NOTA INTRODUTTIVA
Resta innegabile che il gioco è un fenomeno complesso: filosofi,
psicologi, sociologi, antropologi, letterati, economisti e, in misura
minore, storici e giuristi si sono dedicati al tema, dimostrando come lo
studio del gioco abiti su di un territorio metadisciplinare, facendolo
rientrare giustamente nella sfera dei temi di frontiera.
Ma è anche vero che questo fenomeno di vasta e plurisecolare
rilevanza meritava, soprattutto sotto l’aspetto storico
2
e giuridico, un
maggiore approfondimento; e appare certamente sorprendente il
disinteresse che lo ha circondato fino ad oggi.
L’auspicio è che si riesca a costruire, anche in modo istituzionale,
una nuova cultura ed una nuova attenzione verso il gioco, incentivando
tutte quelle iniziative che promuovano la conoscenza e dalla conoscenza
poter ricavare l’utile ultimo e più significativo: la capacità cioè di
governo consapevole e la sua connessa responsabilità.
2. Struttura
Questa tesi si propone, dunque, di presentare e sviluppare i temi
della convivenza e del reciproco rapporto utilitaristico instauratosi per
stratificazioni successive tra lo Stato e il fenomeno ludico, con
particolare riferimento alla disciplina tributaria. Con quali strumenti il
nostro legislatore è riuscito a “trasformare” le speranze collettive di
vincita insite nel gioco in lauti guadagni per il bilancio statale?
2
Gli studi dei giochi di alea e più in generale della cultura del rischio hanno trovato in Italia rara
accoglienza. Con la sola, rilevante eccezione di Gherardo Ortalli (docente di storia medievale
all’Università di lettere e filosofia di Venezia) e della collana di saggi, a cadenza annuale, “Ludica. Annali
di storia e civiltà del gioco” (Città di Castello, Fondazione Benetton - Viella), questi studi sono rimasti a
lungo lontani dalla professione dello storico e si sono affidati ai volontari della memoria, ai cronisti della
ruota della fortuna, che sono numerosi, ma che hanno debole sensibilità per i problemi della storia sociale.
Di fatto il paradigma cognitivo dei giochi di alea rimane fertile e meritorio terreno soprattutto della
sociologia, della antropologia, della psicologia sociale e delle ricerche dei tecnici delle lotterie.
Una svolta negli studi dei giochi pubblici si è tuttavia avuta in questi ultimi mesi con i libri di Giuseppe
Imbucci (Il gioco. Lotto, totocalcio, lotterie. Storia dei comportamenti sociali. Marsilio Editori, Venezia,
1999) e di Paolo Macry (Giocare la vita. Storia del lotto a Napoli tra Sette e Ottocento. Roma, 1997): due
opere utili per la conoscenza del fenomeno. Si tratta di studi che hanno come luogo della memoria la città
di Napoli, ma che consentono un’ampia proiezione sulle altre realtà italiane ed europee. Per di più una
felice e casuale ripartizione dei periodi studiati da ognuna delle due opere consente la conoscenza di quasi
tutta la storia del lotto dalle origini a oggi.
Al di là delle cifre, un po’ aride, da cui meglio può trarre
conseguenti osservazioni l’economista o lo studioso di scienza delle
finanze, noi ci occupiamo dei meccanismi legislativi che hanno
predisposto i criteri e le concrete modalità impositive prime responsabili
dell’ingente prelievo fiscale incamerato dallo Stato.
La tesi si articola in cinque capitoli (conclusioni escluse), che
tentano di fornire una, per quanto possibile, completa panoramica delle
ragioni storiche e giuridiche dell’attuale realtà dei giochi e delle
scommesse in Italia.
Il primo capitolo è storico e dà, per sommi capi, un quadro delle
motivazioni e delle vicende che hanno portato alla nascita del rapporto
Stato-gioco.
Il secondo capitolo, prendendo in considerazione gli articoli del
codice civile e del codice penale relativi al gioco, allarga subito la
prospettiva per consentire una chiara visione del trattamento normativo,
tappa indispensabile per comprendere la presenza del gioco d’azzardo
nel nostro Stato.
Il terzo ed il quarto sono i capitoli centrali. Essi si concentrano
sulla disciplina “generale” e “speciale” del trattamento tributario dei
premi e delle vincite. Dopo aver illustrato nel terzo come il legislatore
della riforma tributaria del 1971 ha inteso regolare la materia e come il
legislatore delegato abbia (invece) attuato i principi della legge-delega,
nel quarto si scende nel concreto della vicenda, andando a “scovare” i
materiali modelli di prelievo che riguardano le singole realtà ludiche,
alla luce soprattutto delle recenti novità normative.
Il quinto capitolo prova, infine, un’analisi del Trattato della C.E. e
delle sentenze delle Corte di Giustizia, in particolare concentrandosi
sull’(apparente) contrasto esistente tra il monopolio statale italiano sui
giochi e gli imperativi criteri di liberalizzazione posti a base dell’idea di
Comunità europea.
NOTA INTRODUTTIVA
3. Considerazioni generali sul consumo e le funzioni del gioco
Abbiamo denunciato come il fenomeno sia stato assai poco
indagato sotto il profilo scientifico, pur avendo gran rilevanza sotto
molteplici aspetti, tanto più che, sia pur lentamente, esso si va
estendendo.
Il gioco presenta vistose trasformazioni sotto i nostri stessi occhi
di osservatori e di partecipanti: la febbre del gioco con i suoi primati da
capogiro, che in misura crescente si rincorrono ogni settimana, rivela la
fibrillazione del corpo sociale e in ultima analisi il malessere e
l’insoddisfazione della persona.
