CAPITOLO 1: INTRODUZIONE
1.1 Generalità.
La principale finalità di questo capitolo introduttivo è di dare pieno
significato ad alcuni termini che saranno continuamente ripresi nei prossimi
capitoli e che costituiscono i punti cardine del presente scritto. Si tratta di
spiegare che cosa si intende per “impatto della composizione delle fonti di
finanziamento sul valore economico dell’azienda”.
Innanzitutto, precisiamo che, tra le varie modalità di riclassificazione dello
Stato Patrimoniale, si prenderà come riferimento quella riportata nella figura
1.1, eseguita secondo il criterio della pertinenza gestionale.
1
Tale modalità
comporta che le voci che lo compongono siano aggregate in relazione
all’appartenenza di ognuna alla gestione operativa o non operativa e,
nell’ambito della gestione operativa, in base all’appartenenza alla gestione
corrente o non corrente.
Impieghi Fonti
1) Attività operative:
a) Attività op. gest. non corrente
b) Cap. circolante netto op. (gest. corrente):
Attività correnti
(Passività correnti)
CAPITALE INVESTITO
NETTO OPERATIVO (a + b)
2) Attività non operative (gestioni accessorie)
1) Capitale netto
2) Debiti di finanziamento
Totale Impieghi (1+2) Totale Fonti (1+2)
1
Si veda: L. Brusa, S. Guelfi, L. Zamprogna, “La riclassificazione secondo il criterio della pertinenza
gestionale” in “Finanza d’impresa: logiche e strumenti per creare valore”, ETAS Libri, Milano 2001, pag.
15-18. C. Caramiello, “La riclassificazione dello Stato Patrimoniale” in “Indici di bilancio: strumenti per
l’analisi della gestione aziendale”, Giuffrè Editore, Milano 1993, pag. 17-74.
Figura 1.1: Stato Patr. riclassificato secondo il criterio della pertinenza gestionale.
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
2
È noto che le fonti di finanziamento sono costituite dai capitali raccolti,
sia a titolo di rischio che di prestito, per rendere possibile la realizzazione di
determinati investimenti, rappresentati dagli impieghi. Lo schema riportato
necessita di alcune osservazioni. Per ciò che concerne gli impieghi, si può
evidenziare che:
1. le attività operative (o capitale investito netto operativo) sono gli
investimenti al servizio della gestione tipica o caratteristica
dell’impresa, suddivise in attività operative della gestione corrente e
della gestione non corrente;
2. le attività operative della gestione non corrente sono quegli
investimenti durevoli che riguardano l’attività tipica dell’azienda ma,
appunto perché durevoli, non rientrano nella gestione corrente.
Tipicamente sono costituite dalle immobilizzazioni materiali,
immateriali e finanziarie al netto dei rispettivi fondi d’ammortamento;
3. le attività operative della gestione corrente sono tutti quegli impieghi
caratteristici che rientrano nel complesso delle operazioni collegate al
ciclo ripetitivo acquisti-trasformazione-vendite, tramite il quale
l’azienda realizza la sua funzione economica. Si tratta di scorte, crediti
commerciali (prescindendo dalla loro scadenza), liquidità immediate,
ratei e risconti generati da costi e ricavi legati alla gestione corrente;
4. le passività correnti sono dei debiti che nascono con la gestione
corrente, poiché sono collegati al ciclo ripetitivo acquisti-
trasformazione-vendite di fattori produttivi a fecondità semplice. Su di
essi l’azienda può contare per fronteggiare parte del fabbisogno
finanziario complessivo, rappresentato dal totale degli impieghi. In
genere, si tratta di debiti commerciali (prescindendo dalla loro
scadenza), del trattamento fine rapporto di lavoro, del fondo imposte e
dei ratei e risconti collegati a ricavi e costi riconducibili alla gestione
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
3
corrente. Si noti che nello schema di riclassificazione dello Stato
Patrimoniale della figura 1.1 le passività correnti sono portate in
deduzione delle attività correnti, questo per evidenziare come parte del
complessivo fabbisogno sia coperto dalla stessa gestione corrente
grazie alle fonti finanziarie generate “spontaneamente” dalla stessa. La
differenza fra attività correnti e passività correnti è il capitale
circolante netto operativo;
5. le attività non operative sono degli investimenti che non rientrano nella
gestione tipica aziendale, quali gli immobili civili, gli investimenti in
titoli non riconducibili ad impieghi temporanei di eccedenze di
liquidità, le partecipazioni che non sono strettamente funzionali al core
business, ecc…..
