4
ultimi erano esenti, riflettendo la contrapposizione tra governi equi e
tirannici: è stata riferita, infatti, essa ad un'imposta sul patrimonio che, in
un'epoca di diffusione ancora scarsa e uniforme della proprietà privata del
suolo, avrebbe gravato in misura sostanzialmente uguale sui cittadini. Più
probabile che alle spese comuni venisse destinata, fin da epoca risalente,
parte della preda di guerra e delle contribuzioni imposte ai nemici sconfitti, e
che, per la realizzazione di opere «pubbliche» si ricorresse anche alle
prestazioni personali (operae), in origine forse dei clientes dei vari gruppi
gentilizi, in seguito, di alcune categorie di cittadini (ne è un esempio la
destinazione di parte del bottino di guerra nell'edificazione, voluta dai
Tarquini, del tempio Capitolino).
Il superamento della fase protourbana e la nascita delle città-stato nella
seconda metà del VII secolo a.C., e più ancora la riorganizzazione delle sue
forme istituzionali, degli spazi urbani e del territorio tra la fine del VII e
quella del VI secolo, furono caratterizzati, grazie anche ad un'ampia
circolazione di beni e di maestranze, da un'elevata attività edilizia pubblica,
ampiamente confermata dalle testimonianze archeologiche, quali la
pavimentazione del Foro - 650 a.C. circa -, la Cloaca Massima, i luoghi di
5
culto, ecc. Inoltre, il collegamento tra la costruzione e dedica di templi e le
vittorie militari è un evidente sintomo del fatto che dalle guerre derivassero,
anche nei primi secoli della città-stato, gran parte delle cospicue risorse che
vennero utilizzate nell'edificazione degli edifici di culto o di altre opere
pubbliche (mezzi, strumenti, e, forse, anche uomini come prigionieri da
scambiare o da vendere a titolo di schiavi).
Ma la nuova città-stato disponeva anche di altre entrate, almeno a partire
dalle riforme dell'epoca di Servio Tullio, colui il quale viene considerato
come il creatore delle libertà cittadine (quindi, verso i decenni centrali del VI
secolo a.C.): la ripartizione dei cittadini in classi e centurie; l'adozione
dell'armamento e della tattica militare oplitici, la divisione della città in
quattro e, forse, del territorio in tribù; l'introduzione del censimento e, quindi,
del principio in base al quale la posizione di ciascun cittadino, i suoi diritti, i
suoi doveri dipendono, in gran parte, dalla valutazione del suo patrimonio, ne
sono un sintomo.
Grazie anche ad alcune testimonianze archeologiche, sembra che
l'introduzione del censimento fu collegata alla sostituzione di un'imposta
diretta, gravante in misura pari sui singoli (viritim), al fine di commisurarla al
6
valore del patrimonio, il tributum ex censu, il quale appariva, fin dall'inizio,
preordinato alle spese pubbliche (infatti, si ritiene connesso con tribuere più
che con tribus): non veniva, perciò, richiesto periodicamente, ma solo in caso
di necessità, e gravava soltanto sui cittadini patres familias che età e censo
abilitavano alla milizia. I più poveri erano invece immuni sia dal servizio
militare che dal tributo, che non era dovuto neanche dalle vedove e dagli
orfani, i quali, tuttavia, fin dall'età di Servio Tullio, sarebbero stati vincolati a
pagare direttamente agli equites equo publico (i beneficiari) una somma fissa
annuale non commisurata al censo, per il mantenimento del cavallo, il
cosiddetto aes hordearium.
Ad ogni modo, se la risalenza del tributo ex censu all'età serviana è molto
probabile, pochissimo sappiamo delle modalità con cui esso veniva indetto e
riscosso: lo stesso racconto di Dionigi
1
sull'argomento concerne una
situazione più tarda, dalla quale, tutt'al più, si può ricavare che a decidere
l'imposizione era il re. Così, la notizia di Varrone, che la riscossione avveniva
all'interno delle singole tribù, potrebbe essere veritiera, visto che, all'epoca,
tali tribù, probabilmente, fungevano anche da distretti di leva.
1
Dion. Hal., Ant. 4, 19, 1.
