V
L’art. 230-bis c.c. trova, in tal modo, il proprio fondamento
nell’apprestare una tutela minima ad un rapporto di lavoro che non
trova altra e diversa configurabilità.
Per tali ragioni, è stato ritenuto, anche dalla giurisprudenza
prevalente, che l’istituto in esame abbia natura residuale e sia, quindi,
inapplicabile quando i rapporti tra i componenti della famiglia trovino
la loro collocazione sistematica in un diverso specifico rapporto
negoziale, quale ad esempio il rapporto di lavoro subordinato, il
contratto di società o di associazione in partecipazione.
In particolare, la giurisprudenza ritiene ravvisabile l’istituto del
rapporto di lavoro subordinato solo se vi sia stata tra le parti
un’espressa pattuizione in tal senso, volta ad inquadrare in tale
rapporto l’attività del familiare. In mancanza di una pattuizione
specifica, si è nell’ambito dell’art. 230-bis c.c.
Per quanto riguarda il rapporto societario, invece, l’eventuale
sussistenza di un patto societario va accertato con riferimento ai
rapporti interni, da cui si possano desumere gli elementi costitutivi
della società stessa (affectio societatis, conferimenti, ripartizioni di
utili e perdite).
Ancora sulla natura giuridica dell’impresa familiare ex art. 230-bis
c.c., la giurisprudenza è divisa sulla configurabilità della stessa quale
impresa individuale o collettiva.
La tesi prevalente accoglie la natura individuale per un duplice ordine
di ragioni.
Anzitutto, è elemento indicativo la circostanza che l’istituto di cui
all’art. 230-bis c.c. sia stato collocato nel libro delle persone e della
VI
famiglia anziché in quello del lavoro e della società, intendendo così
chiaramente escludere la creazione di una nuova forma di esercizio
collettivo dell’impresa.
In secondo luogo, la configurabilità dell’impresa familiare in termini
di impresa individuale ha, quale legale conseguenza, che è
imprenditore il solo familiare titolare dell’impresa, escludendo ogni
forma di partecipazione alla gestione ordinaria della stessa da parte
dei familiari; ciò che avviene, di contro, nell’istituto affine
dell’azienda coniugale.
Presupposto di quest’ultima è, infatti, una necessaria cogestione
dell’impresa stessa da parte di entrambi i coniugi, con conseguente
assunzione di solidale responsabilità da parte di entrambi dei rischi
dell’impresa.
Estendere la responsabilità delle obbligazioni aziendali al coniuge
svuoterebbe di significato la ratio giuridica dell’art. 230-bis c.c. la
norma nasce, infatti, quale intento protettivo del legislatore nei
confronti del coniuge, parenti o affini, che collaborano con
l’imprenditore.
Il primo elemento che conferma la ratio protettiva è il diritto al
mantenimento in capo al familiare.
Il diritto al mantenimento è riconosciuto indipendentemente dalla
qualità e quantità del lavoro prestato e dall’effettivo andamento
dell’impresa.
Ciò significa che la collaborazione del familiare all’impresa dà diritto
al mantenimento quantunque l’impresa non desse profitti o fosse in
perdita.
VII
Per collaborazione si intende un contributo continuativo, non
occasionale, pur potendo l’attività essere espletata anche part-time o
comunque non costituire l’unica attività del soggetto.
Essa può essere di qualunque tipo, intellettuale o manuale, esecutiva o
direttiva e può essere prestata sia nell’ambito dell’impresa che della
famiglia. In quest’ultimo caso, tuttavia, deve essere funzionale
all’attività dell’impresa, nel senso che possa consentire
all’imprenditore di dedicarsi in toto all’esercizio dell’impresa.
Ciò costituisce espressione di un revirement giurisprudenziale della
Cassazione che ha concepito il concetto di collaborazione
comprensivo anche del lavoro domestico purché funzionale ed
essenziale all’attività produttiva.
