5
Per “lavoro familiare”, pertanto, si intendeva quello prestato senza alcun vincolo
nascente da contratto e quindi senza doveri né diritti reciproci, sul solo fondamento
dell’interesse familiare considerato nella sua componente economica e svolto da
coloro che, a norma delle leggi vigenti, potevano ritenersi collaboratori familiari del
datore (coniuge, parenti o affini entro il terzo grado, conviventi a carico).
4
Appare chiaro come il lavoratore familiare venisse a trovarsi in una situazione di
sostanziale, grave ingiustizia. Ingiustizia che si verificava non solo e non tanto nel
rapporto diretto datore-lavoratore (dato che la gratuità del rapporto trovava ampia
giustificazione in considerazioni di ordine etico e sociale), quanto nei rapporti che
potevano intercorrere tra lo stesso lavoratore e altri soggetti; in primo luogo, i suoi
familiari.
Il familiare-lavoratore, infatti, prestando gratuitamente la propria opera, arricchisce di
fatto, dei risultati del suo lavoro, il familiare-datore (arricchimento, in particolare
costituito da beni); in occasione della morte di quest’ultimo, tuttavia, tutti i suoi
successori legittimi vengono a partecipare di questo arricchimento senza che il
familiare-lavoratore goda di alcuna preferenza.
Accadeva pertanto che il familiare-lavoratore si trovasse escluso da ogni
partecipazione a quelli che in definitiva erano anche i frutti del suo lavoro o, nella
migliore delle ipotesi, che egli dovesse permettere la partecipazione ai frutti, in
misura eguale alla sua da parte di chi nulla aveva fatto per il loro accumulo.
5
Questa situazione ingiusta ha determinato, pertanto, una serie di interventi volti a
migliorare il trattamento del familiare-lavoratore.
Interventi, innanzitutto, da parte dello stesso legislatore: era chiara volontà, infatti,
quella di sottoporre il lavoro prestato dai familiari alla medesima disciplina del lavoro
subordinato in generale.
La legge 20 maggio 1970, n.300, nota come Statuto dei lavoratori, ha finalmente
menzionato all’art. 34 i familiari-lavoratori: se ne deve dedurre la piena applicabilità
di tale legge ai lavoratori assunti alle dipendenze di un familiare.
4
BALESTRA, L’impresa familiare, Milano, 1996, pag.10.
5
COLUSSI, Impresa e famiglia, Padova, 1985, pag.8.
6
Ma la tappa più importante verso un riconoscimento giuridico del lavoro familiare è
stata l’introduzione di un vero e proprio contratto di lavoro subordinato fra coniugi e
fra soggetti legati da vincoli, anche strettissimi, di parentela.
Vanno ricordati a questo proposito, il d.p.r. 30 dicembre 1956, n.1668 che all’art.5,
ha ammesso l’assunzione, in qualità di apprendisti, dei figli del datore di lavoro;
nonché il d.p.r. 31 dicembre 1971, n.1403, che ha riconosciuto possibile un rapporto
di lavoro domestico anche tra soggetti legati da vincoli di parentela o affinità.
Si deve tuttavia evidenziare come il legislatore, più che intervenire direttamente nel
rapporto tra i familiari, si sia limitato a qualificare come lavoro subordinato
solamente una determinata fattispecie giuridica, al fine di far godere al familiare-
lavoratore il beneficio delle assicurazioni sociali.
Anche nella giurisprudenza del tempo è dato riscontrare spesso l’attribuzione della
qualifica di “lavoro subordinato ex contractu” a quello prestato nell’ambito di
un’impresa da un familiare dell’imprenditore.
6
Probabilmente, queste sentenze ravvisarono l’esistenza di un’incompatibilità per così
dire logica, tra la prestazione gratuita di un lavoro e l’attività d’impresa, attività che si
assume esercitata per uno scopo di lucro (requisito, quest’ultimo, essenziale per
l’esistenza stessa di un’impresa).
Bisogna però sottolineare come, alla base dell’evoluzione legislativa e
giurisprudenziale concernente il lavoro dei familiari, vi sia anche un dato sociologico.