7
Qualche dubbio in meno è possibile avere in ordine al fatto che già l'età
regia aveva conosciuto qualche forma di portorium, dal quale i più poveri
(plebes) sarebbero stati esentati, così come erano esentati dal tributo, agli
inizi della Repubblica; nonché, forse, l'esistenza di una sorta di concessione
(dietro il pagamento di un vectigal) sul commercio del sale, che, nello stesso
periodo, sarebbe stato sottratto ai privati ed assunto dalla città in regime di
monopolio. In particolare, la notizia riguarda Anco Marcio, il quale avrebbe
fondato Ostia distruggendo le città intermedie ed organizzato delle saline.
Pertanto, i portoria di cui parla Livio
2
potrebbero essere dazi riscossi a Roma
sulle merci provenienti dal porto di Ostia. Del resto, l'importanza del
commercio del sale, fin da epoca risalente, e, quindi, del controllo delle saline
alle foci del Tevere, è cosa ben nota.
Ciò potrebbe significare, pertanto, che all'incirca nella seconda metà del
VII secolo a.C., la città prese il controllo dello sfruttamento sia delle saline
sia del commercio del sale, imponendo ai privati, che li avevano in
concessione, il pagamento di un vectigal.
In un simile contesto, quello della nascita e del consolidarsi della città-
stato, appare chiaro che anche la situazione dei fondi mutò, attraverso il lento
2
Liv. 2, 9, 6.
8
dissolversi delle terre gentilizie e attraverso la crescita dell'ager privatus e la
comparsa dell'ager publicus, il quale, già nel VI secolo a.C., poteva aver
raggiunto dimensioni accettabili. E, forse, già in questa epoca, come accadrà
in seguito, i proventi (vectigalia) dei beni pubblici costituirono un'entrata
cospicua per la realtà romana, e la forma più comune di sfruttamento doveva
essere il pascolo, tanto che pascua rimase, negli stessi registri censori
(tabulae censoriae), la designazione di tutti i beni da cui la città poteva trarre
un certo reddito.
9
1.2 Segue: l’età repubblicana.
Per quanto riguarda l'età repubblicana c'è da dire che, ovviamente, il
sistema tributario era andato sviluppandosi, anche sotto il profilo delle
entrate, a tal guisa che è oggi possibile ricordare in particolar modo le rendite
dei beni pubblici e portoria, i proventi dell'imposta sulle manomissioni, i
proventi delle guerre ed il c.d. tributum.
Relativamente alle entrate dai beni pubblici è molto importante ricordare
che, almeno fino all'età dell'espansione mediterranea, la cassa pubblica
(aerarium Saturni) traeva i suoi proventi ordinari quasi esclusivamente dagli
immobili di proprietà pubblica. Esclusa ogni gestione diretta, il loro
sfruttamento economico, se non era semplicemente lasciato ai privati
(inizialmente solo patrizi), come accadeva per la possessio dell'ager
occupatorius, che peraltro pare non fruttasse un corrispettivo vero e proprio
(come testimonia d'altronde Appiano
3
, secondo il quale buona parte del
terreno conquistato in guerra, e non assegnato ai coloni né venduto o locato,
era lasciato a chi volesse coltivarlo, al massimo dietro versamento di un
decimo dei prodotti), veniva generalmente affidato ad essi dai censori
10
(magistrati apparsi con potestà censoria nella seconda metà del V secolo a.C.)
o, in mancanza, dai magistrati maggiori e, talvolta, dai questori, come nella
«vendita» di terreno pubblico verso il corrispettivo di una somma di denaro e
di un canone periodico, il c.d. ager quaestiorus. I concessionari erano definiti
con i termini mancipes, emptores, conductores, in applicazione dello schema
della emptio venditio o, successivamente, di quello della locatio conductio, il
quale finì, poi, col prevalere. Spesso essi erano portatori di un interesse
qualificato, come nel caso di allacciamento ad acquedotti e cloache, oppure
erano imprenditori dediti a vere speculazioni (si aggiudicavano gli affari in
seguito a procedura d'asta), come accadde specialmente durante le guerre
puniche allorquando non era difficile incontrare veri e propri professionisti
delle concessioni e degli appalti relativi a beni od opere pubbliche (publica),
spesso riuniti in società rappresentate da un manceps (publicani). Il
corrispettivo in danaro (vectigal) della concessione, che, di regola, era a
tempo determinato, o veniva versato, come nella maggioranza dei casi, in
maniera diretta all'erario, oppure la sua riscossione veniva affidata in appalto
a publicani: Gli esempi più rilevanti di tali concessioni erano l'affitto o la
cessione in uso di botteghe, di terme, di pascoli, anche boschivi (pascua,
3
App., B.C.. 1, 7, 27.