Pertanto, l’orientamento giurisprudenziale più recente ha attribuito
rilievo anche al lavoro svolto dal coniuge casalingo esclusivamente
nell’attività domestica facilitando l’altro coniuge nella gestione
aziendale in un’ottica di divisione strumentale dei compiti. In tal
senso, la prestazione lavorativa del coniuge, in qualunque modo
esercitata, rientra nella fattispecie di lavoro tutelata dalla norma in
esame. Ciò implica un duplice ordine di conseguenze: in primo luogo,
la collaborazione del coniuge o familiare, qualora possieda i requisiti
della continuità, coordinazione ed esplicazione prevalentemente
personale, determina un rapporto associativo preordinato alla tutela
del lavoro del familiare e va inquadrata nelle ipotesi previste dall’art.
409 n. 3 c.p.c. in tema di rapporto di collaborazione con carattere di
parasubordinazione, trovando la propria fonte in un rapporto
contrattuale da cui scaturiscono precisi diritti ed obblighi tra le parti.
VIII
Secondariamente, per la giurisprudenza costante, si esclude che l’art.
230-bis c.c. preveda una presunzione di gratuità delle prestazioni
lavorative, poiché quest’ultima richiede la prova della c.d. “causa
affectionis benevolentiae”, che ex art 143 c.c. impone a ciascun
coniuge l’obbligo di contribuire, in relazione alle proprie sostanze ed
alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, ai bisogni
della famiglia.
Il diritto al mantenimento è cumulabile con il diritto di partecipazione
agli utili dell’impresa, commisurato alla quantità e qualità del lavoro
prestato.
Dibattuta in giurisprudenza è stata la questione della rilevanza del
momento in cui hanno cessazione tali diritti.
Premettendo che tra le cause di cessazione del rapporto, occorre
distinguere lo scioglimento dell’impresa dallo scioglimento del
rapporto tra imprenditore e singolo partecipe, si rende opportuno,
esaminare le cause attinenti al secondo ordine di motivi.
A fronte di un orientamento giurisprudenziale più restrittivo che si è
espresso contrariamente alla prosecuzione del rapporto in caso di
estromissione o perdita della qualità di familiare in seguito a
separazione personale per il venir meno di quella comunione di tetto e
di mensa su cui si fondava l’impresa familiare, la giurisprudenza
maggioritaria tende ad escludere che la separazione personale dei
coniugi costituisca di per sé causa dello scioglimento dell’impresa
familiare, in primis perché con la separazione non cessa il rapporto di
coniugio (che si estingue con il divorzio) ed in secundis perché non
mette automaticamente fine al rapporto di impresa.
1
Capitolo I
Inquadramento dell’istituto
1.1 Origine storica, collocazione e contenuto dell’art. 230-bis.
L’art. 89 della legge 19 maggio 1975 n. 151 (recante la riforma del
diritto di famiglia) ha aggiunto un’ultima sezione (rubricata come “
Dell’impresa familiare”) al capo VI (“Del regime patrimoniale della
famiglia”) del titolo VI (Del matrimonio) del libro primo del codice
civile; sezione formata da un’unica disposizione – l’art. 230 bis
1
-
che ha introdotto l’istituto dell’impresa familiare al fine di offrire
una specifica tutela al lavoro familiare.
1
L’art. 230 bis c.c. prevede:
“Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo
la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha il diritto al mantenimento
secondo le condizioni patrimoniali della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed
ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi della azienda, anche in ordine
all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni
concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione
straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a
maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti
all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita
la potestà su di essi.
Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo.
Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti
entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il
coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.
Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento
avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi.
Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del
lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda. Il pagamento può avvenire in più
annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.
In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i partecipi di cui al primo comma
hanno diritto di prelazione sull’azienda. Si applica nei limiti in cui è compatibile la
disposizione dell’articolo 732.
Le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi che non
contrastino con le precedenti norme”.
2
La normativa della c.d. impresa familiare, pur se appare
correttamente inserita nell’ambito dei rapporti di famiglia, risulta
estranea al corpo normativo in cui è specificamente collocata, non
avendo come suo presupposto indispensabile il vincolo coniugale,
ma più genericamente la prestazione di lavoro nella famiglia o
nell’organizzazione imprenditoriale di un familiare.
