lo stato
di necessità, le doti personali; la passione per ciò che si fa
è, o meglio dovrebbe essere, la Condicio sine qua non di
ogni azione umana che permette di ottenere risultati
migliori: migliori perché generano qualcosa in più a ciò
che appare che può essere variamente definito come
soddisfazione, autostima, autocompiacimento.
Già da queste prime battute si intuisce che nel
concetto “motivazione” è racchiuso un mondo tutt’altro
che statico. La dinamicità del termine si evince ancor
meglio da un’analisi etimologica dello stesso.
Teorie organizzative e motivazione
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«Motivo: in latino MOTIVUS da MOTUS participio
passato di MOVERE (muovere). Indica ciò che è idoneo a
muovere; come sostantivo: ciò che spinge, che suscita a
fare, che genera impulso»
www.etimo.it
Ed è giusto enfatizzare questo movimento, una
spinta che nasce e si alimenta nell’individuo, che lo porta
ad applicarsi con impegno nelle sue attività; che stimola,
regola e sostiene le principali azioni umane. «Da un punto
di vista psicologico è definibile, pertanto, come l'insieme
dei fattori dinamici aventi una data origine che spingono il
comportamento di un individuo verso una data meta»
(Wikipedia). Ed è proprio la sua idoneità a spingere
l’uomo verso la meta che ha portato diversi studiosi ad
occuparsi di tale aspetto della psiche umana elaborando
una molteplicità di teorie che variamente lo descrivono e
modelli organizzativi che cercano di stimolarlo.
Indubbiamente, infatti, la motivazione è un elemento
intrinseco dell’uomo che non può in alcun modo esser
modificato dall’esterno, ma al massimo stimolato. E
proprio tale concetto assume un’importanza rilevante, se
non proprio strategica, in ambito lavorativo, nel quale
motivare opportunamente il lavoratore può migliorare i
risultati sia dal punto di vista puramente materiale
(maggiore produzione) che, e soprattutto, immateriale
(soddisfazione, autostima, affezione al lavoro,…)
L’incentivazione: alcuni aspetti organizzativi
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«Amare il proprio lavoro è la miglior
approssimazione
al paradiso possibile su questa terra»
Primo Levi
Felicità e lavoro, quindi, non sono due poli opposti.
Possono convivere. «Chi riesce a vivere la propria
professione come una vocazione, la ama. Si tratta solo di
scorgere la propria vocazione e di alimentarla attraverso la
motivazione» (www.metaformazione.it). Ma spesso c’è
bisogno di un elemento in più: la creazione delle
condizioni idonee a far nascere tale sentimento per il
proprio lavoro. In questo contesto si inserisce un’attività
tipica del manager che consiste nell’organizzare il lavoro
altrui. «Per chi occupa posizioni di responsabilità, infatti,
si tratta anche di saperla scorgere negli altri e sfruttarla in
tutto il suo potenziale» (www.metaformazione.it). E
considerando che buona parte del tempo e delle relazioni
sociali dei lavoratori sono nell’Organizzazione a scapito
della vita personale, il suddetto potenziale può avere una
portata davvero rilevante. Ed infatti è naturale che le
risorse umane, a vari livelli, aspirino ad autorealizzarsi
anche all’interno del contesto ove operano. Il manager
non può e non deve ignorare tale fenomeno.
«Il fatto è che oggi si tiene in maggior
considerazione ciò che è interessante rispetto a ciò che ha
valore. Vedere le cose esclusivamente dal punto di vista di
quanto siano interessanti, significa vederle in una
prospettiva puramente estetica. Per un tale sguardo conta
solo la superficie, che viene giudicata interessante o
noiosa»
Teorie organizzative e motivazione
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Lars Svendsen (2004)
Troppo spesso sfugge all’ottica manageriale “il
valore” dell’attività. Più corretto sarebbe, quindi, aiutare il
lavoratore a scoprire, o riscoprire, il motivo della propria
attività attribuendole “valore”. «Dopotutto anche
attraverso il lavoro l'esistenza può arricchirsi di
significato» (www.metaformazione.it). Compito ulteriore
del manager sarà quindi compiere un’analisi critica del
singolo lavoratore per scoprirne il potenziale
motivazionale. In questo è opportuno tener presente che la
motivazione segue un andamento ciclico: «origine del
bisogno, avvertito come una tensione interiore, l'individuo
ricerca i mezzi per poterlo soddisfare; quando il soggetto
riesce a soddisfare il proprio bisogno rivaluta la situazione
e verifica la presenza di nuovi ed ulteriori bisogni»
(www.evidencebasednursing.it). Compresi i bisogni dei
lavoratori si può agire mettendo a disposizione mezzi per
soddisfarlo, accrescendo la motivazione del lavoratore.