11
silva pascua, saltus) il cui canone era detto scriptura e doveva,
verosimilmente, rappresentare la forma più antica di sfruttamento dell'ager
publicus.
In ogni caso, fino alla fine del III secolo a.C., l'importanza di dazi e
pedaggi era abbastanza scarsa (a tal proposito si ricorda che il termine usuale
era portorium, che indica sia vari tipi di dazio marittimo e terrestre, sia i
pedaggi per transitare per certe strade o su certi ponti). Infatti, dopo la notizia
dell'esenzione dei più poveri da alcuni non definiti portoria all'inizio della
Repubblica, solo verso il 198 a.C. troviamo una nuova menzione di dazi in
Italia, quando i censori ne appaltarono la riscossione a Capua, Puteoli e
Castrum. Molti altri furono, poi, introdotti nel 179 a.C., e, successivamente,
da Caio Gracco, ma è discusso se in Italia o in provincia.
Non sappiamo con certezza su quali beni e merci ed in quale misura i
portoria italici gravassero, ma è sicuro che le casse pubbliche ne ricavavano
un gettito cospicuo, e notevoli dovevano essere i profitti per i publicani
(compresi i loro abusi), se la loro abolizione con la lex Cecilia (proposta dal
pretore Cecilio Metello Nepote nel 60 a.C., subito dopo il ritorno vittorioso a
12
Roma di Pompeo) tanto dispiacque a Cicerone
4
. Infatti, dopo questa legge e
dopo la ripartizione cesariana dell'ager Campanus (59 a.C.), che sottraeva
alle locazioni la parte migliore dell'ager publicus, secondo il grande oratore
non restava più alcuna imposta in Italia (vectigal domesticum), se non quella
sulle manomissioni.
Nel 42 a.C. i triumviri ristabilirono poi, secondo Cassio Dione
5
, le imposte
abolite qualche tempo prima, e ne introdussero di nuove; è verosimile che tra
esse fossero ricompresi i portoria soppressi nel 60 a.C. Comunque, fu questa
una delle eccessive misure finanziarie dell'ultima età delle guerre civili, le
quali persero, poi, efficacia con la restaurazione augustea: l'assenza quasi
totale di documentazione su postazioni doganali in Italia all'epoca del
Principato sembra, infatti, far capire che i portoria vi ebbero scarsa
importanza e che, in ogni caso, non ci fu una circoscrizione doganale italica
autonoma.
Quanto alle altre importanti entrate fiscali si ricorda che, accanto ai
proventi degli immobili ed ai portoria, la città poteva contare, nella fase della
Repubblica «italica», su di un'altra fonte di entrate ordinarie. Fu, infatti,
4
Cic. 2, 21, 74.
5
Cass. Dio 2, 4, 6.
13
introdotta, molto probabilmente nel 357 a.C., dalla lex Manlia l'imposta del
5% sulle manomissioni (vicesima libertatis), che il console Manlio
Capitolino fece approvare dai comizi riuniti per tribù (tributim) fuori città, e
che i patres ratificarono e gli stessi tribuni della plebe non contrastarono, pur
provvedendo, però, ad impedire che ciò si ripetesse in futuro a causa di una
procedura così pericolosa per essi. Tutto ciò pensando che da essa si potesse
ottenere un cospicuo gettito a favore dell'erario
6
.
Tale imposta, dovuta sulle manomissioni compiute da cittadini romani (è
incerto se solo su quelle iustae o anche su quelle informali), garantiva,
quindi, un importo commisurato al valore dello schiavo che, a quanto pare,
veniva stimato da incaricati degli appaltatori. Le modalità ed i tempi del
pagamento erano oggetto di accordo tra questi ultimi e gli obbligati (lo
schiavo liberato ed il dominus), specialmente in presenza di testamenti con un
gran numero di manomissioni. C'è da aggiungere che, nonostante l'assenza di
testimonianze dirette, è quasi sicuro che la riscossione dell'imposta fosse, fin
da età risalente, appaltata dai censori a società di pubblicani: a tal proposito si
ricorda quanto affermò Cicerone, preoccupato dei loro interessi, nel 59 a.C.,
in ordine alle imposte in Italia.
6
Liv. 7, 16, 7-8.