Si è trasformato il gioco pubblico e con esso si è trasformato il
pubblico del gioco: nuovi giochi, nuovi giocatori e nuove tecnologie.
Il mercato del gioco resta identificabile, da un punto di vista
soggettivo, come quello che scivola dal giocatore occasionale a quello
abituale fino a quello patologico dove l’uomo è giocato dal suo stesso
gioco e il ludo diventa fonte di disordini individuali e di pericolosità
sociale.
Il consumo del gioco può essere condizionato invece da almeno
quattro fattori:
a) l’offerta di gioco,
b) la modalità dell’offerta,
c) la tipologia del gioco,
d) l’andamento stesso del gioco.
L’offerta non solo soddisfa il bisogno di gioco latente ma induce essa
stessa al gioco producendo nuova domanda. Naturalmente l’utilità
marginale derivante dall’introduzione di nuova offerta può risultare
decrescente perché il consumo sarà fortemente segnato dalle
compatibilità tra beni superflui e beni necessari ed in ultima analisi dal
senso di colpa, individuale e collettivo, che governa il consumo di gioco
compatibile
3
. In verità i dati statistici sembrano smentire qui le regole
dell’economia, riportando come si sia sempre avuta una crescita
esponenziale del consumo di gioco in funzione dell’offerta: in tempi
recenti l’introduzione della seconda giornata del lotto, ad esempio, ha
comportato un incremento del consumo di gioco di circa il 30%.
Per quanto riguarda la modalità dell’offerta, oggi l’uso dei media e
raffinate tecniche di pubblicità sono divenuti strumenti consueti ed
indispensabili nella formazione della domanda.
A proposito della tipologia del gioco, oltre alla grande tradizione
popolare nazionale legata al lotto ed alla passione sportiva come il
Totocalcio ed oltre ai “giochi di ambito” come l’ippica e “di recinto”
come i casinò, che costituiscono l’ossatura tradizionale del gioco
pubblico in Italia, hanno fatto irruzione sulla scena del mercato del
gioco, in tempi recenti, nuove offerte come la lotteria istantanea ed il
SuperEnalotto. L’una e l’altro hanno raccolto straordinari successi di
pubblico soddisfacendo esigenze diverse e finanche opposte ed attirando
comunque nel consumo di gioco utenze prima assenti o relegate nel
gioco clandestino.
L’andamento stesso del gioco condiziona il gioco. Un numero
ritardatario, una strepitosa vittoria, un incidente di percorso
condizionano fortemente, almeno nel breve periodo, l’andamento del
mercato
4
.
Dunque, il percorso del mercato del gioco è certamente segnato da
questi quattro elementi. Tuttavia è possibile constatare nei
comportamenti di gioco dall’Unità ad oggi significative evoluzioni che
3
Gli studi sulla teoria del consumatore ci insegnano che i giocatori che parteciperanno ad ulteriori giochi
immessi sul mercato saranno sempre di meno. Ciò in quanto ogni individuo parteciperà a quell’ulteriore
gioco solo fino a quando gli converrà, ossia, valutando i costi e i benefici marginali, solo fino a quando
l’utilità che perde avendo meno denaro sarà compensata dall’utilità che guadagna avendo più gioco. A
quel punto l’utilità marginale, data cioè da un ulteriore consumo di gioco, è decrescente in quanto il
giocatore preferirà astenersi da quell’ulteriore gioco, facendo prevalere il bisogno di beni necessari su
quelli superflui e soprattutto facendosi frenare dal senso di colpa che proverebbe se giocasse anche a quel
gioco.
4
La crescita vertiginosa della lotteria istantanea si è interrotta dopo l’incidente di Curno e così anche la
vendita della lotteria Italia ha subìto conseguenze negative a seguito di una non corretta procedura
estrattiva. Di converso la vincita record di Peschici ha indotto un giro crescente di gioco che si estende
NOTA INTRODUTTIVA
non trovano spiegazione in questi elementi perché o del tutto assenti o
costanti. Si deve perciò pensare che a parità di condizioni i
comportamenti di gioco sono segnati da scelte che rivelano le funzioni
stesse del gioco. In sintesi, è ricostruendo l’andamento del mercato che
possono dedursi le funzioni svolte dal gioco pubblico.
Una prima funzione è quella ludica. Essa comprende tutti quei
comportamenti connessi alla stessa natura gioiosa del gioco. Si è
constatato un uso ludico del gioco solo in momenti di diffuso benessere
economico. Nel periodo del miracolo economico, ad esempio, il senso di
colpa individuale e collettivo si è mobilitato ed ha allentato i suoi freni
inibitori consentendo un maggiore consumo di gioco.
Una seconda funzione è quella compensativa o esistenziale. Qui il
gioco rivela la sua natura biologica. Ed infatti aiuta a vivere proprio
perché compensa il malessere della vita: il consumo di gioco aumenta nei
periodi di crisi e diminuisce con il benessere economico. Il ricorso al
gioco come succedaneo di speranza, costituisce un espediente
compensativo, svolge una funzione vicaria, vero e proprio
ammortizzatore delle crisi sociali. Il senso di colpa che in tempi di crisi
esercita con maggior rigore la sua attività censoria, comprime tutte le
spese superflue in ragione della loro crescente utilità, ma può consentire
consumo di gioco perché ne riconosce inconsapevolmente l’utilità
esistenziale. Il gioco infatti è utile perché garantisce la prospettiva del
futuro.