Per quanto riguarda le fonti, si sottolinea che i debiti di finanziamento
sono passività estranee alla gestione corrente, includono tipicamente i debiti
finanziari a medio e lungo termine (obbligazioni, mutui, ecc…) e i debiti a
breve verso le banche, mentre il capitale netto costituisce i mezzi propri
apportati a pieno rischio.
Si è scelto di impiegare il criterio di riclassificazione della pertinenza
gestionale, detto anche funzionale, anziché altri criteri, come per esempio il
criterio finanziario, poiché ad esso viene riconosciuta una maggiore efficacia
interpretativa dell’aspetto economico e finanziario della gestione, essendo di
maggiore utilità nell’analisi della redditività, dell’indebitamento e della
dinamica finanziaria.
Avendo precisato lo schema di riclassificazione che sarà impiegato per le
successive analisi, occorre a questo punto chiarire perché si è optato per la
considerazione del valore economico dell’azienda, anziché del valore
contabile risultante dal bilancio, e come lo stesso valore economico possa
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
4
essere funzionale alla composizione qualitativa e quantitativa delle fonti di
finanziamento.
1.2 Importanza del valore economico.
2
Le imprese competono in contesti ambientali caratterizzati da limitate
risorse a disposizione, le quali devono essere impiegate al meglio, cioè
investite in modo tale da generare dei benefici (ricavi) che siano superiori ai
costi sostenuti per acquisirle ed impiegarle. Così, si dice che l’attività
dell’impresa è rivolta alla creazione di “nuovo valore” destinato a soddisfare
i bisogni dei soci-azionisti: tale processo di impiego efficiente delle risorse è
dunque da vedere nell’ottica dei portatori di capitale a pieno rischio, che
ricevono una remunerazione residuale rispetto a tutti gli altri portatori di
capitale (come, ad esempio, gli obbligazionisti, gli istituti di finanziamento,
ecc…).
Sia l’Economia Aziendale che l’Economia Finanziaria sono concordi
nell’affermare che il parametro chiave di riferimento per apprezzare
l’efficacia di una strategia sia il valore economico del capitale proprio e che il
valore di mercato di una data azienda sia dato dal valore economico delle sue
fonti o anche, ed è la stessa cosa, dal valore economico dei suoi impieghi.
In base a quanto detto, appare chiaro che la stima del valore economico
del capitale a intervalli di tempo costanti costituisce un riferimento
indispensabile per misurare le modifiche al valore economico aziendale
derivanti dalla gestione e, quindi, valutare la validità di quest’ultima. Il
discorso vale sia per le imprese quotate che per quelle non quotate. Per le
prime, anzi, è un processo inevitabile che serve a diffondere il nuovo valore
2
Sull’importanza del valore economico si veda: M. Cattaneo, “Nuovo valore e nuovo benessere” in
“Manuale di finanza aziendale”, il Mulino, Bologna 1999, pag. 24-27. S. Guelfi, “Il valore economico del
capitale d’impresa come parametro chiave di riferimento” in “Strategie finanziarie e valore economico
d’impresa”, Guerini, Milano 1997, pag. 47-57.
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
5
prodotto sulle quotazioni di borsa delle azioni e a donare così solidità
all’impresa. Va comunque ricordato che la capacità di creare nuovo valore
significa avere la prospettiva di “battere il mercato” con il rispetto della
condizione che il rendimento del capitale investito sia maggiore del suo
costo.
La teoria della creazione di nuovo valore e della sua diffusione sui prezzi
di mercato ha un certo seguito soprattutto nel mondo anglosassone, nel quale
sono numerose le società con azione sparse fra il pubblico dei risparmiatori
(le cosiddette “public companies”). Negli ultimi dieci anni essa ha iniziato a
svilupparsi anche in Italia e in altri contesti europei, con la messa in evidenza
di alcuni peculiari aspetti: in pratica, non si fa altro che confermare la
necessità di stimare periodicamente il valore economico del capitale
impiegandolo come una misura della performance aziendale da affiancare ai
risultati di bilancio. Questi ultimi sono considerati incerti ed inattendibili
nell’esprimere, da soli, la vera “sostanza economica” dell’azienda, capacità
che invece è attribuita al valore economico del capitale investito.