Si può chiaramente constatare, infatti, come nel nostro paese i rapporti familiari si
siano progressivamente allentati in conseguenza dello sviluppo della “società
industriale”.
7
In tutte le realtà sociali che si basano su un’economia industrializzata la famiglia
patriarcale è sostituita da quella nucleare, i genitori perdono autorità nei confronti dei
figli e si assiste alla scomparsa della figura del capofamiglia.
6
V. Cass., 17 marzo 1971, n.751 in MGI., 1971; Cass., 3 marzo 1969, n.676, in GI, 1969; Cass., 28 settembre 1968,
n.2999, in MGI, 1968.
7
COLUSSI, op.cit. pag.15 ss.; BALESTRA, op.cit. pag.10 ss.
7
La riforma del diritto di famiglia del 1975, pertanto, non ha fatto altro che cercare di
adeguare il diritto alla mutata realtà, e l’art.230 bis, che proprio con tale riforma è
stato introdotto nel codice civile, rappresenta un aspetto di tale adeguamento.
Alla base dell’art.230 bis vi sono tutti quegli aspetti innovativi che hanno
profondamente modificato il regime del diritto di famiglia, quali, tra gli altri la
scomparsa della potestà maritale e l’introduzione della comunione dei beni come
regime legale dei rapporti patrimoniali fra coniugi.
8
2. Dall’azienda a conduzione familiare all’impresa familiare.
Una parte della dottrina ritiene che il momento iniziale dell’iter legislativo che ha
condotto all’introduzione dell’art.230 bis sia da individuarsi anteriormente alla
riforma del 1975.
Secondo questa tesi tale momento potrebbe ravvisarsi in una proposta di legge
presentata dall’On. Sereni il 24 ottobre 1964, il cui intento sarebbe stato quello di
“modificare l’attuale assetto giuridico della famiglia contadina, in modo che ciascun
componente sia posto in grado di partecipare, in situazioni di parità, alla soluzione di
tutti i problemi d’impresa, senza esclusione alcuna, e possa così svolgere in pienezza
il ruolo di lavoratore e di produttore”.
9
Anche se tale proposta di legge non ebbe alcun seguito, merita tuttavia di essere
ricordata in quanto è espressione di quella tendenza mirante ad eliminare la struttura
rigidamente gerarchica della famiglia vivente in ambiente agricolo.
A parte questo isolato precedente, non si può dubitare che la nascita dell’art.230 bis
debba collocarsi nell’ambito delle discussioni che hanno accompagnato l’emanazione
della riforma del diritto di famiglia.
Innanzitutto si deve ricordare il disegno di legge approvato dalla Camera dei Deputati
il 1° dicembre 1971; il suo art.55 prevedeva testualmente: “quando nelle aziende a
conduzione familiare prestano la loro attività altri componenti, costoro partecipano
8
RESCIGNO, Sull’impresa familiare e il lavoro nella famiglia, in Dir. fam. 1978, pag.936 ss.
9
GRAZIANI, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia: prime considerazioni, in NDA, 1975, pp.199 ss.
8
alla comunione in proporzione alla quantità e qualità del lavoro svolto. Il lavoro della
donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”.
Questa norma, che s’inseriva nell’ambito della disciplina della comunione dei beni
fra coniugi, dettava una prima tutela del lavoro familiare, anzi, costituiva un
presupposto dell’”azienda a conduzione familiare” (azienda, cioè, nella quale
prestavano la loro attività entrambi i coniugi e che proprio per questo fatto, entrava a
far parte dei beni in comunione).
Nonostante le critiche, il progetto di legge passò all’esame della Commissione
Giustizia del Senato, subendo però, modifiche rilevantissime.
Si deve invece all’iniziativa del senatore Luigi Carraro la separazione della disciplina
del lavoro dei familiari in genere da quella della comunione dei beni fra i coniugi.
Da un lato fu creata la fattispecie dell’azienda coniugale che, nell’ambito della
comunione legale dei beni, comprendeva la gestione da parte di un coniuge
dell’impresa dell’altro (attuale art.177 c.c. lett.d); dall’altro, venne elaborata la
fattispecie dell’azienda familiare, alla quale fu riservata un’apposita norma che
avrebbe dovuto essere inserita nel codice civile come art.2083 bis.