2 Il movimento motivazionalista
La motivazione vista come “motore”; i concetti di
“autorealizzazione”, di “ valore” di un attività, di
“potenziale motivazionale”; la tensione verso un bisogno
e la ricerca dei mezzi per realizzarli. Sono questi i temi
finora accennati e che hanno rappresentato, e
rappresentano tuttora, i punti cardine di molte delle teorie
che intorno al tema della motivazione si sono sviluppate a
partire dagli anni ’20 dello scorso secolo, sino ai giorni
nostri. Sono studi che hanno indagato la motivazione
L’incentivazione: alcuni aspetti organizzativi
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dell’uomo nell’attività lavorativa, arrivando anche a
conclusioni diverse, spesso discordanti. Tutt'oggi
nemmeno è definibile in modo univoco e universalmente
accettabile il concetto di motivazione. È un “mondo” dalle
molte sfumature che «concerne i sottili processi attraverso
i quali ciascuno di noi canalizza le proprie energie, o in
altre parole i proprio investimenti» (Costa - Nacamulli,
1996), spesso in modo inconscio e non controllabile.
2.1 Il dopo Taylor: la nascita della
scuola delle relazioni umane
I primi studi che affrontano la questione
“motivazione” sono effettuati ad opera di tre inglesi,
Wyatt, Fraser e Stock (1928), e danno inizio ad una serie
di ricerche su tale problema che porteranno di lì a breve
alla nascita della “scuola delle relazioni umane” con Elton
Mayo, e porranno le basi per quella del movimento
motivazionalista e della psicologia industriale. Tali
ricerche si collocano storicamente all’interno
dell’imponente processo d’industrializzazione che
coinvolse l’Europa intera. In tale contesto forte era
l’influenza nel mondo manageriale dei principi dello
“Scientific Management” di F. Taylor: il lavoratore visto
come macchina, non considerato nella sua dimensione
umana. Si riteneva che l’unico vincolo nei ritmi di lavoro
fosse rappresentato dalle capacità fisiche del lavoratore,
dalla sua resistenza ad uno sforzo prolungato. Ed è proprio
per problematiche legate all’applicazione di tali teorie che
nasce la necessità di indagare più a fondo la condizione
Teorie organizzative e motivazione
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del lavoratore sotto un aspetto psicologico, oltre a quella
fisica: un lavoratore che era sempre più isolato nella sua
attività, che trascorreva gran parte della sua giornata in
una fabbrica alienante senza relazioni sociali di rilievo.
I tre studiosi inglesi pongono l’accento su questo
fenomeno e mettono in discussione le convinzioni del
tempo circa l’organizzazione del lavoro: criticano la
monotonia diffusa creata in azienda e ne individuano le
cause in una cattiva gestione delle risorse umane.
Suggeriscono alcuni accorgimenti utili a far recuperare la
giusta motivazione del lavoratore persa con l’applicazione
delle teorie scientifiche all’organizzazione: evitare la
ripetitività della mansione, considerare le risorse umane in
relazione tra loro, vedere nel riposo un sistema di ricarica
psichica oltre che fisica. Tutti i loro studi però non
sfociano in una concreta proposta organizzativa ma si
limitano a considerazioni di tipo psicologico e sociali. Ma
tali considerazioni sono tutt’altro che prive di importanza:
costituiscono infatti il punto di partenza per successivi
approfondimenti nell’ambito della psicologia industriale.
Inoltre sono i primi a proporre la rotazione delle mansioni
come soluzione ai problemi della noia e dell’alienazione.
Il primo ad effettuare tali approfondimenti è Elton
Mayo che, a partire dal 1924 inizia una serie di ricerche
empiriche sulla questione.
In tali studi evidenziò da subito una connessione tra
la fatica e la monotonia della mansione. Si osservò che la
coniugazione di tali fenomeni peggiorava vistosamente i
risultati lavorativi in termini di produzione: i ritmi si
rallentavano e la concentrazione veniva a mancare. Elton
Mayo considera per primo la natura sociale e relazionale
dell’individuo nel contesto lavorativo e apre le porte ad
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una nuova epoca di riflessioni circa l’organizzazione
dell’azienda: «azienda che non è più vista solo come un
apparato esclusivamente tecnico ma anche come un sotto-
sistema sociale più flessibile ed equilibrato»
(www.psicolab.net). Evidenzia nell’ambiente freddo,
meccanico e alienante le principali fonti di stress del
lavoratore e denuncia apertamente la classe dirigente di
trasformare le risorse umane in annoiati esseri che
assistono macchine senza poter interagire fra loro. Mayo
effettua una lunga serie di osservazioni dei comportamenti
operativi dalle quali trae alcune interessanti conclusioni:
innanzitutto nota la tendenza naturale dell'individuo a
creare gruppi informali e che tale tendenza si conferma
anche nell’ambito lavorativo nel quale l’uomo cerca di
riempire il vuoto che si crea al suo interno a causa
dell’assenza di collaborazione e interazione propria delle
organizzazioni aziendali; inoltre che se l’organizzazione
del lavoro è determinata dai diretti interessati alla
mansione, aumenta la motivazione, diminuisce la distanza
tra i manager e gli operai, aumenta lo spirito di gruppo; ed
infine che lo spirito di gruppo influenza notevolmente e
positivamente la produttività. Come principale
conseguenza di tali conclusioni vi è la necessità di
«migliorare le comunicazioni, che le direzioni e i
lavoratori devono sviluppare comprensione reciproca, che
i capi devono ascoltare, capire e suscitare collaborazione»
(Costa – Nacamulli, 1996).
«Gli apporti più significativi di tale corrente
possono essere così sintetizzati:
• considerare il gruppo come unità analitica
automotivante che influenza la produttività;