Ma perché si afferma la superiorità dell’approccio del valore, basato
appunto sui valori economici, rispetto al modello contabile? La risposta a
questa domanda va ricercata nei limiti che, si ritiene da più parti, affliggono il
modello contabile e che ne minano alla base il suo impiego per misurazioni
attinenti il valore economico di una data azienda o di una strategia.
I limiti del modello contabile possono classificarsi in due categorie: limiti
nelle valutazioni a consuntivo e limiti nelle valutazioni a preventivo. Di
seguito si esporranno brevemente entrambi, iniziando dai primi.
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
6
1.3 Limiti del modello contabile.
3
1.3.1 Limiti nelle valutazioni a consuntivo.
Per primo, va ricordato il limite strettamente collegato al principio guida
di valutazione delle poste patrimoniali dell’attivo, cioè il costo storico. In
presenza di inflazione, situazione sicuramente più ricorrente da riscontrare
nella realtà rispetto alla deflazione, l’iscrizione in bilancio di cespiti valutati
secondo il criterio del costo storico altera la percezione dello “stato di
salute” dell’azienda, poiché conduce ad una sottostima del capitale investito
e ad una sovrastima della redditività e del grado di indebitamento.
Ovviamente, un ragionamento opposto è valido per il caso meno frequente di
deflazione. È vero che periodicamente sono emanate norme che consentono,
entro certi limiti, la rivalutazione dei cespiti iscritti al costo storico per
avvicinarli ai valori di sostituzione, mitigando così gli effetti distorsivi, ma è
altrettanto vero che tali provvedimenti non sono emessi con la periodicità
necessaria a far sì che le poste patrimoniali possano seguire il corso dei prezzi
di mercato. Ecco perché quando si redigono bilanci gestionali per usi interni,
svincolati dunque dal rispetto di norme di legge, vengono generalmente
sostituiti ai costi storici quelli di rimpiazzo.
Altro limite è costituito dal trattamento contabile che ricevono talune
operazioni di provvista e d’impiego di capitale che, ancora una volta, si
ripercuote sul contenuto segnaletico dei tradizionali indici di bilancio.
Solitamente si portano come esempio le operazioni di leasing. L’impresa che
ottiene il bene in locazione finanziaria (ad es. un macchinario) non può
iscriverlo tra le immobilizzazioni, anche se ne sta godendo i frutti, poiché non
ne ha la proprietà. Inoltre tra le passività non si riporta, secondo il trattamento
3
Sui limiti ma anche sui principali ambiti applicativi del modello contabile si veda: L. Brusa, S. Guelfi, L.
Zamprogna, “Portata e limiti del modello contabile”, op. cit. , pag. 61-65. A. Incollingo, “La struttura
finanziaria secondo l’approccio del valore” in “Il fabbisogno finanziario dell’impresa: aspetti quantitativi e
di politica aziendale”, Giuffrè editore con collaborazione LUISS, Milano 1996, pag. 163-175.
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
7
contabile più diffuso, neppure l’ammontare del debito residuo per i canoni
futuri di leasing ancora da pagare. Di fatto, è come se si acquistasse il
macchinario con un finanziamento a medio-lungo termine, ma in questo caso
il bene risulterebbe iscritto nelle immobilizzazioni e il corrispondente debito
nel passivo, offrendo la chiara visione dell’accaduto. Il trattamento contabile
riservato al leasing, invece, altera il valore degli impieghi e delle fonti,
incidendo di conseguenza sul valore degli indici che si rifanno a tali
grandezze.
Un terzo limite è collegato al principio della competenza economica. È
noto che il bilancio ha lo scopo di evidenziare la situazione patrimoniale,
economica e finanziaria dell’azienda con riferimento ad un determinato
periodo amministrativo, di solito di durata annuale, e ad una data ben precisa,
il 31/12. Ma la gestione non conosce interruzioni, s’immagina soltanto di
poterla fermare in un dato istante, come se si potesse fotografarla.
