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Le varie edizioni del Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders ( stilato dalla American
Psychiatric Association ) hanno optato per l’approccio categoriale perche’ piu’ pratico. Questa impostazione
ha dirette implicazioni filosofiche riguardo alla stessa definizione di “disturbo mentale”: lo stato di malattia
sarebbe qualitativamente diverso e separato dallo stato di non malattia, e ogni disturbo sarebbe nettamente
separato e diverso dallo stato di non malattia , e ogni disturbo sarebbe nettamente separato e diverso
dall’altro. Come appena detto, cio’ crea territori neutri tra una diagnosi e l’altra, difficilmente riempibili se
non con diagnosi ibride di forme “atipiche”, “miste” o “ residue”.
Come e’ scritto nell’introduzione del DSM-IV,
“un approccio categoriale nella classificazione funziona nella maniera migliore
quando tutti i membri di una classe diagnostica risultano omogenei, quando vi
sono chiari confini tra le varie classi, e quando le varie classi sono mutuamente
escludentesi” (p.xxii).
Il DSM-IV ,dunque, fornisce una diagnosi di tipo descrittivo-nosografico e si fonda su un metodo
multiassiale al fine di fornire una diagnosi completa e che tenga in considerazione più aspetti:
ASSE I : Disturbi clinici, altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica.
ASSE II : Disturbi di Personalità, Ritardo Mentale.
ASSE III : Condizioni mediche generali.
ASSE IV: Problemi psicosociali ed ambientali.
ASSE V : Valutazione globale del funzionamento (VFG)
L’approccio categoriale rischia di ridurre la complessità della pratica clinica reale, con una reificazione delle
categorie diagnostiche stesse. Inizialmente, nella ricerca, può essere vantaggioso, anzi forse indispensabile,
utilizzare diagnosi di tipo categoriale allo scopo di formulare delle ipotesi euristiche testabili, in seguito,
quando si sono acquisite conoscenze sufficienti, si può passare a diagnosi dimensionali. Vi è anche chi ha
suggerito di concepire le categorie del DSM-III come “prototipiche”, nel senso che esse possono
rappresentare dei prototipi di determinate malattie, difficilmente osservabili nella realtà clinica: in questo
modo si diminuisce il rischio di reificare queste categorie diagnostiche e si induce l’operatore a rispettare
maggiormente i casi di confine anziché forzarli in una determinata categoria.
Per approfondire questo nostro viaggio verso la chiarezza ecco cosa è scritto nella prefazione alla terza
edizione del DSM (APA,1980):
“L’approccio adottato dal DSM III è ateoretico per quanto concerne l’eziologia e i
processi fisiopatologici, eccetto per quei disturbi per i quali ciò sia stabilito con
precisione” (…)
Tale approccio può essere detto “descrittivo” in quanto le definizioni dei disturbi generalmente consistono
nelle descrizioni degli aspetti clinici dei disturbi.Tali caratteristiche sono descritte al più basso livello di
inferenza necessario per descrivere gli aspetti caratteristici del disturbo.
Nell’ultima edizione (APA,1994) un po’ più prudentemente, ci si limita ad affermare che “ il DSM è basato
sui dati empirici più di ogni altra classificazione dei disturbi mentali”.
Un approccio descrittivo è basato sulla descrizione e non fornisce di fatto alcuna altra connotazione
significativa.La fuorviante pretesa di descrittività non è riferita solo agli aspetti clinici, ma la si trova ancora,
implicita, nel concetto statistico di covariazione
3
, che governa l’assemblaggio dei sintomi in entità
diagnostiche.
A nostro avviso la minuziosa capacità discriminatoria e la lussureggiante varietà clinica proposte dal
Manuale non rappresentano un arricchimento degli strumenti diagnostici, ma appaiono piuttosto come
artefatti di un metodo che tende a codificare come disturbi separati particelle della stessa entità clinica. Ciò
lascia aperto il problema di quale legame intercorra tra le diverse classi di disturbi che ritroviamo appiattite
su un unico piano diagnostico: e tutto ciò senza che ci sia suggerita la benchè minima ipotesi circa i loro
rapporti e l’articolarsi della loro compresenza.
La classificazione ha finito per tramutarsi in “lista” di entità diagnostiche disparate la cui natura ed i cui
legami sono del tutto sconosciuti all’osservatore. Paradossalmente il clinico è così, insidiosamente, invitato a
soprassedere ad ogni tentativo di analizzare correlazioni strutturali e psicogenetiche.
3
“…Nel DSM i diversi sintomi vengono a costituire un disturbo quando si dimostra che hanno una tendenza a presentarsi insieme ( covariazione )
superiore a quella che si potrebbe riscontrare se il fenomeno fosse casuale.” > DSM-IV, APA, 1994 ≅
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E’ come se un internista rilevasse nello stesso paziente una cicatrice sierologica da epatite, una cirrosi
epatica, una ipertensione portale e non si curasse dei rapporti che intercorrono tra queste entità diagnostiche,
certamente diverse, ma non per questo meno strettamente correlate.
Se poi esaminiamo nel dettaglio i criteri diagnostici di un singolo disturbo, in particolare della schizofrenia,
da sempre considerata una sorta di cartina tornasole della bontà di una classificazione psichiatrica, ci
accorgiamo che la loro presunta ateoreticità è una chimera.
Sembra quasi, infatti, che l’ateoreticità si possa raggiungere nelle intenzioni degli autori del DSM
semplicemente con una sorta di “media matematica” delle più autorevoli proposte in materia.
Non vogliamo con questi rilievi decretare l’inutilità della nosologia.
E’ infatti innegabile che sia necessario disporre di un sistema classificatorio il più possibile coerente e
condiviso. Inoltre come precisa Kraepelin (1977):
“” se non si disponesse della nosologia sarebbero impossibili tutte le comunicazioni
scientifiche,e le nostre professionali conterebbero solo relazioni sui singoli casi,
aneddoti ed espressioni di opinioni personali.(…)””
Ci sembra però necessario che la nosologia psichiatrica, quella rappresentata dal DSM, abbandoni una volta
per tutte la sua presunzione di scientificità super partes, e non confonda la numerologia statistica con la
capacità di individuare ed evidenziare gli autentici nuclei clinici della psichiatria.
Così come si presenta nei suoi più recenti strumenti operativi essa appare piuttosto ,per tutte le ragioni che
abbiamo sottolineato, destinata a produrre in chi le si affida una funesta disattenzione selettiva verso i veri
problemi clinici che la psichiatria ci presenta quotidianamente e che necessitano, a nostro avviso, di ben altra
sensibilità metodologica.
Il DSM, riproponendo la mitologia ingenua e fuorviante della statistica come “scienza super partes“, delega
impropriamente ad essa la responsabilità di porsi quale ordinatore unico, e ne viene ripagato con la moneta di
una iperplasia categoriale che non ha i mezzi concettuali per gestire.
E’ qui che si presenta la perentoria necessità di un pensiero psicopatologico organizzatore. La presunzione di
ateoreticità, che sottolinea orgogliosamente l’assenza di ogni presupposto e condizionamento
psicopatologici, rappresenta appunto il più evidente limite di questo approccio, un limite capace di
scoraggiare, e perfino paralizzare, il pensiero psichiatrico.
Oltre al DSM esiste un altro sistema diagnostico basato su precisi criteri diagnostici: l’ICD-10, la decima
edizione dell’International Classification of Diseases stilato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e
presentato nel 1992.
I DSM si sono imposti maggiormente a livello internazionale di quanto non sia accaduto per gli ICD, poiché
sono molto più attendibili per la presenza di precisi “criteri diagnostici”.