La terza funzione è quella regressiva. Si scivola dalla funzione biologica
nella regressiva per eccesso di quantità; non è facile determinare i labili
confini tra l’una e l’altra, tuttavia occorre dire che in Italia dal 1992 in
poi c’è una crescita dei consumi ed un dilatarsi dell’offerta di gioco così
accelerata da indurre una forte attenzione al fenomeno. La febbre del
gioco non è al limite della tollerabilità ma reclama tuttavia una forte
vigilanza degli osservatori sociali e degli addetti ai lavori.
con gradata intensità in tutta l’area territoriale circostante, così come studi in corso d’opera ci stanno
dando prova.
CAPITOLO PRIMO
Profilo storico
Sommario:
1. Età classica; 2. Medioevo: Sezione A. Venezia; Sezione B. La
riscoperta medioevale del ludo; Sezione C. L'azzardo in Europa;
Sezione D. Napoli; Sezione E. Definitivo affermarsi del ruolo dello
Stato; 3. Settecento e Ottocento; 4. Le scommesse e lo sport in Italia; 5.
Considerazioni finali.
1. Età classica
Sempre più la nostra epoca assomiglia allo sviluppo della Roma
imperiale, fondata sull’esperienza del valore di scambio: analizzando i
due diversi periodi storici, non risulta azzardato enucleare la
correlazione che esisteva allora e che esiste anche oggi fra esasperazione
della produzione dei valori di scambio e moltiplicazione ed importanza
degli avvenimenti ludici.
Facciamo un breve riferimento storico, riportando un ampio brano
di L. Luschi
1
per svolgere alcune considerazioni semiologiche: “Cassio
Dione elogia l’accortezza dell’imperatore Traiano, saggiamente attento
‘ai divi della scena, del circo e dell’arena perché egli sapeva bene che la
bontà di un governo si rivela sia nella cura per i divertimenti che in
quella per gli affari seri e che, se le distribuzioni di grano e denaro
possono soddisfare gli individui, occorrono spettacoli e giochi per
accontentare il popolo’ >... ≅. Non si può negare quindi che gli imperatori
abbiano mirato costantemente a distogliere i romani dalle questioni
politiche e cercato di assicurarsi il loro favore con l’elargizione di
esorbitanti somme di denaro (liberalitatis) e con l’allestimento di
spettacoli. Senza alcun dubbio la libertas e i ludi divennero parte
integrante della strategia imperiale”.
1
L. Luschi, Potere pubblico: spese, spettacoli, feste e i loro luoghi, in S. Settis- a cura d i - , Civiltà dei
Romani, vol. II, Milano, Electa,1991, pp. 232-234.
CAPITOLO PRIMO
Che l’importanza del ludo avesse preso il sopravvento nelle
manifestazioni della vita romana, a scapito degli interessi culturali, lo
sottolineava con senso di disapprovazione Tacito: “ Mi sembra che ormai
i vizi propri e peculiari di questa città, cioè la passione per gli istrioni e
la mania per i gladiatori e i cavalli, si concepiscano quasi nel ventre
materno: e quando l’animo è così preso e posseduto, quanto spazio
rimane alle arti liberali? >... ≅
2
.
In seguito lo stesso discorso con maggior vigore critico e satirico,
nello stesso tempo, è affrontato da Giovenale: “ Più feroce della guerra,
il lusso è piombato su di noi a vendicare il mondo conquistato. Nessun
crimine manca, nessuna libidine, da quando la povertà romana è finita.
Sui nostri colli son venute a confluire Sibari, Rodi, Mileto, e sfacciata e
incoronata, Taranto, madida dei suoi vini. Il denaro ha introdotto presso
di noi i primi vizi osceni, i costumi stranieri; le molli ricchezze hanno
corrotto il nostro tempo col vergognoso lusso >... ≅. Già da un pezzo, da
quando non usiamo più vendere i voti, il popolo non si preoccupa più di
nulla; una volta distribuiva comandi, fasci e legioni, tutto. Ora se ne
infischia e due cose soltanto desidera ansiosamente: pane e giochi!”
3
.
Dai brani riportati, si scorge molta differenza, ad esempio, tra la
“valutazione” dei soggetti agonistici della Roma imperiale e la
“valutazione” di quelli contemporanei (compravendite di calciatori, di
ciclisti, di piloti di formula uno, di cavalli di razza)? Oggi come allora
il valore di scambio si esprime soprattutto nel denaro e nella sua velocità
di circolazione: è così che per valutare il fenomeno oggetto del nostro
studio, bisogna mettere a fuoco tutti i flussi di reddito che scaturiscono
dall’apertura di case da gioco, dall’accrescimento negli ultimi anni delle
lotterie nazionali, dal Totocalcio, dalla corsa dei cavalli e da ogni
scommessa (ma su tutto ciò, vedi capitolo quarto).
2
Tacito, Agricola, Germania, Dialogo sull’oratoria, Milano, Garzanti, 1991, pp.161,163.
3
Giovenale, Satire, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 127, 129, 199, 227.
PROFILO STORICO
2. Medioevo
Il gioco, come sostengono sociologi, psicologi e studiosi vari, è
connaturato nell’uomo e da esso, il ludo, è stato sempre esercitato. Il
diritto romano, difatti, lo prevedeva: il numero dei giorni dedicati
ufficialmente ai giochi pubblici (ludi pubblici), abbastanza contenuto
fino alla tarda repubblica, di 77 all’inizio dell’impero, era divenuto nel
IV secolo di ben 177, di cui 101 erano dedicati agli spettacoli teatrali, 66
ai giochi circensi, 10 ai combattimenti gladiatori. A partire dal I secolo
d.C., saranno direttamente distribuiti alla fine dei giochi premi in
denaro, sotto forma di borse colme di monete
4
.