L’imprecisa collocazione - nel Codice - dell’istituto dell’impresa
familiare è da ricondurre solo alla fretta impressa dal Parlamento
all’iter legislativo della riforma del diritto di famiglia.
L’istituto è nato come proposta isolata di un senatore, Luigi
Carraro, al termine del lunghissimo cammino parlamentare che ha
portato al varo della legge n. 151 del 19 maggio 1975.
Nel corso della quinta e della sesta legislatura furono presentate
numerose proposte di legge aventi ad oggetto la riforma del diritto
di famiglia
2
.
La commissione giustizia della Camera, in data 18 ottobre 1972,
approvò le proposte presentate durante la sesta legislatura in un
testo unificato, e quindi lo trasmise al Senato per il completamento
dell’iter legislativo.
Nel progetto unificato, in realtà, vi erano già le tracce dell’istituto
che avrebbe visto la luce con l’emendamento proposto qualche
anno più tardi dal senatore Carraro
3
.
2
Esse avevano un significativo precedente nel disegno di legge presentato alla Camera dei
deputati, in data 9 gennaio 1967, dall’allora ministro di grazia e giustizia Oronzo Reale.
3
GRAZIANI, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia: prime considerazioni, in Riv.
dir. agr. 1975, p. 199 ss. L’autore ricorda come già nel 1964, a cura di Emilio Sereni, era stata
presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge in materia di famiglia coltivatrice
diretta, contenente alcune enunciazioni fondamentali che avrebbero trovato successiva
consacrazione con l’introduzione dell’art. 230 bis.
3
L’art. 55 di tale progetto, nel sostituire l’art. 177 del Codice civile,
comprendeva, nell’oggetto della comunione, espressamente
inserendole alla lett. d)dell’art. 177 le aziende a conduzione
familiare nelle quali prestano la loro attività entrambi i coniugi;
inoltre il secondo comma dello stesso articolo aggiungeva che
quando nelle aziende a conduzione familiare prestano la loro
attività altri componenti della famiglia, costoro partecipano alla
comunione in proporzione alla quantità e qualità del lavoro svolto,
concludendo che il lavoro della donna è considerato equivalente a
quello dell’uomo.
Tuttavia l’ambiguità della nuova figura normativa fu sottoposta a
forti critiche
4
, sicché, successivamente, l’originaria formulazione
fu modificata, separando la disciplina della comunione legale (art.
52) da quella del lavoro dei familiari, con la creazione da un lato
dell’impresa coniugale (art. 177, lett. d), c. c.) e dall’altro
dell’impresa familiare, che sarebbe dovuta essere inserita nel
Codice civile al nuovo art. 2083 bis, subito dopo la definizione
della piccola impresa, offerta dall’art. 2083 c. c., da cui
4
In argomento v. GRAZIANI, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia: prime
considerazioni, in Riv. dir. agr. 1975, COLUSSI, Impresa familiare, in Nuoviss. Dig. It. –
Appendice-, IV, Torino, 1980, 52 ss.; NUZZO, L’impresa familiare, in Il diritto di famiglia,
Trattato diretto da BONILINI e CATTANEO: II) Il regime patrimoniale della famiglia,Torino, 442
ss.; BALESTRA, L’impresa familiare, Milano 1996, 7 ss.; OPPO, il regime patrimoniale della
famiglia in La riforma del diritto di famiglia, Atti del II Convegno di Venezia, in Quaderni
della Riv. dir. civ , Padova 1992, 84 ss., sulla insufficienza della disciplina.; In senso diverso
GALASSO, Profili dell’impresa familiare, Milano, 1976, 169, per il quale il termine originario
di “aziende a conduzione familiare” , pur se impreciso dal punto di vista tecnico, prendeva
chiaramente in considerazione una precisa entità economico sociale, quale la piccola impresa;
la formula “impresa familiare”, al contrario, nasconderebbe una certa genericità. Pur senza
nascondere le diverse lacune della disciplina, occorre tuttavia osservare come una siffatta
genericità derivi principalmente dall’abitudine dell’interprete del periodo immediatamente
successivo l’introduzione della norma di cercare una collocazione del nuovo istituto all’interno
di schemi precostituiti: il che non è possibile.