In questa fase, inoltre, venne approvato un mutamento terminologico di grande
importanza: dall’azienda familiare si passò all’impresa familiare.
L’elemento essenziale che si voleva disciplinare era la partecipazione dei familiari
all’attività imprenditoriale del datore.
La proposta del senatore Carraro passò all’esame della Commissione Giustizia in
sede referente, e poi dell’assemblea di Palazzo Madama, subendo diverse modifiche.
La disciplina del lavoro familiare, infine, veniva riportata nel Libro I del codice
civile, andando a costituire un’apposita sezione del capo VI (dedicato al “Regime
patrimoniale della famiglia”) titolo VI, come art.230 bis.
9
3. Origine e ratio della norma.
Nella genesi del nuovo istituto familiare, va riconosciuto un ruolo fondamentale alla
comunione tacita; è da essa, infatti, dall’inadeguatezza della sua disciplina, che
l’abrogato art.2140 c.c. affidava integralmente agli usi, che ha preso le mosse
l’attuale art.230 bis c.c.
L’esistenza di consuetudini che attribuivano ogni potere al capo-famiglia, oppure che
sancivano un trattamento deteriore della donna rispetto all’uomo, si era rilevata
inadatta ai tempi e aveva provocato gravi conseguenze sociali, tanto che i giovani
appartenenti a famiglie contadine, erano scoraggiati dal partecipare all’attività
economica del nucleo familiare. Tale situazione, unita ad un dato sociologico di
progressivo allentamento dei rapporti familiari, in sintonia con lo sviluppo della
“società industriale”, ha segnato la crisi dell’agricoltura italiana e del corrispondente
istituto, facendo emergere su più fronti la necessità di una disciplina del lavoro
familiare.
10
Quest’origine, per così dire “agraria”, dell’art.230 bis c.c., ha portato ad una
formulazione della disposizione che risente dei problemi e delle istanze di quel
mondo: l’introduzione, nel nostro ordinamento giuridico, dell’istituto dell’impresa
familiare ha significato, nell’ambito della grande stagione di progresso culturale e
sociale segnata dalla riforma, il riconoscimento del valore del lavoro reso dal
congiunto nell’ambito dell’impresa gestita con l’apporto dei familiari.
Alcuni giuristi, hanno ripercorso, sinteticamente, le impressioni che tale novità
legislativa ha suscitato nei vari commentatori, ed in particolare la ratio che n’è stata
individuata.
11
Secondo una prima ricostruzione, l’articolo rappresenterebbe “uno dei
più seri e risoluti tentativi di attuazione di un insieme di norme costituzionali,
risoltesi fino ad allora in sterili enunciazioni di principio”, in particolare degli artt.1 e
29 Cost. (che dichiarano la repubblica fondata sul lavoro e sulla famiglia, come
10
COLUSSI, Impresa familiare, in Dig. disc. priv., sez. comm., VII, Torino, 1992, pag.174.
11
M. FINOCCHIARO, Fondamento e natura (individuale o collettiva) dell’impresa familiare, in VN, 1977, II,
pag.875.
10
società naturale), dell’art.3, comma 2 (che consacra il principio di uguaglianza
sostanziale), dell’art.4, comma 1 (che riconosce ad ogni cittadino il diritto al lavoro),
degli artt.35, 36 e 37 (posti a tutela dei diritti fondamentali del lavoratore) e, infine,
dell’art.46 (che sancisce il diritto del lavoratore alla collaborazione nella gestione
dell’azienda).
12
In senso non difforme, altri giuristi considerano pilastri fondamentali della struttura
normativa il rispetto della persona umana, il principio di uguaglianza, la promozione
morale e sociale del lavoro, la salvaguardia dell’autonomia e dell’indipendenza
economica del familiare che presta un’attività di lavoro nella famiglia, nonché le
esigenze democratiche radicate nella coscienza dei cittadini per ogni settore della
vita, incluso quello familiare.