4
Giochi pubblici o ludi erano nell’antichità gare sportive o teatrali celebrate in onore di divinità. In
Grecia i più importanti erano i g. Panellenici (cioè di tutti gli stati greci), in onore di Zeus ogni 4 anni ad
Olimpia, detti perciò olimpici; i g. Nemei, ogni 2 anni nella valle Nemea in onore di Eracle; i g. Pitici,
ogni 4 anni a Delfi, a ricordo della vittoria di Apollo sul serpente Pitone; i g. Istmici, a Corinto ogni 2
anni in onore di Poseidone. A Roma, principali erano i magni, poi detti “romani”, in onore di Giove
Capitolino, annuali dal 366 a.C.; i plebei, annuali dal 216 a.C.; i ceriali, in onore di Cerere, annuali dal
202 a.C.; i megalensi, in onore di Cibele dal 204 a.C.; i secolari, introdotti nel 249 a.C., dedicati agli dei
inferi per il rinnovarsi del secolo. I ludi (circensi, gladiatorii, scenici), finanziati dallo stato (a cura di
magistrati) o da privati, spesso intervallati da giorni di mercato e da banchetti, persero il significato
religioso e assunsero, durante l’impero, sempre più rilevanza politica come strumento di consenso
popolare.
In realtà, però, non dobbiamo incorrere nell’errore, in cui in passato sono cadute certe fonti giuridiche e
spesso la dottrina, di confondere i giochi a carattere agonistico o genericamente competitivo con le
scommesse e i giochi d’azzardo, in particolare per la diversa disciplina giuridica che a caratterizzato
queste due forme di gioco. E così non si sa se il gioco d’azzardo fosse punito presso i Greci, mentre varie
testimonianze ci dicono che nel diritto romano i giochi aleatori erano proibiti anche se erano congegnati
in modo che l’abilità del giocatore potesse influire in notevole misura sull’esito. Era fatta eccezione per le
previsioni relative all’esito di incontri agonistici - sportivi, fossero esse formulate da terzi estranei al
certame, o dai partecipanti (D. 11, 5, 2, I). Perché si avesse gioco d’azzardo erano necessari il fine di
lucro e l’aleatorietà preminente del risultato. Erano state emanate tre leggi al riguardo, la Cornelia, la
Tizia, e la Publicia (D. 11, 5, 3; vedi Marcianus, D.11, 5, 3, Libro quinto, regularum). Alla metà del II
secolo a.C. la prima di esse era già in vigore (ma il nome non è sicuro), dato che Plauto ricorda nel Miles
gloriosus (“Atque adeo ut ne legi fraudem faciant aleariae Adeuratote, ut sine talis domi agitent
convivium”: 2, 2, 5 = 164: così tradotto:"E, perché non infrangano la legge sul gioco d'azzardo,
sistemateli in modo che banchettino a casa senza astragali") una lex alearia, che qualcuno daterebbe
intorno al 204 a.C. Anche Orazio menziona il divieto (nel fare il ritratto delle attitudini del giovane
"bene" dell'epoca, così dice: “Seu malis vetita legibus alea” ovvero, lo definisce inetto ma capace di
giocare col cerchio greco o coi dadi dalle leggi vietati: Hor. Carmina, III, 24, 54) e così Ovidio (Ov.
Tristia, 2, 471 e 472, secondo il quale il gioco d'azzardo non sarebbe più stato, ai suoi tempi, quel "non
leve crimen" che le vecchie generazioni reputavano). Ma la più importante attestazione dell’esistenza
della lex alearia è un passo di Cicerone nelle Philippicae, II, 56, laddove parla di un certo Licinio
Denticolo “hominem omnium nequissimum lege quae est de alea condemnatum” il quale venne
reintegrato da Antonio dopo essere stato condannato "de alea", ossia per gioco d'azzardo (C. 3, 43, I).
Non se ne ha il testo, ma si può ritenere che essa colpisse i giocatori d’azzardo penalmente e civilmente.
Solo spingendoci alla fine del I secolo d.C., apprendiamo dall'opera di un altro poeta (gli Epigrammi di
Marziale) che alla repressione del gioco d'azzardo erano deputati gli edili curuli, ma che nel mese di
dicembre, sacro ai Saturnali, il gioco era libero.
CAPITOLO PRIMO
Passando dai letterati ai giuristi classici, nel libro XIX ("de aletoribus", dei giocatori d'azzardo) ad
edictum di Paolo (D. 11, 5, 2, I) si ricordava un (misterioso) senatoconsulto in cui si ribadiva il divieto di
giocare d’azzardo, ma si faceva una deroga a favore degli sportivi che avessero interessato il gioco
agonistico, al quale partecipavano, promettendo di penalizzarsi di una certa somma a favore del vincitore
(D. 11, 5, 2, I). Di data incerta sono le altre due leggi de aleatoribus, la Tizia e la Publicia: esse
autorizzavano le sponsiones, cioè le scommesse dei terzi estranei alla competizione (sportiva), sull’esito
della medesima. Quindi il diritto romano ben distingueva fra le due ipotesi (ovvero i fini agonistici dal
puro gioco d'azzardo).