Una importante differenza tra l’ICD-10 e il DSM-IV è che l’ICD-10 contiene due tipi di criteri diagnostici,
cioè due diversi manuali, uno per il clinico, più flessibile, e l’altro per il ricercatore, più preciso, in quanto
l’OMS ha ritenuto pericoloso per la pratica clinica l’adozione di rigidi criteri diagnostici come fa il DSM .
Infatti l’uso un po’ meccanico del DSM rischia di snaturare quello che viene chiamato “giudizio clinico” ,
ritenuto ancora indispensabile in un campo così complesso come questo, necessariamente basato sul rapporto
interpersonale. I DSM invece hanno deciso di mantenere un unico tipo di criteri diagnostici, per rimanere
fedeli all’ideale scientifico secondo il quale la ricerca deve influenzare la clinica e viceversa. Secondo molti
ricercatori, il sistema americano è molto più accurato, ma il sistema dell’OMS verrà necessariamente diffuso
in quasi tutti i paesi del mondo dove è d’obbligo per precisi accordi internazionali.
Attualmente perciò, la diagnosi in campo psichiatrico ha un valore di convenzione condivisa, più che di
identificazione di una specifica eziopatogenesi della malattia e di una corrispondente specifica risposta
terapeutica.
Queste considerazioni hanno ridimensionato il ruolo svolto dai più recenti sforzi di sistematizzazione
categoriale dei disturbi mentali come DSM-IV e ICD-10. Da un lato è possibile evidenziare l’esistenza di
dimensioni patologiche trans-sindromiche, dall’altro l’approccio categoriale non permette di cogliere le
similarità sintomatologiche parcellari, tra sindromi diverse, che potrebbero sottendere comuni meccanismi
patogenetici. La sistematica descrizione di segni e sintomi raccolti, a fini diagnostici, in disordini e disturbi
psicopatologici, può essere alla base di una fittizia sovrastima della comorbilità psichiatrica che, in realtà, lo
stesso sistema diagnostico e nosografico di riferimento crea.
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L’insoddisfazione per il sistema categoriale di classificazione, ritenuto superficializzante ed in
conclusione confusivo, ha condotto di recente ad una valorizzazione dell’ approccio dimensionale come
modalità di descrizione psicopatologica e come possibile obiettivo specifico per i trattamenti farmacologici.
Infatti lo sviluppo della ricerca in campo psicobiologico e psicofarmacologico è paradossalmente il
principale fattore di crisi del sistema nosografico categoriale.
Inizialmente l’avvento della moderna psicofarmacologia è sembrato giustificare lo sforzo di sistematica
classificazione diagnostico-nosografica delle malattie mentali.Per alcuni decenni, la clinica ha evidenziato
l’efficacia di specifiche classi di farmaci su specifiche categorie, confermando, apparentemente, che tali
categorie diagnostiche avevano una loro validità reale e non erano semplici astrazioni razionali o
ipersemplificazioni del reale. Il formidabile incremento delle conoscenze scientifiche in campo
neurobiologico, degli ultimi decenni, ha messo profondamente in crisi, forse in modo irreversibile, certi
concetti nosografici e , contemporaneamente, quello di specificità , di varie classi di psicofarmaci, nel
trattamento di determinate classiche “categorie psicopatologiche”.
La somministrazione di un farmaco presuppone, in medicina, una ben definita condizione patologica, su cui
quella sostanza agisce su uno specifico substrato fisiopatologico. I più recenti studi di psicobiologia e di
psicofarmacologia hanno dimastrato alterazioni di determanati parametri neurochimici, neuromorfologici e
neurofisiologici, largamente sovrapponibili, in disturbi mentali, nosograficamente diversi.
In psicopatologia le barriere categoriali, che mantengono una loro valenza didattica e comunicativa, si
scontrano con la realtà terapeutica, che evidenzia l’efficacia di composti psicotropi efficaci, in situazioni
cliniche nosograficamente distanti. Il concetto di specificità farmacologica appare intrinsecamente legato
all’approccio categoriale alla psicopatologia. Negli ultimi anni, si sono raccolte numerose evidenze
scientifiche che hanno messo in crisi la teoretica categoriale. Si sta passando così, ad un approccio
nosografico rigidamente categoriale ad un approccio dimensionalistico.
Si tende, sempre più frequentemente ,a non considerare come entità reali le categorie diagnostiche, che in
psichiatria raramente si presentano nella loro ideale descrizione, orientandosi verso un approccio
classificativo, che considera i diversi sintomi autonomamente, in un “continuum” tendenzialmente trans-
nosografico.
Una dimensione psicopatologica viene definita come un’area di funzionamento alterata che è descritta da un
insieme di sintomi che concorrono alla sua identificazione con un peso differenziale.
Le dimensioni psicopatologiche possono essere ipotizzate in base all’osservazione clinica, ma vengono
confermate con metodi statistici (analisi fattoriale) che in alcuni casi permettono anche l’identificazione di
nuove dimensioni non previste. L’identificazione delle dimensioni nell’ambito di un disturbo o di una
categoria di disturbi si basa sulle scale di valutazione utilizzate per misurare la sintomatologia di quel
particolare disturbo. Si passa quindi da una descrizione clinica effettuata con una molteplicità di sintomi ad
una descrizione semplificata con un assai più ridotto numero di variabili essenziali che rappresentano
l’essenza psicopatologica del disturbo.
Nel caso della schizofrenia questo approccio ha dimostrato di essere particolarmente fecondo. Va
osservato che, già a partire dagli anni ’80, su base puramente clinica era stata proposta una “dicotomia
dimensionale” basata sulla distinzione tra “sintomi positivi” e “sintomi negativi” ed era stata indicata per
ognuna delle due “dimensioni” un diverso tipo di decorso, di esiti e di risposta alle terapie farmacologiche.
Era stato anche proposto che alle due dimensioni sottendessero meccanismi patofisiologici diversi. Questa
dicotomia psicopatologica è divenuta un fatto acquisito nella clinica della schizofrenia e rappresenta un
punto di riferimento soprattutto nella valutazione dell’efficacia di nuovi farmaci. Negli ultimi dieci anni,
l’applicazione delle tecniche di analisi fattoriale e l’approfondimento dell’analisi psicopatologica ha mostrato
come la struttura dimensionale della schizofrenia sia in realtà più complessa rilevando l’esistenza di almeno
tre principali componenti nel riquadro sintomatologico della schizofrenia , a cui probabilmente sottendono
altrettanti meccanismi patofisiologici in qualche misura tra di loro correlati.
La prima componente (o dimensione) psicopatologica è definita come trasformazione della realtà ed è
caratterizzata dai sintomi “positivi” (essenzialmente deliri ed allucinazioni). La seconda componente è
definita come impoverimento ed è caratterizzata dai cosiddetti sintomi “negativi” (ipoaffettività, alogia,
perdita della progettualità, asocialità). La terza componente è rappresentata dalla disorganizzazione del
pensiero e del comportamento.
Le tre dimensioni fanno parte integrante del quadro clinico della schizofrenia e possono assumere una
variabile importanza o peso relativo in funzione delle particolari circostanze di stato o di decorso.
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La descrizione del quadro sindromico in termini dimensionali ha rappresentato un rilevante progresso nello
studio e nella comprensione della schizofrenia. Ha infatti permesso di ipotizzare e, in alcuni casi, dimostrare
come ad ogni dimensione psicopatologica possa sottendere un meccanismo patofisiologico relativamente
specifico e come ogni dimensione possa essere il target per una terapia farmacologica più centrata nel tipo di
alterazione dominante.