13
Secondo altri autori si è voluto sanare, ovvero
proteggere, situazioni ricorrenti di collaborazione ad un’attività imprenditoriale
individuale che ha titolo in un rapporto più o meno stretto di parentela o affinità con
l’imprenditore, per cui il fondamento risiederebbe nella tutela del lavoro.
14
Fra questi
vi è chi riconosce nella nuova disciplina la protezione non solo del lavoro familiare,
ma delle stesse imprese familiari, costituendo esse “un forte incentivo a ricercare sul
mercato del lavoro una più adeguata retribuzione, con l’effetto di favorire la
diffusione di tale tipo d’impresa”.
15
Proseguendo nell’analisi della dottrina, può evidenziarsi come alcuni autori pongano
l’accento sull’istanza sociale che si è voluto codificare come meritevole di tutela, e
che consiste nella necessità di “colmare una lacuna dell’ordinamento, definendo una
serie di situazioni di fatto che si erano già prodotte, e disciplinarle conformemente
alle regole che la prassi aveva già provveduto a darsi”.
16
Giungendo alle estreme conseguenze, parte della dottrina ritiene che, oltre alla
posizione del familiare nell’impresa, nell’art.230 bis c.c., sia stata prevista anche la
posizione generica del congiunto che presta la sua attività continuativa di lavoro nella
12
DELL’AMORE, La prestazione di lavoro nell’impresa familiare, in RDL, 1976, I, pag.15.
13
GRAZIANI, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1992, pag.83.
14
FLORIO, Famiglia e impresa familiare, Bologna, 1977, pag.50; COLUSSI, Impresa familiare, lavoro familiare e
capacità di lavoro, in GC, 1977, I, pag.702.
15
PANUCCIO, L’impresa familiare, Milano, 1977, pag.50-51.
16
COSTI, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976, pag.77.
11
famiglia e per la famiglia, indipendentemente da un’impresa o da un’azienda:
esempio classico sarebbe la prestazione di attività (normalmente domestica) da parte
di figli o parenti conviventi non partecipanti all’impresa, o perché quest’ultima non
esiste, o perché non vi collaborano.
17
Infine, si può sottolineare l’opinione di alcuni
autori che considerano la disciplina prevista dall’art.230 bis c.c., come posta a tutela
unicamente del familiare collaboratore, cioè “il contraente più debole”, e non
dell’imprenditore “egemone”, la cui protezione si risolverebbe in autotutela: solo in
questo modo, infatti, si evidenzierebbero e valorizzerebbero nell’ambito del gruppo
familiare gli elementi solidaristici, e si minimizzerebbero, viceversa i fini
speculativi.
18
Volendo ricondurre ad unum la rassegna di cui sopra, l’istanza sociale che si è voluta
codificare come meritevole di tutela, è stata quella di disciplinare in diritto le
comunità di lavoro familiare, traducendo in termini giuridici quelle posizioni che
nella realtà economica spettano a coloro che nell’impresa collaborano in posizione di
dipendenza rispetto ad un imprenditore, contribuendo col proprio lavoro allo sviluppo
in assenza di un titolo che qualifichi giuridicamente questo loro comportamento
produttivo. Il legislatore ha quindi codificato quel diritto giurisprudenziale che aveva
esteso la disciplina della comunione tacita familiare ad ipotesi nuove e non previste
dal codice del 1942 e, su questa via, anziché recepire le affermazioni dei giudici, ha
introdotto nuove norme che non possono non essere in armonia con gli altri principi
affermati della riforma del diritto di famiglia fra cui, in particolare, la parità di diritti
di tutti i membri, con ripudio di ogni visione gerarchica della famiglia, e la
valorizzazione del lavoro in contrapposizione al capitale.
19
Questo intervento di protezione speciale è stato giustificato dalla presenza di un tipo
di vincolo familiare, quale quello previsto dall’art.230 bis, comma 3° c.c.,
20
e questa
esigenza di tutela della “comunità paritaria di lavoro”
21
si connota quindi, oltre che
17
TAMBURRINO, Il lavoro nella famiglia, nell’azienda e nell’impresa familiare a seguito della riforma, in MGL,
1976, I, 2, pag.138-144.