4
l’abbandono della precedente formulazione dell’azienda familiare e
la sua sostituzione con quella di impresa familiare
5
.
La proposta del senatore Carraro fu, però, emendata nel corso dei
successivi lavori della Commissione e la materia regolata
dall’impresa familiare tornò a far parte del I Libro del Codice
civile,collocata nel Titolo VI, Capo VI, ove, nell’ambito del regime
patrimoniale della famiglia, si inseriva naturalmente, nella Sezione
VI, appositamente creata, stante la chiara affermazione della natura
reale, dunque non meramente interna, del diritto di partecipazione
dei familiari ai beni della famiglia e dell’azienda.
Il testo dell’art. 230-bis c.c. fu ulteriormente modificato
dall’Assemblea del Senato e passò, quindi, nel testo definitivo (art.
89) approvato nella seduta del 26 febbraio 1975, poi confermato
integralmente dalla Camera dei Deputati nella seduta del 22 aprile
1975, ma in esso si è perso il precedente riferimento alla natura
reale del diritto di partecipazione dei collaboratori familiari sui beni
della famiglia e dell’azienda familiare che, come tale, ne
giustificava l’originario inserimento nell’ambito del regime
patrimoniale della famiglia, sicché, attualmente, il lavoro familiare
costituisce la fonte di una peculiare e complessa situazione di natura
creditoria, a favore del familiare prestatore d’opera, che non ne
giustifica più la collocazione nel regime patrimoniale della
famiglia.
5
COLUSSI, Impresa familiare. cit., 53; DI FRANCIA, Il rapporto di impresa familiare ,Padova
1991, 43 ss.; BESSONE, ALPA, D’ANGELO, FERRANDO, SPALLAROSSA, La famiglia nel nuovo
diritto, 197, ai quali tutti si rinvia anche per un esame dello svolgimento dei lavori parlamentari
della riforma del diritto di famiglia in ordine all’istituto in oggetto.
5
1.2 La disciplina del lavoro familiare nel periodo antecedente la
riforma.
L’esigenza che ha spinto il legislatore della riforma ad adeguare la
struttura giuridica della famiglia alle profonde trasformazioni
sociali avvenute nel corso degli ultimi tempi e ad informarla ai
principi fondamentali espressi dalla nuova Costituzione
repubblicana, non poteva non comportare una chiara presa di
posizione in ordine al trattamento giuridico del lavoro prestato tra
congiunti nell’ambito della comunità familiare, in assenza del c.d.
animus contrahendi
6
.
Si affermava che in mancanza di una prova rigorosa dell’animus
contrahendi
7
, le prestazioni lavorative tra conviventi, appartenenti
alla stessa famiglia, fossero caratterizzate dalla presunzione iuris
tantum di gratuità in quanto rese, benevolentiae vel affectionis
causa, sul fondamento dell’interesse familiare considerato nella sua
6
Sul riconoscimento legislativo e giurisprudenziale, prima della riforma, e sulle istanze che
hanno costituito la base per l’evoluzione del trattamento giuridico dal lavoro familiare, v.
COLUSSI, Impresa familiare. cit., 49 ss.; COTTRAU, Lavoro familiare, in Nuoviss. Dig. It. –
Appendice – IV, Torino 1980, 734 ss.; DI FRANCIA, Il rapporto di impresa familiare. cit., 1 ss.;
BALESTRA, L’impresa familiare cit., 9 ss.