Inoltre l’approccio dimensionale ha permesso di meglio identificare gli obiettivi terapeutici del trattamento
farmacologico. Oggi, infatti il problema principale è quello di modulare l’intervento in funzione del peso
reciproco e della relativa dominanza delle dimensioni psicopatologiche nel quadro clinico. Mentre infatti la
relativa specificità dei farmaci antipsicotici “tradizionali” nella sindrome positiva è un fatto acquisito, si sta
tentando con i farmaci più recenti di centrare l’obiettivo della sindrome negativa e quello, forse più
complesso ma fondamentale, della disorganizzazione.
Questa modalità classificativa si realizzerebbe sulla base di una attribuzione di punteggio riguardo a tratti
normalmente presenti; ciò consentirebbe una più accurata descrizione anche di quei tratti che il clinico tende
ad ignorare poiché non compresi nel cluster atteso.
L’alternativa dell’approccio dimensionale propone una maggiore complessità sia delle funzioni diagnostiche
che, quindi, della loro comunicazione.
Diviene più importante l’intensità che la presenza dei sintomi, con una valutazione meno netta dei confini tra
normalità e patologia e tra una caratteristica e l’altra
4
.
Un approccio di tipo dimensionale, dunque, riduce il rischio di stigmatizzazione connesso all’uso di etichette
diagnostiche, e facilita la classificazione di casi al confine tra differenti categorie, dei casi difficili e della
comorbidità.
Peraltro l’approccio dimensionale è certamente più problematico per l’impiego nella pratica clinica
quotidiano e rende le comparazioni più ardue. A tutt’oggi, non si è ancora riusciti a proporre un sistema
dimensionale empiricamente validato ed idoneo alle esigenze della pratica clinica.
L’approccio dimensionale è, per definizione, antinosologico in quanto isola, nel contesto dei diversi disturbi,
delle dimensioni autonome, indipendenti le une dalle altre, ciascuna delle quali può essere presente in entità
nosologiche diverse. L’analisi dimensionale ideale è quella che riesce a “sezionare” un disturbo psichico in
tutte le sue dimensioni fondamentali e a definirle in maniera quanto più specifica possibile. La
scomposizione dei disturbi psichici in singole dimensioni psicopatologiche è chiaramente artificiosa poiché
è il clinico che scompone ciò che in natura è più o meno complessamente e completamente integrato, e
tuttavia le scale di valutazione che aiutano in questo processo di scomposizione vanno per la maggiore.
Naturalmente per ogni disturbo può essere identificata una dimensione fondamentale che ,generalmente, si
associa con un numero variabile di altre dimensioni di vario tipo.
La Scala per la Valutazione Rapida Dimensionale SVARAD, recentemente costruita e validata presso la III
Clinica Psichiatrica dell’Università di Roma “La Sapienza”, è una scala di valutazione a cinque punti,
costituita di dieci items. Essa permette di effettuare rapidamente una valutazione sufficientemente valida e
affidabile delle principali dimensioni psicopatologiche, senza dover ricorrere ad una batteria di scale
5
.
In generale, in campo scientifico si è assistito ad una progressiva evoluzione da modelli di tipo dicotomico
(ossia categoriali), in cui alcune specifiche variabili sono considerate presenti o assenti, a modelli di tipo
continuo ( dimensionali), in cui vi è appunto un continuum di gradazioni della stessa dimensione indagata, il
che ne permette una migliore precisazione.
Alla luce di quanto detto, anziché antitetici i due approcci sembrano complementari e la maggior complessità
ed insieme informatività del dimensionale li propone come modalità di ricerca e di maggior completezza
nella raccolta dei dati riconducibili poi al categoriale per necessità operative, di comunicazione e medico-
legali.
4
Cassano et al. Trattato di psichiatria. Masson 1999. 60: “ Il problema dei disturbi di personalità.”
5
Giornale Italiano di Psicopatologia 1995;1:8-23. Pancheri P, Biondi M, Gaetano P, Picardi A: “Costruzione della SVARAD, Scala di
Valutazione Rapida Dimensionale.”
12
Gli albori dell’approccio dimensionale.
Per quanto concerne la querelle sulla contrapposizione tra diagnosi categoriale e diagnosi dimensionale
bisogna evidenziare un altro aspetto problematico che chiede risoluzione: come la psicopatologia della
personalità risente di questa contrapposizione?
Ci si riferisce alla pressochè totale identificazione della psicopatologia della personalità con i disturbi di
personalità dello statunitense DSM, a partire dalla terza edizione, nel 1980.
L’intento non è quello di togliere al DSM qualsiasi merito, tutt’altro: infatti l’introduzione dell’asse II, dei
disturbi della personalità nel DSM-III ha generato una spinta di dimensioni veramente importanti nel
produrre interesse verso un’area della psicopatologia da sempre considerata di difficile caratterizzazione e
delimitazione. Questa spinta ha prodotto negli ultimi vent’anni, prima negli Stati Uniti e in seguito in
Europa, una grande quantità di ricerche empiriche in vari settori: patogenesi, diagnosi, trattamento.
E’ però indubitabile come nel corso degli anni siano comparsi segnali preoccupanti soprattutto nell’ambito
del fondamentale , e fondante, campo della validità dei costrutti diagnostici, cioè dell’effettiva esistenza delle
entità cliniche descritte.
Partendo infatti da un dato clinico, la tendenza dei disturbi di personalità a non comparire singolarmente, ma
a sovrapporsi nei soggetti in cui vengono diagnosticati, si è aperto un dibattito sulla possibile comorbilità di
essi.
Oltre alla problematica definizione dei confini del normale e del patologico relativamente alla struttura
di personalità, e del confine tra personalità abnormi e patologia clinica talune categorie risultano
ridondanti.La possibilità di una diagnosi multipla per l’Asse II quando vengono soddisfatti i criteri per più di
uno dei Disturbi di personalità sembra più di ogni altra indicazione segnalare una debolezza nei criteri e nel
metodo, appunto quello categoriale
6
. Con questo sistema è inevitabile una certa confusione tra tratto e stato.
Mentre originariamente la concezione categoriale, seppure con qualche ambiguità, sembrava segnare
fortemente l’impostazione diagnostica del DSM, recentemente due concezioni si preannunciano come nuove
chiavi di interpretazione:la prima si riferisce alla metologia di classificazione, essa è rappresentata
dall’approccio dimensionale; l’altra riguarda più l’oggetto della classificazione attraverso una progressiva
valorizzazione del concetto di temperamento.
Uno degli elementi che più hanno favorito lo sviluppo di sistemi tassonomici dei tratti di personalità e che,
per converso, ne ha rappresentato una delle principali ricadute empiriche e teoriche, è stato il riconoscere che
la personalità è provvista di un’organizzazione gerarchica.
In questo schema gerarchico, i costrutti di ordine gerarchicamente più elevato spiegano le correlazioni
osservate tra i costrutti di ordine inferiore. Non è sorprendente che i risultati relativi alla struttura fattoriale
della personalità possano essere differenti a seconda del diverso livello di estrazione dei fattori e delle
diverse modalità di estrazione e rotazione dei medesimi.
Questo comporta una sorta di tensione tra i modelli multidimensionali dei tratti e i modelli dei fattori
generali.
I modelli multidimensionali dei tratti si concentrano su tratti specifici (per esempio, aggressività, impulsività,
altruismo, ecc.) e sono stati sviluppati in base sia a interessi teorici, sia a considerazioni pragmatiche. Per
esempio la Personality Research Form valuta i tratti derivati dal sistema dei bisogni di Murray.
Si deve, però, considerare che la maggior parte dei modelli multidimensionali dei tratti prendono in
considerazione delle caratteristiche di personalità che possono essere meglio inquadrate e spiegate da modelli
basati su fattori generali di ordine superiore.La maggioranza di questi ultimi si basa su un numero di fattori
compreso tra tre e sette.