18
ANDRINI, Brevi note sulla soggettività giuridica nell’impresa familiare, in GC, 1977, I, pag.132 e ss.
19
FINOCCHIARO, op. cit., pag.878.
20
COSTI, op.cit., pag.74-75.
21
BIANCA, Regime patrimoniale della famiglia e attività d’impresa, in DFP, 1976, pag.1240.
12
come motivo ispiratore, anche come principio interpretativo della nuova previsione
normativa, soprattutto di fronte ai problemi e alle lacune sorti nella ricostruzione
dell’istituto.
Indipendentemente dagli esiti raggiunti, non si può disconoscere la grande
importanza dell’art.230 bis c.c.: attraverso questa disposizione, infatti, il lavoro
familiare è entrato nel campo del diritto del lavoro, assumendo una precisa
connotazione di onerosità; in tal modo, la legge è penetrata all’interno della famiglia
che lavora individuando diritti e doveri là dove, in precedenza, vigeva la regola della
gratuità affettiva, sostituita così dalla solidarietà familiare connessa al principio di
uguaglianza.
22
22
GHEZZI, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, in RDA, 1980, pag.1535 e ss.
13
Capitolo II
L’impresa familiare nell’art.230 bis.
1. L’art.230 bis c.c.: il carattere residuale e imperativo.
Prima di procedere all’analisi delle questioni più annose in materia di impresa
familiare che hanno impegnato gli studiosi del diritto di famiglia, è opportuno
procedere ad esaminare la sistematica e la formulazione letterale dell’art.230 bis c.c.
La struttura generale si articola in due parti: nella prima (comma 1, 2, 3), il legislatore
ha delineato la posizione del familiare partecipe nell’impresa, cosicché, dal punto di
vista della componente soggettiva, vengono identificati, per interazione, il singolo ed
il gruppo, la parte e l’insieme. Nella seconda parte (comma 4 e 5), invece, il
riformatore ha recuperato il concetto di impresa come organizzazione aziendale e ha
dettato i criteri per garantire l’unità dei beni e dei rapporti.
23
I primi due commi dell’articolo contengono la disciplina dei diritti spettanti ai
familiari che prestino, in modo continuativo, la propria attività di lavoro nella
famiglia o nell’impresa, nonché la disciplina della gestione della stessa. Oltre al
diritto al mantenimento, la cui misura deve essere proporzionata alla condizione
patrimoniale della famiglia, al lavoratore-familiare spetta un vero e proprio diritto di
partecipazione ai profitti dell’impresa. Tale diritto investe non solo gli utili, ma anche
i beni che vengono acquistati con quelli, e si estende agli stessi incrementi
dell’azienda, ivi incluso l’avviamento, che costituisce una qualità di quest’ultima;
24
la
misura del suddetto diritto di partecipazione, infine, varia in proporzione alla qualità
e quantità del lavoro che ogni familiare presti nell’impresa.
In tema di gestione, la seconda parte del comma 1, con riguardo al potere di adozione
delle decisioni imprenditoriali vertenti su determinate materie, attribuisce la relativa
competenza al gruppo dei familiari, la cui volontà, in caso di disaccordo, deve essere
assunta a maggioranza dei voti. Oggetto tassativo di tali delibere sono l’impiego degli
23
GRAZIANI, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia: prime considerazioni, in RN, 1976, pag.61 e ss.
24
Cfr. art.2555 c.c.
14
utili e degli incrementi, la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi, nonché la
cessazione dell’impresa stessa. Quid iuris, se taluno dei congiunti partecipanti si
trovasse in stato di incapacità di agire? L’argomento è regolato dall’ultima parte del I
comma, la quale stabilisce che il diritto al voto spetta, in rappresentanza del familiare
incapace, a colui che esercita la potestà.
Sulla scorta dell’art.37 della Costituzione, il II comma dell’art.230 bis c.c. consacra
l’equivalenza del lavoro della donna a quello dell’uomo, intesa solo come parità delle
mansioni esplicate, poiché è sempre possibile, se non auspicabile, una
differenziazione quantitativa.