7
In realtà talora la legislazione precedente alla riforma prendeva in considerazione “l’impresa
familiare”, senza però dare una definizione. Cosi l’art. 11 legge 14 agosto 1971, n. 817 (recante
disposizioni per il rifinanziamento delle provvidenze per lo sviluppo della proprietà
coltivatrice), nell’introdurre il vincolo di indivisibilità per i fondi acquistati con le agevolazioni
creditizie concesse dallo Stato per la formazione o l’ampliamento della proprietà
coltivatrice,prevedeva la revoca di tale vincolo qualora, in caso di successione ereditaria, i
fondi medesimi fossero stati divisibili fra gli eredi, in quanto aventi caratteristiche idonee a
realizzare “imprese familiari”. Analogamente l’art. 2 legge / agosto 1973, n. 512 (contenente
norme per il finanziamento dell’attività agricola) già faceva riferimento alla valutazione delle
esigenze dell’”impresa familiare, singola o associata”. In generale v. – prima della riforma del
diritto di famiglia – GHEZZI, La prestazione di lavoro nella comunità familiare, Milano,1960.
6
globalità
8
.
Per lavoro familiare s’intendeva il lavoro fondato sul solo interesse
familiare considerato nel suo aspetto economico – privo pertanto di
fondamento contrattuale e , quindi, della conflittualità tipica del
rapporto di lavoro subordinato – prestato dal coniuge, dai parenti e
affini entro il terzo grado, dai conviventi e viventi a carico.
8
BARASSI, Il diritto del lavoro, I, Milano 1957. 450 ss.; LEGA, Questioni in tema di lavoro
familiare, in Diritto del lavoro 1957, II, 218 ss.; GHEZZI, La prestazione di lavoro nella
comunità familiare cit., 119; LUCIANI, Il lavoro familiare, in Riv. dir. lav. 1962, I, 109 ss.;
CORRADO, Trattato di diritto del lavoro, Torino 1966, II, 58 ss.; SANTORO – PASSARELLI,
Nozioni di diritto del lavoro, Napoli 1972, 96; SCOGNAMIGLIO, Diritto del lavoro, Bari 1972,
198; MAZZOCCA, Prestazioni lavorative “affectionis vel benevolentiae gratia” tra persone
conviventi “more uxorio”,in Giust. civ. 1977, 1191 ss.
La giurisprudenza, anche dopo la riforma, ritiene operante la presunzione di gratuità delle
prestazioni lavorative rese, prima della riforma, tra persone conviventi legate da vincoli di
coniugio, di parentela o di affinità o, anche dopo la riforma, tra persone conviventi, legate da
un legame di affettuosa ospitalità, o da un legame more uxorio, o conviventi in comunità
religiose, presunzione vincibile solo con la prova rigorosa a carico di chi l’assume
dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed oneroso. Cfr., Cass. 18 maggio 1971 n.
1475, in Giust. civ. mass. 1971, fasc. 5, 111; Giur. it. 1972, I,1,1116; Cass. 29 aprile 1974 n.
1452, in Giust. civ. mass. 1974, fasc. 4, 67; Riv. giur. lav. 1974, II, 57; Cass. 17 aprile 1975 n.
1452, in Giust. civ. mass. 1975, fasc. 5, 98; Arch. civ. 1975,1107; Cass. 18 ottobre 1975 n.
3585, in Giust. civ. mass. 1975, fasc. 10, 76; Nuovo dir. agr. 1977, 345; Cass. 24 marzo 1977
n. 1161, in Giust. civ. mass. 1977, fasc. 3, 89; Giust. civ. 1977, I, 1190; Cass. 16 giugno 1978
n. 3012, in Giust. civ. mass. 1978, fasc. 6, 543; Foro pad. 1979, I, 103; Cass. 3 ottobre 1979 n.
5049, in Giust. civ. mass. 1979, fasc. 10, 212; Cass. 11 aprile 1979 n. 2124, in Giust. civ. mass.
1979, fasc. 4, 115; Cass. 17 luglio 1979 n. 4221, in Giust. civ. mass. 1979, fasc. 7, 87; Foro it.
1979, I, 2315; Riv. giur. lav. 1979, II, 884; Giust. civ. 1980, I, 671; Dir. fam. pers. 1980, 70;
Cass. 19 marzo 1980 n. 1810, in Giust. civ. mass. 1980, fasc. 3, 65; Cass. 8 gennaio 1983 n.