In correlazione col divieto del gioco d'azzardo ("in pecuniam ludere"), il Pretore, nel suo Editto:
1. Non dava azione per i "negotia in alea gesta";
2. La dava per la ripetizione di perdite pagate;
3. Non la dava per violenze, danni e furti al biscazziere;
4. Procedeva penalmente contro chi avesse forzato altri al gioco.
A sua volta Giustiniano (C. 3, 43, I), ribadito il divieto generale per i giochi aleatori, faceva eccezione per
coloro che puntavano sul risultato dei famosi cinque giochi (monobolon, contomonobolon, kondacca,
perichyte e repon, praticati in genere dai militari di guarnigione nelle singole località dell’impero), ma
limitandone l’entità delle puntate a un soldo (solidum) per ogni scommettitore etiam si multus dives sit
(indipendentemente dalla ricchezza dello scommettitore). Giustiniano aveva fatto propri, nelle cinque
costituzioni in argomento (in realtà, le prime tre, dal 529 al 546, riguardavano gli ecclesiastici - a cui
veniva fatto divieto anche solo di assistere al gioco d'azzardo ed era data licenza ai vescovi di controllare
l'osservanza del rispetto di esso -; mentre le altre due, una senza data e l'altra del 529, sono quelle
precipuamente intitolate "de aleae lusu et aleatoribus"), i principi che forse erano già praticamente in uso,
negando la possibilità di adire il giudice per chiedere l’assolvimento di obbligazioni assunte per debiti di
gioco, ordinando la restituzione di ciò che, a ragion di gioco, fosse stato indebitamente percetto,
concedendo le debite azioni non solo a chi aveva indebitamente pagato, ma ai loro eredi o, se essi fossero
stati negligenti, ai loro ascendenti, o al defensor civis. Sospese addirittura la prescrizione cinquantennale e
investì i vescovi competenti per territorio di particolari funzioni inquisitorie. Per quanto riguarda i
(cinque) giochi espressamente consentiti e quindi leciti, va notata la (quasi) esatta corrispondenza tra essi
(C. 3, 43, 1, 4) e l'espressione usata in D. 11, 5, 2, 1 (Basilici) che parla di varie attività, ma in generale e
comunque di sports (attività compiute "virtutis causa": e così, la lotta, il pugilato (ma in Oriente sostituito
dalla corsa dei cavalli), la corsa (intesa come salto semplice con rincorsa), il salto (con l'asta) e il disco
(ma anche lancia o giavellotto, comunque sempre senza puntale di ferro) potevano essere oggetto di
scommessa o gioco d'azzardo, tutelati con azione.
Per quanto riguarda invece i giochi vietati, in particolare se ne enuclea uno, detto cavallo di legno (o equi
lignei o ippiche lignee o ippica di legno), consistente in una struttura di legno, innalzata con gradini di
legno aventi in mezzo molti fori. Coloro che, posto un pegno, gareggiavano in questo gioco, ponendo sui
gradini quattro palline di vari colori, le lasciavano andare giù e la prima delle palline che, passando per i
fori, usciva dall'ultimo di essi, assegnava la vittoria a colui a cui apparteneva quella pallina. Un rischio
simile a quello della roulette.
L’ambiente dei giocatori d’azzardo è descritto di scorcio, ma con vivacità, dalle fonti romanistiche, le
quali prevedono perfino che i collusores potessero rapinarsi fra loro. In tal caso soltanto veniva concessa
alle vittime l’azione (D. 11, 5, I, I). Il tenutario della bisca (susceptor), considerato come un ricettatore,
anche se fosse stato colpito non avrebbe avuto protezione dalla legge (Pauli sent. 5, 3, 4). Anche per i
partecipanti al gioco poteva essere negata l’azione in caso di furto, ma soltanto “in eum qui aleae
ludendae causa vim intulerit”. Le fonti giuridiche attestano che, in realtà, un mezzo efficace per vietare i
giochi, in particolare quelli che si svolgevano privatamente, non era stato trovato. E in modo implicito lo
ammette proprio il Digesto (D. 11, 5, 4) pur precisando la posizione preminente del pater familias sia nei
confronti dei filii familias, sia dei servi, fossero essi vinti o vincitori. Tuttavia i singoli magistrati
trovarono ugualmente il modo di punire i lusores e i loro collaboratori. Come si è visto, soltanto in caso
di gare in cui i competitori avessero versato poste in denaro, si faceva una deroga al principio generale
che nessuno potesse in pecuniam ludere. Una deroga, di natura sostanzialmente consuetudinaria, veniva
fatta da Roma anche in occasione dei Saturnalia in dicembre, durante i quali erano tollerate
manifestazioni vietate e punite durante l’anno.
Ma per i giochi d’azzardo, come anche per quelli a carattere sportivo, esisteva un ordinamento retto da un
codice d’onore, che si era venuto instaurandosi fra i giocatori fino dai tempi più antichi. Esso aveva come
presupposto una moralità particolare per cui anche i debiti di gioco, che la legge non riconosceva e per i
quali non dava alcuna azione a tutela del creditore, dovevano essere onorati. Si trattava di obbligazioni
PROFILO STORICO
Ma il passaggio dal mondo della classicità e della cultura tardo-
antica all’alto Medioevo porta con sé la perdita del ruolo del gioco: la
marginalizzazione dell’ambito della ludicità nei suoi differenti aspetti.
Ciò trova la sua spiegazione nell’evoluzione del giudizio
sull’otium che la tradizione greco-romana riconosceva come elemento
essenziale della vita ben reputata e condotta e che il Medioevo
provvedeva a trasformare nel padre di tutti i vizi. Sotto lo stimolo della
trionfante cultura cristiana e nelle difficoltà di un’epoca che diveniva
sempre più difficile, urgeva provvedere ad una poderosa risistemazione
etico-culturale complessiva, affrontando i problemi più “seri” (della
fede, della morale, della nuova prospettiva sociale...), piuttosto che
occuparsi dell’ozio, del tempo libero, della festa laica, del gioco: tutte
cose ritenute per loro intrinseco carattere “non serie” e quindi destinate
a restare in una sorta di limbo sfuocato e torbido.