Tra i più celebri modelli fattoriali generali della personalità possiamo elencare il modello a tre fattori di
Eysenck (Eysenck e Eysenck, 1985), il modello a cinque fattori (“Big Five”) (John,1990) e il modello a
sette fattori di Cloninger (Cloninger et al. 1994)
7
.
Eysenck propose inizialmente un modello a due fattori : nevroticismo ed estroversione , cui aggiunse
in seguito un terzo fattore, psicoticismo.
6
Cassano et al.:Trattato di psichiatria. Masson 1999. 60: “ Il psoblema dei disturbi di personalità.”
7
Fossati C: “ Evoluzione, personalità, psicopatologia.” In: Maffei C, Battaglia M, Fossati A: Personalità, sviluppo e psicopatologia. Laterza Roma-
Bari 2002.
13
Superando la teoria dei "tratti", numericamente indefiniti, la personalità sarebbe definita da un nucleo di
"dimensioni" intese come costrutti teorici stabili, che influenzerebbero il comportamento individuale.
Inizialmente fu riconosciuta l'esistenza di due dimensioni principali, chiaramente delineate, denominate
Estroversione e Nevroticismo. Nel 1952 Eysenck ipotizzò l'esistenza di una terza fondamentale dimensione
indipendente dalle precedenti, che fu denominata Psicoticismo. Le scale di personalità di Eysenck
comprendono i risultati di quarant'anni di sviluppo e numerosissimi studi psicometrici e sperimentali;
l'importanza ed il significato psicologico di questi tre principali fattori della personalità hanno avuto riscontri
positivi in tutti gli ambiti in cui sono stati applicati: educativo, clinico, del lavoro.
Basato su questo modello a tre fattori, l'Eysenck Personality Questionnaire nella sua forma riveduta per gli
adulti rappresenta un'evoluzione delle diverse precedenti versioni.
L'EPQ-R dà una misura delle tre fondamentali dimensioni della personalità:
- il fattore Nevroticismo descrive l'emotività della persona (sul continuum che va dalla stabilità all'instabilità
emotiva, il soggetto in base al punteggio ottenuto verrà considerato più o meno ansioso, depresso, lunatico,
preoccupato circa ciò che può andare storto, capace di adattamento, reattivo alle stimolazioni);
- il fattore Estroversione fornisce un indice della socievolezza e della vivacità della persona (il risultato
ottenuto in questa scala colloca il soggetto sul continuum che va dall'estroversione all'introversione);
- con il fattore Psicoticismo si rilevano se e a quale livello sono presenti disturbi della condotta (esso si
riferisce ad una sottostante predisposizione della personalità, presente a vari gradi in tutte le persone: se in
misura marcata indica la disposizione a sviluppare potenzialmente anomalie psichiatriche, anche se non
necessariamente in forma di psicosi. Descrive la persona in termini di empatia, sensibilità, socializzazione).
Il questionario prevede anche una misura della dissimulazione (scala Lie o L). È poi possibile, ricavare i
punteggi di altre due scale: Dipendenza (valutata in rapporto alla dipendenza da sostanze) e Criminalità (utile
predittore di condotte delinquenziali o recidive).
Esiste anche una forma ridotta (EPQ-R - Forma ridotta), da usare quando sia ha poco tempo a disposizione o
se ne prevede la somministrazione all'interno di una batteria di altri test.
L'EPI - Eysenck Personality Inventory è la versione del 1976 del test. Composta da 69 item, dà una misura
delle tre scale Nevroticismo, Estroversione e Psicoticismo e prevede una forma per adulti e una per bambini,
somministrabili in circa 15 minuti.
I proponenti del modello a cinque fattori della personalità si basano sulle cosiddetta ipotesi lessicale,
che postula che le caratteristiche di personalità più importanti ed evidenti sul piano sociale vengano
codificate nel linguaggio quotidiano.
Storicamente, Allport (1937) fornì per primo le basi per i successivi studi tassonomici elencando i termini
relativi alla personalità contenuti in un dizionario integrale della lingua inglese. Curiosamente Cattell (1945)
utilizzò questo elenco come base per il suo modello multidimensionale dei tratti di personalità; tuttavia, i
ricercatori che successivamente hanno continuato la tradizione lessicale allo studio dei tratti di personalità
hanno trovato che cinque fattori rappresentano adeguatamente la struttura di questi aggettivi.
Questo modello a cinque fattori viene usualmente indicato con il termine “Big Five” (Goldberg,
1993).Ciascuno dei cosidetti fattori “Big Five” riassume un dominio di differenze individuali estremamente
ampio, che contiene al proprio interno un ampio numero di caratteristiche di personalità distinte e
maggiormente specifiche.
Il termine Big Five è stato usato per la prima volta da Goldberg (1981), anche se fu Norman (1963) a dar
inizio ad un lavoro approfondito sui cinque grandi fattori. Questo modello, come abbiamo detto, trae origine
dall’approccio lessicografico allo studio della personalità, secondo il quale il linguaggio naturale (e, quindi, il
vocabolario) può essere usato come base per cercare termini che descrivano la personalità.
Secondo questa teoria, vi sono cinque grandi fattori della personalità, che sono misurati dalla maggior parte
dei test (anche di quelli non specificamente designati a questo scopo):
1) Estroversione: il polo positivo di questo fattore è rappresentato dall’emozionalità positiva e dalla
socialità, laddove quello negativo è rappresentato dall’introversione, ossia dalla tendenza ad “esser presi”
più dal proprio mondo interno che da quello esterno. Gli introversi sono ,infatti, meno socievoli. Questo
fattore corrisponde al fattore Estroversione di Eysenck;
2) Amicalità: il polo positivo di questo fattore è rappresentato da cortesia, altruismo e cooperatività; il polo
negativo da ostilità, insensibilità ed indifferenza.
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3) Coscienziosità: questo fattore contiene nel suo polo positivo gli aggettivi che fanno riferimento alla
scrupolosità, alla perseveranza, alla affidabilità ed alla autodisciplina e , nel suo polo negativo, gli
aggettivi opposti.
4) Nevroticismo: il polo positivo di questo fattore è rappresentato da vulnerabilità, insicurezza ed instabilità
emotiva, dalla dominanza e dalla sicurezza. Tale fattore corrisponde al fattore Nevroticismo di Eysenck.
5) Apertura all’esperienza: il polo positivo di questo fattore è rappresentato da creatività, anticonformismo
ed originalità. Il polo opposto è, invece, identificato dalla chiusura all’esperienza, ossia dal conformismo
e dalla mancanza di creatività ed originalità. Alcuni autori definiscono questo fattore “intelligenza” e ne
considerano aspetti centrali la cultura e la capacità di adattarsi all’ambiente. Il suo polo negativo sarebbe,
quindi, definito come “mancanza di intelligenza”. Questo fattore è alquanto controverso,anche perché
non tutti gli autori sono disponibili a considerare l’intelligenza all’interno di una teoria della personalità.
Il modello “Big Five” presenta un ampio grado di sovrapposizione con il modello a tre fattori di Eysenck.
Infatti, nevroticismo ed estroversione sono comuni ad entrambi i sistemi.
In età adulta, il modello a sette fattori della personalità maggiormente conosciuto e utilizzato è quello
elaborato da Cloninger.
Si tratta di un modello strutturale della personalità radicalmente differente e innovativo rispetto agli altri
modelli dei fattori generali visti in precedenza, per almeno quattro aspetti:
- prevede esplicitamente una dissociabilità delle caratteristiche di personalità in due grandi
componenti: temperamento e carattere;
- ipotizza lo sviluppo personolofgico come il risultato di un processo di interazione tra dimensioni
di differenze individuali a base genetica e situazioni ambientali;
- di conseguenza, ha un’ottica intrinsecamente evolutiva;
- mira esplicitamente a spiegare lo sviluppo delle differenze individuali sia nell’ambito della
personalità adattiva, sia nell’ambito della patologia della personalità.