Nella seconda parte dell’art.230 bis c.c., il IV comma si occupa nuovamente del
diritto di partecipazione, non più sotto il profilo del contenuto, ma con riguardo alle
caratteristiche. Viene statuita, così, la sua intrasferibilità, cui può derogarsi solo in
presenza di due condizioni: la prima è prevista dal III comma e consiste nel fatto che
il diritto di partecipazione possa essere trasferito solo a favore di altri familiari; la
seconda condizione, invece, prevede che il trasferimento della partecipazione venga
deliberato all’unanimità dei collaboratori all’impresa. Per quanto concerne la
liquidazione del menzionato diritto, la seconda parte del IV comma ammette che
possa essere effettuata in denaro – il cui pagamento può dilazionarsi in più annualità
– nel caso di cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione di lavoro da parte del
familiare. Il V comma, di seguito, riconosce, qualora si proceda a divisione ereditaria
o sia deciso il trasferimento dell’azienda, il diritto di prelazione nella successione, ai
sensi dell’art.732 c.c.. L’ultimo comma, infine, sostituendo l’abrogato art.2140 c.c.,
ribadisce il principio della disciplina usuale riservata alle comunioni tacite familiari
nell’esercizio dell’agricoltura, limitandosi ad aggiungere, però, che le consuetudini
non devono contrastare con la normativa dettata per l’impresa familiare.
25
Il riformatore del 1975, pur introducendo un nuovo articolo ed una nuova figura
giuridica, non ha elaborato una sua definizione in positivo, tuttavia, nonostante questa
lacuna, alcuni autori tentato di ricostruire dalla lettera della norma la nozione di
25
PONTORIERI, Riforma del diritto di famiglia. Commento a tutti gli articoli raffrontati alla normativa e coordinati
con la legge sulla maggiore età e il divorzio, Napoli, 1976, pag.89.
15
impresa familiare. Parte della dottrina, infatti, parla dell’istituto in oggetto, come di
quell’attività economica alla quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo
grado e gli affini entro il secondo, soggetti ai quali, in virtù della prima parte del III
comma, compete la qualifica di “familiari”;
26
altri, nonostante la ridotta previsione
legislativa e le gravi lacune, ritengono che il concetto minimo e basilare, punto fermo
dal quale l’interprete non può prescindere, sia sufficientemente chiaro, e si baserebbe
sui seguenti punti fondamentali: l’autonomia dell’impresa familiare, intesa come
rapporto a sé stante che si differenzia da altri configurabili in materia di lavoro; la
delimitazione in senso soggettivo (familiari) e oggettivo (prestazione di lavoro
continuativa) del suo ambito di operatività; la determinazione del duplice diritto
spettante al collaboratore familiare, che comprende il suo mantenimento e la
partecipazione in senso più generale; la volontà legislativa di fare dei familiari, riuniti
in assemblea, gli unici protagonisti negli argomenti più importanti per la vita
dell’impresa; la previsione, infine, di cause autonome di cessazione della stessa,
distinte dalla perdita dello status familiae o dal trasferimento della singola quota di
partecipazione.
27
La legge non fornisce, espressamente, all’interprete una definizione dell’istituto, ma
si limita, a contrariis, ad escluderne l’esistenza allorché sia configurabile un diverso
rapporto giuridico. L’impresa familiare, dunque, si rivela essere una figura giuridica
residuale, poiché ricorre solo quando le parti non abbiano dato, espressamente o
tacitamente, una diversa configurazione tipica al loro rapporto (ad esempio, lavoro
subordinato, società, lavoro autonomo, ecc…). Qualche autore, addirittura, ha parlato
dell’art.230 bis c.c. come di uno strumento di copertura di “un’area differenziale di
tutela di fattispecie concrete non concettualizzabili”, in base a quanto dispone l’inciso
iniziale della stessa norma, che appunto afferma esistere un’impresa familiare “salvo
sia configurabile un diverso rapporto”.
28
26
PONTORIERI, op. cit., pag.90.
27
TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, Torino, 1978 pag.144.
28
ANDRINI, op. cit., pag.158.