Sezione A. Venezia
E’ così in questo clima che trova spiegazione l’iniziale avversione
del potere pubblico nei confronti dell’esplosione a Venezia della
passione per il lotto. Probabile data iniziale per le vicende della città
lagunare è il 18 febbraio 1522: a darcene per primo notizia è uno
storiografo del tempo, un certo Marin Sanudo
5
, che riconosce subito in
quel gioco il modo per “guadagnar con poco capitale”. Già il 28 dello
stesso mese il Consiglio dei Dieci vieta a chiunque di organizzare nuovi
lotti, a difesa dell’ordine e della moralità. Ma il 7 marzo ecco il governo
stesso bandire un grande lotto, mettendo in palio addirittura i gioielli
dati in pegno dal duca di Milano alla Signoria, per un valore di 32.000
naturali improprie, fondate soprattutto sull’impegno morale di pagare in caso di sconfitta, di rinunciare a
far valere la condictio indebiti in caso di pagamento (pur riconosciuta da Giustiniano e forse anche prima,
come si è visto), ammettendo a priori la legittimità della soluti retentio del vincitore soddisfatto. Chi non
onorava i propri debiti di gioco non poteva essere in qualche modo legalmente perseguito, ma accettava
quella squalifica morale che lo poneva al bando nella società dei giocatori d’azzardo. E’ da credersi che,
invece, i debiti contratti durante i Saturnalia fossero produttori di legittimi effetti giuridici.
5
Marin Sanudo, I Diarii, a cura di R. Fulin e altri, Venezia 1879-1903.XXXXII, coll.467, 500, 509;
XXXIII, coll. 19, 20.
CAPITOLO PRIMO
ducati, più tessuti e botteghe in Rialto per altri 25.000 e ancora 25.000
ducati in contanti.
Il divieto era stato, in sostanza, la premessa al monopolio: lo Stato
si era fatto maestro e unico titolare del gioco.
A Venezia non si ignorano i perché di questa scelta ed è sempre
Marin Sanudo a ricordarcelo: occorrevano quattrini alle casse dello
Stato, sotto pressione per le grandi spese imposte in particolare dalla
politica di terraferma così come dalla lotta contro il Turco.
Le ragioni finanziarie, del resto, saranno nel Settecento alla base
dell’introduzione anche nella vita lagunare del ‘lotto ad uso di Genova’,
ossia il lotto che ancora oggi viene giocato
6
.
In pochi mesi dunque lo stato veneziano aveva saputo porre sotto
controllo la passione per il gioco, trovando nel contempo la via giusta
per poterci lucrare
7
.
6
Il lotto è un gioco che si può dire mai sia uscito dal campo della disciplina affidata ai pubblici poteri,
come lo è attualmente, donde la denominazione di pubblico data a questa attività. La prima idea di lotto
risale alla fine del Cinquecento, quando, dovendosi sostituire due volte all’anno tre membri del Senato e
due del Consiglio dei Procuratori della Repubblica Genovese, scadenti dalla carica, secondo una legge
fatta approvare da Andrea Doria nel 1576, si mettevano in un’urna centoventi nomi di notabili, dei quali
cinque, estratti a sorte, dovevano ricoprire le cinque cariche suddette. S’incominciò con lo scommettere
sui cinque nomi da estrarre dall’urna, chiamata in genovese “seminario”, poi successivamente, quando i
nomi immessi nell’urna si ridussero a novanta contraddistinti da un numero, offrendo la possibilità di
varie combinazioni sulle quali andavano compiendosi degli studi, fra cui quelli del matematico Benedetto
Gentile, si può dire che il lotto cominciò la sua vera vita. Il gioco, dopo i primi accenni, divenne
istituzione statale, quando il Governo genovese, dopo aver decretato su di esso una tassa nel 1643, lo
considerò, l’anno dopo, oggetto di privativa, concedendolo in appalto.
Il lotto non tardò ad estendersi negli altri Stati italiani, sempre nella forma pubblica con finalità benefiche
e si diffuse anche all’estero, in quasi tutti i paesi europei, dove, però nell’800, perdette a poco a poco
d’interesse e fu sostituito dalle lotterie, con la denominazione di “lotto d’Olanda” (Cfr.F.A.Repaci, Teoria
e pratica del giuoco del Lotto in Italia negli ultimi tre quarti di secolo, p.3). Quest’ultimo pare che sia
nato in Inghilterra, dove i biglietti numerati singolarmente, venivano messi in vendita al prezzo di circa
10 scellini l’uno. Le matrici dei biglietti venduti venivano racchiuse in un’urna, così che alla fine, si
potesse procedere ad una regolare estrazione. Da una seconda urna e in un secondo tempo, venivano
sorteggiate le matrici corrispondenti ai premi in palio, perché ad ogni vincitore venisse associato un
preciso compenso.
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Per la prima diffusione delle lotterie in Venezia lo studio fondamentale è quello di A. Fior in , Nascita
e sviluppo delle lotterie a Venezia, in “Homo ludens”,VII-1997-pp.101-128.
PROFILO STORICO
Sezione B. La riscoperta medioevale del ludo
La piccola ma significativa vicenda veneziana ci prospetta alcuni
parametri e dei meccanismi ai quali siamo tuttora abituati nel rapporto
complesso, spesso incerto, fra gioco pubblico e strutture dello Stato, in
una continua oscillazione fra divieti, concessioni, gestioni in proprio, fra
istanze moralistiche, preoccupazioni per il bene pubblico, controllo
esercitato in vista di una ordinata gestione di un àmbito equivoco e
delicato qual è quello dell’azzardo e, infine, possibilità di lucrare in
termini che soltanto lo Stato può permettersi: senza rischi o gli scrupoli
che per il privato sono ritenuti indispensabili. Le fluttuazioni negli
atteggiamenti collettivi e nelle scelte dei pubblici poteri scontano
valutazioni etiche ed economiche, scivolano dal campo della morale a
quello del diritto, alla teologia, fino alla matematica e al calcolo
probabilistico, alla ricerca di un tollerabile rapporto fra rischio della
scommessa e possibilità di vincita.