Malgrado il fiorire di numerose definizioni alternative, attualmente si concorda nel definire il temperamento
come l’insieme di quelle componenti della personalità che sono ereditabili, stabili nel corso dello sviluppo,
basate sulle emozioni, e non influenzate dall’apprendimento socio-culturale.
Il modello di Cloninger prevede quattro dimensioni del temperamento e tre del carattere.
In base a questo modello circa il 50% della personalità può essere attribuito al temperamento, fortemente
influenzato da variabili genetiche, e il restante 50% al carattere, ampiamente determinato da variabili
ambientali.
Le dimensioni del temperamento sono:
_ Harm avoidance: coinvolge preoccupazioni pessimistiche riguardo al futuro, comportamenti di
evitamento della frustrazione, come timore dell’intercezza e timidezza verso gli estranei, e facile
affaticabilità.
_ Novelty Seeking : caratterizzata da frequenti attività esplorative di fronte alle novità, decisioni impulsive,
accentuata reattività nei confronti di stimoli e gratificazioni, irritabilità e attivo evitamento della
frustrazione.
_Reward Dependenc : caratterizzata da sentimentalismo, attaccamento sociale e dipendenza
dall’approvazione altrui.
_Persistence : si riferisce alla capacità di perseveranza a dispetto di frustrazioni e fatica.
Ciascuna di queste dimensioni rappresenta un tratto normalmente distribuito, moderatamente ereditabile e
stabile. Infatti, circa il 50% della varianza del temperamento è ereditabile e stabile dall’infanzia all’età
adulta. I tratti costitutivi di ciascuna dimensione temperamentale condividono una fonte di covariazione
comune, forte e invariante indipendentemente dalle modificazioni nell’ambiente e dall’esperienza pregressa.
La presenza di una base genetica in queste quattro dimensioni temperamentali non implica che non possano
essere modificate da specifiche esperienze cognitivo-comportamentali, ma che hanno antecedenti forti ed
invarianti.
I tratti temperamentali influenzano le risposte emotive, producendo una gamma di stati emotivi che
dipendono dall’interazione fra il tratto temperamentale e lo stimolo. Ossia, lo stato emotivo dipende dal fatto
che una persona abbia un punteggio alto o basso in una dimensione temperamentale e che l’esperienza sia
positiva (gratificante) o negativa (non gratificante).
In base a questo modello, uno stesso stimolo ambientale può determinare differenti risposte emotive
attraverso l’attivazione di dimensioni temperamentali multiple. Per esempio, un elemento nuovo o non
15
familiare susciterà interesse e desiderio di esplorazione in modo direttamente proporzionale ai punteggi in
ricerca della novità, così come una reazione di ansia e inibizione in misura direttamente proporzionale ai
punteggi in evitamento del danno. Questo implica che il temperamento coinvolge l’integrazione di spinte
emotive multiple che possono essere conflittuali o sinergiche.
In contrasto con il modello implicito dell’esperienza definito dalla configurazione temperamentale, il
carattere rappresenta un modello esplicito delle aspettative consce.
Questo modello esplicito è definito da insiemi di assunti concettuali che i soggetti compiono in relazione agli
obiettivi personali, alle altre persone, alla vita e al mondo nel loro complesso.
Le dimensioni del carattere riguardano le differenze individuali nei modelli interni consci delle attese
relative al panorama adattivo individuale (ossia al mondo esperienziale del soggetto).
Le stesse sono scarsamente ereditabili, ma vengono invece, influenzate dall’apprendimento sociale e dalle
attese culturali relative ai ruoli sociali legati all’età, professione e altre circostanze sociali del soggetto. Si
può quindi dire che , dove il temperamento si riferisce al modo in cui siamo nati, alla nostra predisposizione
emozionale, il carattere è ciò che noi facciamo di noi stessi intenzionalmente.
Il modello di Cloninger prevede tre dimensioni del carattere:
_Self-directedness : riguarda l’accettazione delle responsabilità per le proprie scelte invece dell’attribuzione
di colpe ad altri, l’accettazione di sé, il ricorso a risorse personali e l’identificazione di obiettivi e scopi nella
vita.
_Cooperativeness : è una misura della relazione d’oggetto e investe le dimensioni dell’empatia, dell’essere
utile, della compassione e dell’accettazione sociale.
_Self-trascendence: si riferisce all’accettazione della spiritualità dell’individuo, alle identificazioni che
vanno al di là del sé e alle spinte altruistiche.
Le dimensioni del carattere si sviluppano secondo una modalità stepwise (“a gradini”) dall’infanzia fino alla
tarda età adulta. I tempi e i tassi di transizione fra i vari livelli evolutivi sono funzioni non lineari delle
configurazioni temperamentali, dell’educazione socio-culturale e di eventi di vita casuali antecedenti. Gli
assetti temperamentali e caratterologici interagiscono tra loro.
Per esempio se una persona è bassa in autodirezionalità, questo concetto di sé interagisce con l’assetto
temperamentale nel generare delle emozioni secondarie di vanità o vergogna, a seconda dei successi o degli
insuccessi del momento.
Vi sono tre punti relativi al carattere e alle emozioni secondarie che rivestono un’importanza particolare nel
modello di Cloninger.
Primo, le emozioni secondarie, come la vergogna, non possono manifestarsi fino al momento in cui i
bambini sviluppano il concetto delle differenze tra loro e altri oggetti, che di solito si manifesta tra i 18 mesi
e i 3 anni di età.
Secondo, personalità e regolazione emotiva coinvolgono sempre un’interazione bidirezionale tra
temperamento e carattere, una volta che i concetti di sé sono emersi con la maturazione del sistema
dell’apprendimento concettuale o proposizionale.
Terzo, i soggetti con bassi punteggi nelle dimensioni del carattere (specialmente, autodeterminazione e
cooperatività) vengono considerati degli immaturi. Più in generale, i soggetti con bassi punteggi in
autodeterminazione e/o cooperatività vengono spesso diagnosticati come affetti da disturbi di personalità.
Inoltre certi temperamenti sono caratteristici di specifiche tipologie di specifiche tipologie di disturbi di
personalità. Cloninger e collaboratori hanno riscontrato che i pazienti con BPD sono gli unici a presentare
una forte tendenza sia alla ricerca della novità sia all’evitamento del danno. In altre parole i pazienti
borderline sono impulsivi, arrabbiati e anche estremamente ansiosi.
Nell’ottica del modello a sette fattori di Cloninger, sia il temperamento che il carattere sono costrutti
multidimensionali. Ciascuna dimensione è eziologicamente distinta, ma in interazione funzionale con altre.
Questo sistema interattivo ha la proprietà di auto-organizzarsi e auto-regolarsi come risultato delle dinamiche
collettive tra i processi dei suoi vari componenti. In altri termini, l’organismo è guidato spontaneamente a
trovare le modalità di comportamento che possano soddisfare tutti i vincoli interni ed esterni. Una data
configurazione di personalità può essere altamente stabile, ma non per questo rappresenta necessariamente la
modalità di comportamento maggiormente adattiva. I cambiamenti, in questo caso, non si auto-
organizzeranno come conseguenza del solo asseto temperamentale, ma saranno il risultato di pressioni
esterne, eventi casuali, o di una ricerca auto-direzionata di obiettivi che soddisfino i bisogni emotivi del
soggetto.
16
Le configurazioni caratteriologiche cambiano consistentemente verso una configurazione alternativa che è
prevista come la più probabile in accordo con le dinamiche attese di un sistema adattivo complesso. I valori
medi della popolazione rimangono quasi stazionari, ma gli individui nella popolazione esplorano le
configurazioni alternative disponibili al fine di ottimizzare l’adattamento individuale. Molti rimangono
stabili, ma coloro che cambiano si muovono sistematicamente in direzioni vincolate dalle correlazioni fra
tutte le dimensioni della personalità.