16
A questo punto, la dottrina si è domandata se la disciplina prevista dall’art. 230 bis
c.c. potesse essere estesa a tutti i rapporti concernenti una collaborazione tra
congiunti, quindi non solo nell’ambito di un’impresa. Tuttavia, il carattere suppletivo
della nuova disposizione normativa, viene evidenziato, seppur implicitamente, in
tutta la riforma del diritto di famiglia operata con la legge n°151 del 1975. Infatti, ove
l’autonomia non si sia già fatta garante della posizione del contraente più debole, una
volta riconosciuta la natura privatistica dell’aggregato familiare, l’intervento
dell’ordinamento assolve una funzione equilibratrice dei rapporti inter partes. E
questo intervento, quindi, rappresenta una garanzia minima inderogabile.
29
In questi termini si pronuncia la Sezione Civile della Corte di Cassazione in
un’importante sentenza del 1981
30
che, riprendendo quasi testualmente, ma in modo
sintetico, una pronuncia del Tribunale di Milano del 1977,
31
riconosce “funzione
residuale o suppletiva” all’art.230 bis c.c., “diretto ad apprestare una tutela minima
ed inderogabile a quei rapporti che si svolgono negli aggregati familiari”, rapporti
definiti “associativi anziché di scambio”.
In altre occasioni, nel corso degli anni Ottanta, i giudici di merito hanno ribadito che
questo concetto di tutela sussidiaria ma inderogabile, previsto dall’art.230 bis c.c., si
applica a quei rapporti di lavoro ricondotti, in passato, ad una causa affectionis vel
benevolentiae o ad un contratto innominato di lavoro gratuito: la nuova norma,
pertanto, non sarebbe invocabile per quelle fattispecie che si estrinsecano in
un’attività economica produttiva, alla quale partecipano i componenti della famiglia,
qualora trovassero il loro fondamento in un diverso negozio giuridico,
32
sia di lavoro
subordinato,
33
sia societario.
34
Più specificamente, nel 1991,
35
si è chiarito che
l’esclusione della sussistenza dell’impresa familiare, presupponendo la prova positiva
29
GABRIELLI, La collaborazione familiare nell’esercizio delle attività professionali, in RDC, 1979, I, pag.585.
30
Cass. 8 aprile 1981, n.2012, in GC, 1982, II, pag.127.
31
Trib. Milano, 23 giugno 1977, in DFP, 1977, 1263.
32
Cass., 9 giugno 1983, n.3948, in GC,1983, I, 2625.
33
Trib. Roma, 5 febbraio 1990, in GI, 1990, I, 2, pag.691.
34
Cass., 26 giugno 1984, n.3722, in GC, 1984, I, 2746. Vedi anche Cass., 22 agosto 1991, n.9025, in VN, 1992,
pag.181.
35
Cass., 22 maggio 1991, n. 5741, in NGCC, 1992, I, pag.21. Vedi anche Cass., 18 ottobre 1976, n.3585, in GI, 1977, I,
1, 1949. Da ultimo vedi, Cass., 9 agosto 1997, n. 7438, in MFI, 1997. Nella giurisprudenza di merito vedi App. Milano,
24 marzo 1978, in FP, 1978, I, 32.
17
di un diverso rapporto che si pone come eccezione alla figura tipica, non può farsi
discendere unicamente dall’esistenza di una clausola contrattuale in contrasto con un
principio previsto nell’art.230 bis c.c. (nel caso concreto, la violazione del principio
maggioritario ex comma 1), derivando da tale circostanza solo la nullità della
clausola e l’automatica sostituzione di quella con la norma di legge; al contrario, la
disciplina dell’impresa familiare può essere invocata quando le parti abbiano tenuto
un comportamento esteriore tale da ingenerare nel terzo l’affidamento in ordine
all’esistenza di una società di fatto, attraverso la prestazione di finanziamenti o di una
fideiussione.
36
La dottrina, dal canto suo, si è dimostrata abbastanza uniforme nell’affermare il
carattere inderogabile della disciplina, sebbene siano emerse isolate opinioni
contrarie.