141, in Giust. civ. mass. 1983, fasc. 1, 76; Giust. civ. 1983, I, 2673; Cass. 13 dicembre 1986 n.
7486, in Giust. civ. mass. 1986, fasc. 12, 546; Cass. 17 febbraio 1987 n. 2867, in Giust. civ.
mass. 1987, fasc. 2, 70; Cass. 10 agosto 1987 n. 6867, in Giust. civ. mass. 1987, fasc. 8, 345;
Cass. 17 febbraio 1988 n. 1701 cit. Contra, Cass. 1 marzo 1988 n. 2138, in Giust. civ. mass.
1988, fasc. 3, 215.
Nell’ipotesi, invece, di lavoro prestato tra familiari non conviventi sotto lo stesso tetto, ma
appartenenti a nuclei familiari distinti, la presunzione di gratuità cede il passo alla normale
presunzione di onerosità del rapporto di lavoro: cfr. Cass. 13 ottobre 1980 n. 54, in Giust.civ.
mass. 1980, fasc. 10, 432.
In particolare dall’esame delle numerose sentenze, si è individuato l’orientamento di fondo
della giurisprudenza, coniando la seguente massima: “ il lavoro tra persone legate da stretti
rapporti di parentela o di coniugio, conviventi, prestato nell’abitazione o nell’azienda del capo
famiglia, si presume normalmente gratuito; tale presunzione è iuris tantum e l’accertamento
giudiziale del rapporto subordinato deve essere eseguito caso per caso e sorretto da adeguata e
corretta motivazione”.
7
Questo collegamento del lavoro familiare con la realtà sociale della
famiglia e con i valori etici da essa espressi non è andata persa
nonostante la giuridizzazione di esso operata dal legislatore della
riforma.
Se, infatti, il mutamento del quadro giuridico-costituzionale e la
necessità per il legislatore di razionalizzare la struttura
organizzativa della famiglia ha determinato, tra l’altro, l’esigenza di
assicurare una tutela diretta al lavoro familiare, attraverso il
superamento della presunzione di gratuità, sta di fatto, però, che la
regola di diritto (art. 230 bis c.c. ), applicandosi salvo che non sia
configurabile un diverso rapporto, prende in considerazione la
prestazione lavorativa in assenza dell’animus contrahendi, così
come essa viene resa, nella sua effettività, affectionis vel
benevolentiae causa, apprestando una tutela, non solo residuale ma
anche sussidiaria a quella regola dei privati, che trova il suo sigillo
nei mores familiari, sicché solo quando viene violato
quell’impegno, assunto benevolentiae vel affectionis causa, scatta
la tutela e la sanzione giuridica statuale.
8
1.3 Comunione tacita familiare e impresa familiare: gli usi
compatibili.
La dottrina prevalente sostiene che l’istituto della comunione tacita
familiare abbia esercitato un’influenza rilevante nella genesi
dell’impresa familiare, e, in particolare, che l’esperienza maturata
nel diritto agrario, il quale per primo aveva visto l’incontro tra
impresa e famiglia, abbia giocato un ruolo di rilievo
nell’acquisizione del problema
9
.
La comunione tacita familiare, quale forma di consorzio familiare
limitato alle sole attività nel campo dell’agricoltura, era
contemplata dall’art. 2140 c. c., il quale, per la regolamentazione
dell’istituto, si limitava a rinviare agli usi
10
.
9
PATTI, La prestazione di lavoro nell’impresa familiare, in Dir. lav. 1977, 208-209; CARBONE,
Per un fondamento contrattuale dell’impresa familiare, in Rass. dir. civ. 1981, 1006;
VIGNOLI, voce Comunione tacita familiare, in Enc. Giur. Treccani, VII, Roma, 1988, 564. In
giurisprudenza v. Cass. 13 ottobre 1984, n. 5124 Giust. civ., 1985, I, 1, 372, con nota di
FINOCCHIARO, la quale ravvisa nella comunione tacita familiare un precedente storico; Cass. 27
giugno 1990, n. 6559, in Nuova Giur. civ. comm., 1991,I,67, con nota di LUCCHINI; in Giur.