In questa dialettica tra divieto e tolleranza del gioco, che vede
centrale l’intervento pubblico, si è già passati ad una nuova fase che ha
dovuto riconoscere alla sfera della ludicità un posto fra gli elementi che
di diritto e/o di fatto concorrono allo svolgersi del vivere sociale. Il
problema del grado di cointeressamento dello stato nella gestione del
gioco (ostile o favorevole non importa) diventa una questione di seconda
battuta
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La legislazione statutaria di parecchie città, pur essendo dichiaratamente contraria ai giochi d’azzardo, li
autorizzava durante le feste natalizie, e in certi casi anche durante quelle pasquali, o di calendimaggio, o
estive o patronali. E in tal maniera non faceva che legittimare una consuetudine che le leggi emanate per
impedire il gioco d’azzardo non erano riuscite ad estirpare. Proprio per quel rapporto logico che esisteva
fra ius commune e ius proprium (cioè la legislazione statutaria) vediamo come gli statuti seguano, nella
sostanza, le disposizioni del diritto giustinianeo (vedi nt.4). Non fa, per esempio, meraviglia sapere che il
2 aprile 1303 il Maggior Consiglio di Venezia avesse deliberato “rationem non dabo alicui personae de
ludo” e che analogamente avessero fatto altri Comuni, se si tiene presente che per ben due volte viene
usata formula analoga nel D. II, 5, I pr., e 3 “De aleatoribus”, sia pure con riferimento a casi particolari.
Così ha una sua logica il provvedimento contenuto in alcuni statuti che concedono azione fino al valore di
cinque lire imperiali per il gioco delle tavole, di regola vietato. Ma già il D. 44, 5, 2, I, ne aveva offerto lo
spunto. Infatti vi si dice: “Si in alea rem vendam, ut ludam, et evicta re conveniar, exceptione
summovebitur emptor”. Rogerio osservò che se poteva essere contestata la pretesa dell’acquirente
mediante eccezione, era perché il gioco veniva considerato lecito. Sembrava quindi possibile trarre la
conclusione che per ogni gioco lecito esistesse azione. Questo è il motivo logico per il quale alcuni statuti,
piuttosto tardi, hanno ammesso il principio che l’autorizzazione a tenere giochi altrimenti proibiti fornisse
CAPITOLO PRIMO
E’ così a partire dal Trecento che le cose cominciano a cambiare,
portando alla riscoperta medioevale della ludicità. Si sta procedendo a
ricollocare nel quadro dei sistemi ordinatori e negli schemi culturali
correnti l’uso del tempo libero, la ricreazione fisica e corporale (e laica),
la ludicità nelle sue diverse espressioni.
Ma sono soprattutto i pubblici poteri che alla materia dedicano
un’attenzione in precedenza impensabile, riconoscendole un’indiscutibile
rilevanza. L’ambito ludico diventa ora oggetto di processi di
disciplinamento che, a seconda dei casi, di volta in volta potranno
comportare tanto spazi maggiori quanto sanzioni più dure. In ogni caso il
di azione il vincitore insoddisfatto, sia pure nei limiti di valore prefissati dalla legge. E la dottrina fece
proprio quel principio. E’ stato nella scia del pensiero di Rogerio e di Piacentino, e non dietro
l’insegnamento di San Tommaso, come si è scritto, che si introdusse e consolidò in Italia il
convincimento che, nonostante il divieto di giocare d’azzardo, non fosse lecita la ripetizione dell’indebito.
Anzi, San Tommaso lo imponeva, dato che “turpiter acquiritur quod acquiritur per aleas” (San
Tommaso, Summa, II/2, 32, 7, 2). Faceva eccezione soltanto nel caso in cui “aleator si tractus lucratus
est”. E non era tenuto alla restituzione “quia ille qui amisit, non meretur recipere”. L’irripetibilità aveva
qui, dunque, carattere sanzionatorio.
Parecchie città italiane, tuttavia, pur combattendo per principio il gioco d’azzardo, preferirono
disciplinarlo, piuttosto che affrontarlo inadeguatamente. E lo autorizzarono in condizioni particolari.
Vollero, di regola, che fosse pubblico e, spesso, soltanto in luoghi autorizzati (in locis concessis per
baratariam, Cremona, 1339, L, 78 σ, rubr. LXI). La posizione dei giocatori e di coloro che li favorivano
aveva, tuttavia, una configurazione particolare. Tutte le garanzie che la legge forniva in materia di
contratti obbligatori venivano notevolmente affievolite quando si trattava di obbligazioni sorte da un
gioco aleatorio o in relazione allo stesso. Era privo di azione chi avesse prestato denaro ai giocatori. E ciò
allo scopo di impedire che chi avesse giocato con denaro e per conto altrui potesse essere invitato a
restituire la somma affidatagli. E anche se il prestito fosse stato fatto su pegno, il pignorante non era
tenuto a restituire il ricevuto, pur essendo autorizzato a richiedere la cosa offerta in garanzia. E parimenti
se fosse stato steso regolare contratto al riguardo, questo sarebbe stato nullius valoris.