In sintesi quindi il modello di Cloninger descrive lo sviluppo della personalità come un sistema adattivo
complesso con dinamiche non lineari.
Questi modelli rappresentano un notevole passo avanti nello studio psicopatologico della personalità in
contrapposizione con il modello categoriale del DSM-IV che definisce i disturbi di personalità come
categorie discrete in continuità con il DSM-III e DSM-III-R.
Ad onor del vero, bisogna senz’altro riconoscere un che il DSM-III ha rappresentato una svolta importante
nell’ambito clinico perché per la prima volta, i disturbi di personalità venivano considerati come entità
diagnostiche autonome, indipendenti dai disturbi psichiatrici di asse I e provviste di caratteristiche
nosografiche proprie. Infatti il DSM-III per la prima volta poneva i disturbi di personalità su un asse
diagnostico autonomo: il cosiddetto asse II. Ma il modello categoriale utilizzato dal DSM-IV (ultima
evoluzione di questo sistema) per la diagnosi dei disturbi di personalità è di tipo politetico: per ciascun
disturbo di personalità, la diagnosi viene emessa quando viene raggiunto un numero minimo di sintomi, per
esempio, cinque sintomi su nove per il disturbo borderline di personalità.
Secondo il DSM-IV, i disturbi di personalità vengono definiti come modalità stabili e di lunga durata, che
non possono essere giustificate meglio come manifestazioni di un altro disturbo mentale e che non risultano
collegate agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica generale, e il cui esordio
può essere fatto risalire almeno all’adolescenza o alla prima età adulta.
Più in dettaglio il DSM-IV descrive 10 disturbi di personalità suddivisi in tre gruppi sovraordinati, definiti
come: -gruppo A: disturbi di personalità paranoide, schizoide e schizotipico;
-gruppo B: disturbi di personalità antisociale, borderline, istrionico e
narcisista;
-gruppo C: disturbi di personalità evitante, dipendente e ossessivo-
compulsivo.
Oltre a questi 10 disturbi di personalità, il DSM-IV prevede due ulteriori categorie diagnostiche proposte per
ulteriori studi, il disturbo passivi-aggressivo di personalità e il disturbo depressivo di personalità.
Infine se il quadro personologico di un individuo soddisfa i criteri generali per un disturbo della personolità e
sono presenti tratti di vari disturbi di personalità diversi, ma non risultano soddisfatti i criteri per nessuno
specifico disturbo di personalità, o se l’individuo viene considerato affetto da un disturbo di personalità non
incluso nella classificazione, si può utilizzare la diagnosi di disturbo di personalità non altrimenti specificato
(NAS).
Di fronte a queste categorie è innegabile che un sistema dimensionale per la diagnosi dei disturbi di
personalità presenterebbe non pochi vantaggi. Per esempio, consentirebbe la risoluzione dei cosiddetti
“dilemmi di classificazione”: infatti, consente un miglior inquadramento dei soggetti che presentano un
numero di criteri appena inferiore alla soglia diagnostica richiesta. Un soggetto con quattro criteri per il
disturbo borderline di personalità potrebbe essere definito “ senza alcun disturbo di personalità “ secondo un
modello categoriale, mentre un modello dimensionale consentirebbe di rilevare comunque la notevole
elevazione dei punteggi relativamente a questo disturbo. Da questo deriva un secondo vantaggio del modello
dimensionale, ossia la maggior esaustività dell’informazione e la conseguente riduzione del rischio di creare
stereotipi diagnostici. Infine, i modelli dimensionali sono più flessibili: si può sempre convertirli a categorie
attraverso l’introduzione di punteggi soglia, mentre la conversione di categorie in dimensioni non è possibile.
Si deve, tuttavia, sottolineare come la querelle relativa ai modelli categoriali e ai modelli dimensionali non
riguardi solo la descrizione della personalità patologica, ma anche la misurazione delle caratteristiche di
personalità normali. Per esempio, la conversione di dimensioni in categorie attraverso l’utilizzo dei punteggi
di soglia è stata ampiamente criticata poiché la daterminazione di tipi personologici non può essere fatta
stabilendo arbitrariamente dei cut-off lungo una distribuzione di punteggi.
Una recente applicazione dell’analisi delle classi latenti ai criteri previsti dal DSM-IV per il disturbo
borderline di personalità in un campione di 564 soggetti psichiatrici selezionati per ammissioni consecutive
ha fornito una qualche indicazione di categorialità per questo disturbo di personalità, ma ha anche indicato
17
una chiara dimensionalità di alcuni suoi tratti, quali l’impulsività e il discontrollo della rabbia (Fossati et al,
1999). Quest’ultimo risultato pone in evidenza una questione interessante: la relazione tra aspetti di
personalità normalmente distribuiti e rilevabili in popolazione generale e i disturbi di personalità, ci
chiediamo se i disturbi di personalità non costituiscano varianti estreme di dimensioni non patologiche della
personalità. Anche se questi studi non hanno fornito dati definitivi sul numero e la tipologia delle dimensioni
sottostanti ai disturbi di personalità, hanno tuttavia mostrato un’insufficiente replicabilità della ripartizione in
tre gruppi dei disturbi di personalità proposta dal DSM-III ed edizioni successive.
In altre parole, il modello diagnostico dei disturbi di personalità utilizzato dal DSM-III/III-R/IV non consente
di descrivere, e ancor meno spiegare il dato empirico clinicamente evidente delle associazioni non casuali tra
i disturbi di personalità. Paradossalmente, le dimensioni latenti sottostanti alle covariazioni osservate tra i
disturbi di personalità risultano più comprensibili quando si ricorre alle tassonomie utilizzate per la
descrizione della personalità normale. Uno studio basato su una metodologia multi-metodo per la valutazione
dei disturbi di personalità che comprendeva due questionari e un’intervista semistrutturata, ha identificato
varie relazioni significative tra i disturbi di personalità previsti dal DSM-III-R e le dimensioni del modello
“Big Five”. Per esempio, il disturbo antisociale di personalità ha mostrato correlazioni negative significative
con gradevolezza e coscienziosità, il disturbo borderline di personalità è risultato significativamente e
positivamente correlato con nevroticismo e antagonismo, il disturbo evitante di personalità è parso
caratterizzato da bassi livelli di estroversione e alti livelli di nevroticismo, mentre il disturbo istrionico di
personalità ha presentato un’associazione significativa con livelli elevati di estroversione.
Alcuni aspetti della personalità non patologica sembrano dunque coinvolti nello sviluppo di alcuni specifici
disturbi di personalità. L’assetto temperamentale sembra svolgere un ruolo di rilievo nello spiegare sia le
similitudini, sia le differenze tra i disturbi di personalità.
18
Capitolo II
Definizione psicopatologica del concetto di impulsività a livello cognitivo e
temperamentale.