ita., 1991, I, 1, 428, con nota di DI FRANCIA; in Rass. dir. civ., 1992, 398, con nota di
SALVESTRONI; da ultimo Cass., Sez. un., 4 gennaio 1995, n. 89, in Giur. it., 1995, I, 1, 369. Di
opinione contraria, ANDRINI, L’impresa familiare, in Azienda coniugale e impresa familiare, a
cura di VITTORIA e ANDRINI, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico
dell’economia diretto da GALGANO, Padova 1989, 66; LA ROSA , L’impresa familiare alla luce
del trattamento tributario: spunti per una ricostruzione, in Riv. dir. civ. 1986, 89, e in AA. VV.,
La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo. Bilanci e prospettive, Atti del Congresso di
Venezia 14-15 giugno 1985, dedicato alla memoria di CARRARO, Padova 1986, 98. Entrambe
le autrici sostengono che la comunione tacita familiare abbia esercitato un’influenza
trascurabile. La medesima opinione è espressa in giurisprudenza da Cass. 26 giugno 1984, n.
3722, in Gius. civ., 1984, I, 2746, con nota di FINOCCHIARO.
10
Di questa organizzazione spontanea, basata sull’affectio familiaris, la dottrina e la
giurisprudenza avevano man mano ricostruito i requisiti fondamentali, individuati
nell’appartenenza dei partecipanti ad una stessa famiglia; nella convivenza effettiva con
comunione di tetto e di mensa; nell’esistenza di un patrimonio comune, ossia di un nucleo
patrimoniale indiviso (sia originario che costituito successivamente per comune acquisto od
apporto dei singoli partecipanti); nell’esplicazione da parte di tutti i partecipanti di un’attività
lavorativa, a seconda delle capacità fisiche e tecniche di ognuno, correlata direttamente con i
beni usufruiti di comune; nell’esistenza di un capo (di norma coincidente col capofamiglia) che
coordina e dirige tutta l’organizzazione del gruppo; nell’assenza di obbligo di rendiconto ed in
9
La riforma del diritto di famiglia, nell’evidente intento di
adeguare la disciplina della comunione tacita familiare alla nuova
figura dell’impresa familiare, ha abrogato l’art. 2140 c. c.,
stabilendo all’art. 230-bis, ultimo comma, che “ le comunione tacite
familiari nell’esercizio dell’agricoltura
11
sono regolate dagli usi che
non contrastino con le precedenti disposizioni”.
Sicché in sostanza l’istituto, di origini antiche
12
, è stato confermato
sia nel suo riferimento al settore dell’agricoltura, sia nel rinvio alla
disciplina consuetudinaria; la novità è rappresentata
dall’introduzione di un preciso limite a quest’ultima, identificato
nella disciplina dell’impresa familiare, non essendo ammissibili usi
con essa contrastanti. In sostanza quindi – salva l’applicabilità, con
genere di formalità; nel diritto di ognuno dei partecipanti di trarre dall’attività economica
esplicata in comune il necessario per il proprio sostentamento; nell’assistenza prestata dal
gruppo a quelli dei suoi componenti che temporaneamente o definitivamente non siano in
grado di esplicare attività lavorativa; infine nella parità di trattamento dei vari partecipanti,
esplicatesi concretamente, appunto, nella comunione di tetto e di mensa, che fa si che il regime
di vita dei vari membri sia sostanzialmente uguale. Cass. 14 gennaio 1980, n. 337, in Giur.it.,
1981, I, 1, 405, con nota di TANZI, e in Gius. civ., 1980, I, 885. Sui requisiti della comunione
tacita familiare vi è concordanza di opinioni: Cass. 11 maggio 1987, n. 4324, in Foro it. , 1987,
I, 2376; Cass. 10 febbraio 1981, n. 835, in Mass. Giur. it. , 1981; Trib. Parma 4 febbraio 1981,
in Giur. it., 1981, I, 2, 497; Cass. 3 dicembre 1974, n. 3960, in Rep. giur. it. , voce Comunione
familiare, 1974; Cass. 22 luglio 1969, n. 2750, in Giur. agr. It.,1970, II, 612, con nota di
MORSILLO. Si veda la relazione contenuta da MAROI il 1 maggio 1924, riportata negli Scritti
Giuridici del 1956, 3 ss., ove l’autore individua i punti fondamentali di cui il legislatore
avrebbe dovuto tener conto nella regolamentazione dell’istituto con specifico riferimento ai
requisiti della comunione tacita familiare sulla scorta del codice attuale, v. GHEZZI, La
prestazione di lavoro nella comunità familiare cit., 76; FLORIO, Famiglia e impresa familiare,
Bologna 1977, 72; SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il regime patrimoniale della
famiglia , in Commentario del codice civile redatto a cura di magistrati e docenti, Torino,
1983,68; VIGNOLI, voce comunione tacita familiare cit., 94; CASCIOLI, Il lavoro dell’impresa
familiare , in Lavoro ’80, 1986, 1008-1009; TANZI, voce Impresa familiare: I) Diritto
commerciale in Enc. Giur. Treccani, XVI, 1989, 7 ss.; DI FRANCIA, Il rapporto di impresa
familiare cit, 67.