37
Infatti, alcuni autori, ricercando l’esatta individuazione del significato
normativo da attribuire all’inciso col quale si apre l’articolo, ritengono che la norma
in questione si limiterebbe a precisare che se non sono presenti i presupposti per
l’applicazione di una diversa disciplina, il lavoro familiare prestato in modo
continuativo nella famiglia o nell’azienda del congiunto imprenditore, deve essere
regolato dalle norme dettate per l’impresa familiare.
38
Altri autori si sono spinti oltre,
poiché, partendo dal presupposto che la normativa sull’impresa familiare attribuisce
una tutela più intensa rispetto a quella prevista per il lavoro subordinato, hanno
affermato che l’operatività dell’art.230 bis c.c. non può essere esclusa dalla presenza
di un qualsiasi rapporto tipico, fra cui, appunto, il contratto di lavoro subordinato.
39
Tali opinioni non sono condivise dalla dottrina prevalente, in quanto, altrimenti, si
finirebbe per attribuire alla norma una portata diversa ed ulteriore rispetto a quella
esplicitata dalla sua lettera, e si rischierebbe di compromettere gravemente
l’autonomia privata:
40
il carattere inderogabile dell’art.230 bis c.c. è previsto, infatti,
in funzione del massimo rispetto della libertà dei singoli, con la conseguenza che, ove
36
Trib. Torino, 25 marzo 1991, in Fallimento, 1991, 1993.
37
COLUSSI, Impresa familiare, op. ult. cit., pag.177; PANUCCIO, L’impresa familiare, cit., pag.201 ss.
38
COSTI, op. cit., pag.102 e ss.
39
LIMBERTINI, Sull’impresa familiare e sull’inderogabilità dell’art.230 bis c.c., in L’impresa nel nuovo diritto di
famiglia, a cura di A.Maisano, Napoli, 1977, pag.121-130.
40
DI FRANCIA, Il rapporto di impresa familiare, cit, pag.59.
18
le parti formalizzino il loro rapporto con il ricorso a schemi contrattuali, deve
escludersi la configurabilità dell’impresa familiare.
Viene spontaneo, a questo punto chiedersi quali siano questi “rapporti diversi” che
possono escludere l’esistenza del nuovo istituto, introdotto con la riforma del diritto
di famiglia.
Innanzitutto, non può configurarsi la fattispecie in esame in tutti quei rapporti il cui
oggetto è (o possa essere) una prestazione di lavoro subordinato.
41
Infatti, se le parti
stipulano un regolare contratto, si applicherà la specifica normativa prevista per il
lavoro subordinato e non l’art.230 bis c.c.. Siccome il puro e semplice fatto della
prestazione lavorativa non è elemento idoneo a discriminare fra impresa familiare e
lavoro subordinato, l’esistenza di quest’ultimo deve risultare in maniera esplicita, o
da un contratto stipulato expressis verbis, o da indizi che, al di là di ogni dubbio,
facciano ritenere che sia volontà delle parti applicare la normativa propria di quello
(inserimento del familiare nel libro-paga, versamento dei contributi previdenziali,
ecc…).
La prestazione d’opera del familiare, inoltre, può formare oggetto di un contratto di
società o di associazione in partecipazione, come può anche rientrare in una
fattispecie di lavoro autonomo, considerando che la collaborazione nell’impresa non
deve presentare necessariamente il carattere della subordinazione. In quest’ultima
ipotesi, però, occorre precisare che il rapporto deve avere il carattere della continuità.
Costituisce un “rapporto diverso” rispetto alla nuova fattispecie, anche la comunione
tacita familiare, la quale, in base all’ultimo comma dell’art.230 bis c.c., continua ad
esistere come istituto autonomo, non essendo assorbito dall’impresa familiare.
42
41
Cass., 13 dicembre 1986, n.7486, in RGC, 1986.
42
COLUSSI, op. cit., pag.178; TANZI, Nuovi e vecchi aspetti delle comunioni tacite familiari in agricoltura, in GI,
1981, I, pag.416. Di opinione contraria BIANCA, Diritto civile, op. cit., pag.114 e ss; COSTI, op. cit., pag.218 e ss.