14
Un'altra fonte di entrate per lo più costante era costituita dai proventi delle
guerre, specialmente durante il periodo espansionisitico. L'evento bellico,
infatti, era un affare che portava alle casse pubbliche vantaggi maggiori dei
costi, soprattutto, per gli incrementi territoriali (di cui era la maggiore fonte)
che, escludendo i terreni che venivano destinati alla deduzione di colonie
(ager colonicus) o assegnati in proprietà quiritaria (ager privatus optimo
iure), accrescevano l'ager publicus e le entrate che se ne potevano ricavare.
Inoltre, a parte il saccheggio, i vantaggi per le casse pubbliche derivavano
anche dal bottino e dai prigionieri: in genere, infatti, il vincitore, dopo averla
eventualmente esibita in trionfo, faceva vendere all'asta la preda bellica dai
questori, versandone il ricavato all'erario salva la facoltà, peraltro sottoposta
a controllo politico, in caso di eccesso, di destinarne una parte ai soldati
oppure ad un dio (decuma), alla costruzione di un tempio, con il consenso dei
pontefici e del Senato.
Anche sulla sorte dei prigionieri, che pure appaiono distinti dalla praeda
7
,
sembra decidere il comandante, il quale, come abbiamo visto, esponeva nel
trionfo quelli che non faceva uccidere subito, mettendoli, poi, in genere, in
7
Liv. 7, 27, 8.
15
vendita a favore dell'erario salvo l'intervento del Senato, in alcuni casi
particolari.
Ulteriori vantaggi derivavano, inoltre, in caso di guerra, dalle
contribuzioni, in natura e in danaro, che, per tale evento, venivano imposte
come condizione sia della tregua che della pace, e che, fin quando
l'espansione romana si limitò all'Italia, sembravano avere carattere
generalmente risarcitorio delle spese sostenute, in particolare per il
pagamento dello stipendium ai soldati, per i viveri e per il vestiario.
È bene ricordare, infine, che gli strumenti principali con cui Roma realizzò
la conquista della penisola (estensione della cittadinanza ed alleanze)
escludevano l'imposizione di tributi stabili i quali, infatti, erano l'eccezione,
come, ad esempio, accadde nel caso delle dodici colonie latine alle quali,
come punizione per una mancata fornitura di soldati e soldi, fu ingiunto - nel
209 a.C. - il pagamento di un tributo annuo dell'un per mille
8
. La
contribuzione, infatti, era sentita come una necessità a cui adattarsi in
situazioni particolari, e non come un diritto dello Stato a esigere regolarmente
dai suoi cittadini il pagamento di un'imposta diretta
9
.
8
Mercogliano e Spagnuolo Vigorita, Tributi (diritto romano) in ED., (Milano, 1992), XLV, pp. 85-92.
9
Vivenza, Divisioni agrimensorie e tributi fondiari nel mondo antico (Padova, 1995), pp. 29-30.
16
Quindi, eventi bellici ed erario erano strettamente collegati: le entrate
ordinarie, oltre al bottino ed alle contribuzioni imposte ai vinti, erano
utilizzate per sostenere le spese di guerra, le quali, nel I secolo della
Repubblica gravavano ancora sui cittadini chiamati alle armi. Ma spesso
queste risorse non bastavano, o non si voleva usarle, e allora si preferiva
ricorrere all'imposizione del tributo (tributum), istituito, come si sa, molto
probabilmente all'epoca di Servio Tullio, del quale tutte le fonti sottolineano
sia la connessione con il census sia la destinazione a spese belliche o, quanto
meno, un collegamento alla guerra, come, ad esempio, accadde per il
pagamento del riscatto ai Galli nel 390 a.C. o per la costruzione delle mura
nel 377 a.C. anche se, forse, in questi casi si trattò, più che di un tributo
ordinario, del c.d. tributum temerarium, di una contribuzione straordinaria
richiesta, cioè, non a tutti gli obbligati al tributo in base al censo, ma solo ai
più ricchi; dunque, non una vera imposta, ma una prestazione volontaria
benchè sollecitata, in ogni caso rimborsabile (infatti, secondo Livio
10
, almeno
l'oro versato dalle matrone per il riscatto ai Galli sarebbe stato rimborsato ad
esse l'anno successivo da Camillo, col ricavato della vendita di prigionieri
etruschi).
10
Liv. 5, 50, 7; 6, 4, 2.