11
FRANCESCHELLI, Lavoro e comunione tacita familiare, in Dir. lav. 1989, I, 232; VIGNOLI,
Comunione tacita familiare cit. 111; FRANCESCHELLI, Comunione tacita familiare, in Digesto
civ. vol. III, Utet, Torino, 1988, 185; GRAZIANI, Comunione tacita familiare, in Novissimo Dig.
, Appendice II, Torino, 1980,191.
12
FLORE, Comunione tacita familiare, in Enc. Dir., VIII, Milano, 1961, 283.
10
tale limite, della regolamentazione consuetudinaria – alla
comunione tacita familiare è estesa la disciplina dell’impresa
familiare
13
. Pertanto non può dirsi che la comunione tacita familiare
sia stata soppiantata dall’impresa familiare
14
perché c’è comunque
un sicuro elemento differenziale (formale e non sostanziale)
rappresentato dalla disciplina dell’istituto che nel caso della
comunione tacita familiare è consuetudinaria ( con il limite del
divieto di contrasto con l’art. 230-bis c. c.), mentre nel caso
dell’impresa familiare è di fonte legale (art. 230-bis cit.) o negoziale
(nei limiti in cui la regolamentazione dettata dall’art. 230-bis c. c.
può essere integrata dall’autonomia privata o derogata in melius).
Nello sforzo di individuare il preciso legame che intercorre tra i due
istituti, una parte della dottrina ha cercato di metterne in luce gli
elementi di differenza. Si è osservato come le difficoltà di
interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 230-bis derivino
principalmente dalla diversa logica ad essi sottesa: nella comunione
tacita familiare prevarrebbe infatti la logica della proprietà,
nell’impresa familiare quella dell’impresa.
13
Però l’assoggettamento della comunione tacita familiare nell’esercizio dell’agricoltura alla
disciplina dell’impresa familiare ed agli usi con essa compatibili, non ha , in mancanza di
espressa previsione efficacia retroattiva, e non trova pertanto applicazione con riguardo ai
rapporti di collaborazione familiare nell’ambito dell’agricoltura svoltasi in epoca anteriore
all’entrata in vigore dell’art 2340-bis c. c., con la conseguenza che tali rapporti ricadono nella
disciplina dell’abrogato art 2140 c. c., il quale li sottoponeva integralmente alla
regolamentazione fissata degli usi locali (Cass. II, 21 ottobre 1992, n. 11500; cfr. Cass. III, 23
ottobre 1985, n. 5195).
14
Secondo BALESTRA, L’impresa familiare, cit., 45, la comunione tacita familiare è
riconducibile all’impresa familiare in rapporto di species ad genus. In giurisprudenza si è
affermato che la comunione tacita familiare costituisce una sottospecie dell’impresa familiare
(Trib. Parma 2 marzo 1981, in Giur. merito, 1981, 1192).