1-L’impulsività
Il termine "impulso" (dal latino "inpellere" con il significato di spingere in avanti) viene definito dal
vocabolario come spinta istintiva ed irriflessiva, spesso violenta, ad agire
8
; in psicologia si riferisce,
generalmente, ad un atto che sorge, senza motivazione razionale, da una carica affettiva molto intensa e che
si compie rapidamente, talvolta violentemente, presupponendo un offuscamento della coscienza o un
disturbo della volontà. Con Freud
9
si comincia a parlare di impulso in termini di pulsione, definita
dall’Autore come "un processo dinamico consistente in una spinta che fa tendere l’organismo verso una
meta". ( Freud 1905)
Necessariamente collegata all’impulso, quand’anche sostanzialmente diversa, è l’impulsività, definita
come la tendenza a comportarsi in modo precipitoso e violento; Murray
10
la descrive come una tendenza a
rispondere velocemente e senza adeguata riflessione, come una reazione immediata ad uno stimolo; in questa
definizione è implicito il concetto del rischiare, pur di ottenere il più velocemente possibile certe cose; nel
costruttivismo, l’impulsività si caratterizza come un’abbreviazione della fase di circospezione del ciclo C-P-
C (Circospezione-Prelazione-Controllo)
11
; nella psichiatria descrittiva l’impulsività viene considerata in
modo più ampio rispetto alle definizioni degli psicologi, e ciò comporta l’inclusione, tra i disturbi
dell’impulso, del suicidio e dell’automutilazione, e tra i comportamenti impulsivi del correre rischi e della
mancanza di controllo sugli affetti. In questo più ampio alone l’impulsività diventa sempre più espressione di
fenomeni eterogenei, tanto che Barratt (1997)
12
propone una sottotipizzazione del comportamento impulsivo,
presupponendo l’esistenza di una impulsività motoria, definita come la tendenza ad agire senza pensare, di
una impulsività cognitiva, intesa come la tendenza a prendere rapide decisioni e di una impulsività non
pianificata, che si delineerebbe come una modalità di comportamento caratterizzata da una scarsa
valutazione delle conseguenze.
Cosa si intende dunque per impulsività?
L’impulsività è una disposizione alla reazione rapida e non pianificata ad uno stimolo interno o esterno
con ridotte considerazione per le conseguenze.
I subfattori che concorrono all’induzione del comportamento impulsivo possono esprimersi con una
fenomenologia sia di tipo “comportamentale” che “cognitivo”.
Per impulsività comportamentale si intende un’azione sulla spinta del momento con inabilità a ritardare la
gratificazione o ad inibire un comportamento; mentre per impulsività cognitiva si fa riferimento ad una
rapida ma incompleta valutazione del contesto con deficit attenzionale e difficoltà a mentalizzare.( Schmidt
C.A. , 2003)
L’impulsività cognitiva correla con la compromissione delle funzioni esecutive necessarie ad
organizzare un comportamento appropriato al contesto e finalizzato.
8
Devoto G, Oli GC: Il Dizionario della lingua italiana. Firenze, Le Monnier 1999.
9
Freud S. Tre saggi sulla teoria sessuale (1905). Opere di Sigmund Freud. Torino: Boringhieri 1989 (tr. It).
10
Murray H. Exploration in personality. New York: Oxford University Press.
11
Bannister D, Fransella F. L’uomo ricercatore. Torino: Bollati Boringhieri 1972.
12
Barratt ES, Standford MS, Kent TA, Felthous A. Neuropsychological and cognitive psychophysiological substrates of impulsive aggression. Biol
Psychiatry 1997:1045-61
19
Una compromissione di tali funzioni (resistenza all’interferenza, analisi della complessità
relazionale, rappresentazione di sé, programmazione, elaborazione d’ipotesi alternative) faciliterà
l’emergenza di un comportamento stimolo guidato che trova la sua induzione nel mancato controllo
volizionale e cognitivo.
Le funzioni cognitive esecutive sono integrate nella regione mesiale e dorsolaterale del lobo prefrontale e
sono modulate dalle afferenze dopaminergiche mesocorticali.
Nell’impulsività comportamentale il comportamento impulsivo è sotteso ad una inadeguata ed
eccessiva spinta appetitiva ed emozionale ma la capacità cognitiva di elaborare il contesto risulta
adeguata. Oggi si considera l’impulsività comportamentale come sottesa da una compromissione
della corteccia orbito-frontale che modula il comportamento appetitivo ed emozionale. Le afferenze
serotoninergiche svolgono un ruolo importante nell’organizzazione di tale funzione.
L’attuale stato di confusione per ciò che concerne la ricerca psicopatologica
sull’impulsività potrebbe essere attribuito alla mancanza di una definizione precisa.
L’impulsività è stata variamente definita come una azione rapida senza un adeguato pensiero e la tendenza
all’azione con meno previdenza rispetto alla maggior parte degli individui con le stesse abilità e conoscenza.
Alcune definizioni di impulsività includono un certo numero di substrati. Eysenck & Eysenck, come
vedremo più avanti, collegano l’impulsività alla ricerca del rischio, alla mancanza di pianificazione e alla
presa di decisione più lenta.
Patton et al. distinguono l’impulsività in tre componenti:
- agire su due piedi (motor attivation);
- mancanza di concentrazione rispetto al compito (attention);
- mancanza di pianificazione (lack of planning).
Alcuni autori sostengono che l’impulsività e la compulsività sono poli opposti di uno stesso spettro; altri,
invece, sostengono che l’impulsività potrebbe essere misurata attraverso i compiti comportamentali osservati
in laboratorio.
L’obiettivo di questo nostro studio è innanzitutto proprio quello di fornire una definizione di impulsività che
possa essere usata per unire lo spazio vuoto esistente tra i lavori clinici e le ricerche e che possa consentirci
di discutere la relazione esistente tra l’impulsività e un’ampia gamma di disturbi psichiatrici.
Andremo ad indagare dunque quelli che sono i primi passi mossi sul terreno sconosciuto dell’impulsività
innanzitutto cercando di capire come questa dimensione è stata inserita nel concetto più generale di
personalità e poi andando a indagare le tanto comprovate basi biologiche della stessa per capirne l’origine.
Solo dopo questi chiarimenti necessari andremo a verificare nel prossimo capitolo come questa dimensione
tanto discussa quanto poco chiara costituisce un aspetto fondamentale di molti disturbi psichiatrici.
Nella letteratura psichiatrica, si trovano in grandi quantità modelli comportamentali dell'impulsività
sviluppati sulla base delle conclusioni ottenute dalle osservazioni dei compiti svolti in laboratorio e usati per
misurare la stessa.
Questi compiti si dividono in tre ampie categorie:
-il paradigma dell’estinzione/punizione, in cui l’impulsività è definita come la perseveranza a riproporre una
risposta che viene punita o non gratificata;
-il paradigma della scelta/ricompensa, in cui l’impulsività è definita come la preferenza per una
gratificazione immediata e inferiore rispetto a una ricompensa maggiore ma più tardiva;
-il paradigma della disinibizione/attenzione nella risposta, in cui l’impulsività è definita come risposte
fornite in modo prematuro o come la incapacità a trattenere la risposta.
Per incorporare questi modelli in una definizione unitaria di impulsività, la stessa dovrebbe includere i
seguenti elementi:
1-diminuita sensibilità rispetto alla percezione delle conseguenze negative del
comportamento;
2-reazioni rapide e non pianificate verso stimoli ancor prima che il processo di
informazione sia completato;
3-mancanza di considerazione rispetto alle conseguenze a lungo termine.
Socialmente l’impulsività è stata considerata un comportamento appreso, proveniente da un ambiente
familiare in cui il bambino impara a reagire immediatamente per ottenere ciò che desidera. In questa struttura
20
concettuale gli individui impulsivi non hanno la capacità di valutare le conseguenze delle azioni, né per sé né
per gli altri.
Così, una definizione che includa gli aspetti sociali dell’impulsività ha bisogno di inglobare il fatto che
l’impulsività spesso ha un impatto non solo sugli individui impulsivi ma anche sugli altri.
Misure dell’impulsività
Lo studio dell’impulsività trova la sua ragion d’essere a partire dalle misure che hanno consentito di
indagarne l’origine e i termini della sua stessa esistenza.