Essendo vietato il gioco privato, venivano disposti duri provvedimenti, per esempio che le porte verso la
strada delle case nelle quali fossero stati scoperti giocatori clandestini venissero murate per un anno. La
legge disponeva, di regola, che venissero considerati giocatori clandestini, e quindi puniti, “omnes
sedentes, stantes et iacentes circhum tabularium seu discum, tacillum, scutum lapidem, vel locum
aparatum ad ludum”, e il loro favoreggiatori. La denuncia degli inquirenti avrebbe avuto valore di prova,
né era ammessa la prova in contrario. Per gli statuti aveva anche rilevanza il publicus mituator ad ludum
azardi, persona che, come si è visto, arrischiava in proprio, non accordandogli la legge alcuna protezione;
anzi, era punito con multe, in quanto considerato uno stans supra ludis. Tale publicus mutuator ad ludum
azardi era anche colpito da una specifica praesumptio iuris et de iure: ogni contratto di mutuo che avesse
stipulato, si presumeva fatto ob causam ludi azardi, e come tale era nullo, essendo inammissibile ogni
prova in contrario. Di regola, i luoghi in cui era lecito giocare d’azzardo erano nel capoluogo. Chi avesse
osato giocare nel distretto avrebbe sopportato il doppio della pena prevista per chi giocava in città nei
luoghi non autorizzati. Alcuni giochi, poi, erano assolutamente vietati. Tra questi si ricordano il ludus ad
ossa, antichissimo, forse preromano, comunque pare legato a pratiche divinatorie, il ludus anguillae, il
ludus veronensis, il ludus ragnae, il ludus ad oriollos.
Nei giorni in cui era lecito giocare ovunque (ma non fu usanza generale di tutta Italia, nonostante la
contraria affermazione di Paride Del Pozzo), erano considerati leciti i giochi ammessi e disciplinati dalla
legge per il resto dell’anno. In tale periodo di tempo gli impegni, i debiti e le obbligazioni assunte erano
validi a tutti gli effetti e irripetibili le somme perdute (Zdekauer, Il giuoco in Italia nei secoli XIII e XIV e
specialmente in Firenze, in Arch. Stor. It., 1886).
PROFILO STORICO
gioco diventa allora un affare di stato. Le gare pubbliche, i palii, le
giostre, le grandi feste organizzate dalle autorità sono l’altra faccia dei
divieti che si fanno più precisi. Soltanto a questo punto può aprirsi la via
al passaggio successivo: quello per cui i depositari del potere si fanno
responsabili persino dei giochi più ambigui e pericolosi, senza escludere
quelli aleatori, di azzardo, da sempre banditi dalla sfera della
rispettabilità.
E’ la nascita dallo Stato biscazziere.
Per tutti i giochi che combinano fortuna e denaro la vecchia
esclusione dall’area del lecito si articola adesso nel quadro di un sistema
normativo attento ma al tempo stesso flessibile. Le proibizioni diventano
esplicite, apparentemente indiscutibili, e tuttavia si accompagnano a
forme di tolleranza talvolta persino stupefacenti. La cosa è di speciale
evidenza con l’azzardo. Così per esempio, nonostante si stenda ormai su
tutta l’Europa il divieto del gioco dei dadi, capita poi che questi
finiscano davanti al giudice soprattutto per le loro conseguenze e non in
quanto tali: le sanzioni arrivano per le risse o le bestemmie che i dadi
provocano, piuttosto che per il fatto che si usino abbondantemente in
giochi proibiti
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La passione del gioco d’azzardo ha afflitto l’umanità sin dall’antichità ed è stata combattuta dal
legislatore di tutti i tempi poiché il gioco d’azzardo è stato sempre considerato fonte di mali e occasione
d’inimicizie e di risse (significativi sono a tal proposito i seguenti versi di Orazio: “Ludus enim genuit
trepidum certamen et iram/Ira truces inimicitias et funebre bellum”). Il più antico gioco d’azzardo di cui
si abbia notizia è proprio quello dei dadi (tesserae, Νù Ε Ρ Λ; del resto il gioco dei dadi è all’origine della
parola “azzardo” che deriva dal francese hasard che a sua volta deriva dall’arabo volgare az-zahr, “dado”,
e perciò “gioco d’azzardo, rischio”) del quale la tradizione attribuisce l’invenzione a Palemede che
avrebbe così tenuto occupati i Greci durante il lungo assedio di Troia, mentre Erodoto ritiene siano stati
inventati dai Lidii. I dadi ebbero origine dai tali ( ∆ ς Ω Υ ∆ ϑ ∆ Ο Ρ Λ), formati in un primo tempo da ossicini, i
quali avevano due lati larghi, uno convesso e l’altro concavo, e due stretti, uno incavato e l’altro pieno.
Venivano gettati su una tavola in numero di quattro a turno dai giocatori e la diversa posizione da loro
assunta (erano possibili trentacinque combinazioni) determinava il valore della giocata. Il gioco dei dadi
fu praticato con passione dai Greci e dai Romani, che davano ad ogni combinazione di numeri un nome,
che poteva essere di una divinità, di un eroe, o altro; per i Romani il punto peggiore era quello del “cane”,
mentre quello migliore era quello di “Venere”. I dadi, il bossolo che li conteneva e il tavolo furono
costruiti talvolta con materie molto pregiate e il gioco fu in uso anche presso gli imperatori: narra
Svetonio che Augusto in una lettera racconta di aver perduto al gioco ventimila sesterzi, che Nerone era
uno splendido giocatore e puntava anche somme altissime, quattrocento sesterzi per volta, e che giocava
anche in viaggio e che aveva scritto e pubblicato un manuale sui giochi d’azzardo (Svet. Aug. 71, Nero
30, Claud. 33).
Nel tardo Medioevo gli uomini giocavano accanitamente ai dadi: utilizzavano come dado un osso con sei
lati e con incisi dei cerchi per indicare il numero dei punti; tiravano due o tre dadi e cercavano di ottenere
determinate combinazioni.