Per la misura dell’impulsività tre sono le principali classi di strumenti che sembrano in grado di misurarne gli
aspetti chiave:
-le misure self-report:
queste misure di cui un esempio sono la Barratt Impulsiveness Scale e l’Eysenck Impulsiveness
Questionnaire, hanno il vantaggio di permettere al ricercatore di raccogliere informazioni sulla varietà dei
tipi di azioni e se queste azioni costituiscono un modello comportamentale a lungo termine. Gli
inconvenienti invece, includono il bisogno di contare sulla veridicità e sincerità delle risposte dei soggetti
che compilano in questionario.
-studi di laboratorio:
i vantaggi degli studi di laboratorio sull’impulsività includono la loro adattabilità ad usi ripetuti, mentre lo
svantaggio di questo strumento di misura è che non misura pattern di comportamento a lungo termine.
-potenziali evocati:
l’attività elettrica del cervello viene registrata durante lo svolgimento dei compiti da parte dei soggetti, così è
possibile studiare in che termini la impulsività puù costituire una predisposizione.
L’interesse alla dimensione “impulsività” nasce, dunque, in concomitanza con la possibilità di poterla
misurare e indagare attraverso diversi strumenti e modelli.
Facendo un passo indietro analizziamo come nasce lo studio della impulsività intesa innanzitutto come
dimensione caratteristica della personalità.
Tra i primi ad interessarsene ritroviamo la figura di Eysenck.
L’impulsività è considerata in una prima fase da Eysenck come una delle due componenti più importanti
dell’Estroversione, insieme alla socievolezza ma, in un secondo momento, l’introduzione della dimensione
dello Psicoticismo modifica questa collocazione dell’impulsività nel modello di Eysenck:essa viene
considerata una subdimensione dello Psicoticismo
13
(e non più dell’estroversione).
Secondo Eysenck, le persone che ottengono alti punteggi in P. sono caratterizzate da notevole impulsività,
avventatezza e noncuranza delle regole, egocentrismo, aggressività, freddezza impersonale, mancanza di
empatia, assenza di vero interesse per gli altri e noncuranza del benessere e dei diritti delle altre persone.
Risultano anche originali e creativi. Dei tre superfattori, lo P. è stato quello più discusso e controverso
soprattutto dal momento in cui Eysenck (1967)
14
ha stabilito che tra i suoi fattori più pesanti si doveva
annoverare anche l’impulsività.
Nonostante la concezione che Eysenck ha sviluppato dell’impulsività sia particolarmente articolata, il
modello biologico-causale da lui proposto è semplice: gli impulsivi hanno livelli più bassi di arousal (bassa
attivazione del loop corteccia-formazione reticolare attivante) rispetto ai non impulsivi (Eysenck&Eysenck
1985)
15
.
Proprio per una maggiore chiarezza in questa direzione Eysenck ha costruito l’IVE-Qustionario Impulsività
in grado di fornire una misura dell’Impulsività, dell’Audacia e dell’Empatia. Questo strumento deve la sua
costruzione al fatto che questo tratto non era unitario e Eysenck ritenne utile formulare un questionario a
parte per misurare direttamente il fattore in questione. L’Audacia, considerata un aspetto dell’Impulsività
tendente all’Estroversione , viene misurata considerando un certo numero di item, così come accade per la
rilevazione dell’Empatia.
13
Eysenck S.B.G., Eysenck H.J., Barratt P. (1985). Arevised version of psychoticism scale. Personality and individual differences, 6,21-29.
14
Eysenck H.J. (1967). Biological bases of personality. Springfield: Thomas.
15
Eysenck H.J., Eysenck M.W. (1985). Personality and individual differences. London: Plenum Press.
21
Anche il modello psicobiologico di Zuckerman costituisce una delle più importanti risorse per
l’integrazione dei livelli d’analisi dello studio delle differenze di personalità. In un recente lavoro
16
illustra
compiutamente un modello alternativo di 5 fattori; il punto focale del modello è il fattore: “Ricerca
impulsiva di sensazioni” (ImpSS) e differisce notevolmente dal modello dei BIG 5. In questo modello
emerge l’analisi fattoriale di scale ampiamente usate dai teorici della psicobiologia del temperamento come
quelle dell’IMPULSIVITA’, la RICERCA DI SENSAZIONI (sensation seeking) (SS), l’ATTIVITA’,
l’EMOTIVITA’, la SOCIEVOLEZZA,l’AGGRESSIVITA’ ecc.. ed è composto da:
1-Socievolezza
2-Nevroticismo-ansietà
3-Ricerca impulsiva di sensazioni senza senso sociale (Imp-USS)
4-Aggressività-ostilità
5-Attività
del fattore Imp-USS in particolare fanno parte i seguenti tratti:
a) Ricerca di sensazioni
b) Impulsività
c) Autonomia (polo positivo)
d) Socializzazione
e) Carenza di strutture cognitive (e progettazione)
f) Inibizione dell’aggressione
g) Responsabilità (al polo negativo)
Uno dei migliori indicatori per il fattore Imp-USS è stata la scala P (psicoticismo) di Eysenck.
La scala SS (ricerca di sensazione) di Zuckerman e la P di Eysenck sono fortemente associate con
la devianza sociale che si esprime nel comportamento criminale o di violazione delle regole, uso
eccessivo di alcool e droghe , guida imprudente ad alta velocità.
Il tipo P-ImpUSS tende a praticare rapporti sessuali promiscui e casuali con molti partners
(Zuckerman,1993;Eysenck&Eysenck, 1985) e, da ricerche effettuate nei colleges americani correla con il più
alto rsichio di AIDS.
Le differenze di sesso e di età sono le variabili che influenzano di più il tipo Imp-USS. I valori tendono a
declinare con l’età, a partire dalla prima adolescenza, ed è da 4 a 7 volte più comune nell’uomo che nella
donna.
Il termine PSICOPATIA potrebbe essere il termine migliore per indicare certe personalità, soprattutto per la
dimensione ImpUSS, che segna il limite estremo della popolazione SS.
Sebbene, sostiene Zuckerman, gli psicopatici non siano meno intelligenti di altri criminali, sembra che
abbiano qualche problema ad imparare e a non ripetere i comportamenti erronei che li hanno in passato
condotti a punizioni e al carcere. Anche in carcere, in confronto ad altri, gli psicopatici passano più tempo in
isolamento punitivo per offese e infrazioni ripetute alle regole interne. Tale recidività è stata spiegata con il
loro bisogno di eccitamento (SS) e dalla loro impulsiva reattività davanti a prospettive di ricompensa, oltre
che ad una insensibilità manifesta a stimoli associati alla punizione.
Zuckerman attribuisce un ruolo rilevante agli studi sull’attività elettrica cerebrale, in modo particolare sui
Potenziali Evocati (EP). I EP rappresentano variazioni dell’attività elettrica cerebrale prodotta da uno stimolo
esterno. Il EP è costituito da un complesso di opnde la cui interpretazione non è sempre facile, poiché le sue
componenti (latenza, forma, ampiezza) sono differenti da una zona corticale all’altra, per esempio le
componenti di un EP visivo sono diverse da quelle di un EP uditivo.
In una ricerca con un gruppo di disinibiti e un gruppo di inibiti, sia in rapporto ad un aumento del livello di
intensità di luci o suoni, i disinibiti manifestavano la tendenza ad ampliare il EP in funzione dell’intensità
dello stimolo, mentre i secondi a ridurlo. Anche i livelli alti di impulsività correlano con gli aumentatori di
EP.
16
Zuckerman M. et al. (1993). A comparison of three structural models for personalità: The Big three, the Big Five, and the Alternative Five. Journal
of Personality and Social Psychology, 65, 757-768. In Rassegna di psicologia, n.3, vol. XIX, 2002 Franco Angeli. Articolo: Le basi psicobiologiche
dell’impulsività di Paolo Maria Russo.