L’applicazione del principio della competenza comporta dunque numerose
operazioni di valutazione, basti pensare agli ammortamenti e alle rimanenze
di magazzino. Vari sono i metodi di valutazione da poter impiegare, tutti
leciti e corretti, ma che possono condurre a risultati anche molto diversi. A
ciò si aggiunga anche l’applicazione del principio della prudenza che,
imponendo di contabilizzare le perdite, anche se non ancora sostenute, ma
escludendo l’iscrizione dei ricavi futuri, può ancora alterare la
determinazione del reddito e del capitale netto rispetto a ciò che risulterebbe
dall’applicazione rigorosa del principio della competenza.
Infine, si ricordi l’influenza della normativa fiscale, la quale spesso porta i
redattori del bilancio a discostarsi dai principi economico-tecnici per
usufruire di vantaggi di natura, appunto, fiscale. Il caso più ricorrente è quello
degli ammortamenti anticipati.
A conclusione, si può osservare che le limitazioni esposte sono
sicuramente di rilievo, ma non tali da togliere completa significatività al
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
8
modello contabile, purché l’analista sappia usare con intelligenza gli abituali
strumenti d’analisi contabile a sua disposizione.
1.3.2 Limiti nelle valutazioni a preventivo.
Nel caso di valutazioni a preventivo, ai limiti visti nel precedente
paragrafo se ne aggiungono altri considerati, però, da molti come più “gravi”
e contro cui è veramente difficile argomentare a difesa del modello contabile.
Ci si riferisce, soprattutto, alla mancata considerazione del valore
finanziario del tempo, preso invece in debito conto dal modello del valore. In
pratica, l’approccio tradizionale assegna lo stesso valore ad un ricavo,
supponiamo di 100 €, disponibile immediatamente e ad un altro dello stesso
ammontare ma disponibile, ad esempio, fra dieci anni. Ciò avviene anche
quando si procede a delle ripartizioni di costi pluriennali senza cogliere le
conseguenze della diversa collocazione temporale dell’esborso monetario:
tipico è il caso degli ammortamenti delle immobilizzazioni.
Si tratta, dunque, di un limite che è intrinseco al modello contabile ed è
tanto più rilevante quanto più:
1. le strategie si protraggono nel tempo;
2. varia la distribuzione dei flussi di cassa associati ad alternativi progetti
di impiego di capitale;
3. il valore finanziario del tempo, cioè il tasso di interesse, è elevato;
4. il tasso di interesse differisce significativamente tra i vari business.
La conseguenza che scaturisce da tale limitazione del modello contabile è
che per impostare correttamente la valutazione di una strategia (o della
strategia complessiva di un’intera azienda) bisogna agire come prescrive
l’approccio del valore, cioè:
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
9
1. considerare i flussi di cassa associati all’iniziativa, invece che i flussi
di reddito;
2. individuare la collocazione temporale di tali flussi;
3. stimare il tasso di interesse, ossia il valore finanziario del tempo.
Infine, l’ultima critica che è avanzata contro il modello contabile è
costituita dall’inadeguata considerazione del rischio: due imprese con un
ROE uguale sarebbero considerate similmente redditizie anche se una opera
in un settore maturo e stabile e l’altra in un settore altamente innovativo e
dinamico. In realtà, questa limitazione è vera se è riferita all’impostazione più
tradizionale del modello contabile, mentre perde in gran parte significato se si
guarda anche alle più recenti evoluzioni dell’approccio tradizionale nelle
quali, nello stimare la redditività ritenuta soddisfacente e quindi, come si
vedrà nel prossimo capitolo, il costo del capitale, considera anche la
componente di rischio riferita all’azienda e al business nel quale opera.
1.4 L’equilibrio finanziario.
Il concetto di equilibrio finanziario è molto complesso e suscettibile di
numerose interpretazioni. Generalmente si dice che un’impresa è in equilibrio
finanziario quando è possibile esprimere un giudizio positivo su diversi
aspetti che la riguardano, quali grado di capitalizzazione, reputazione,
redditività, disegno strategico, ecc… Tale affermazione, anche se importante,
non è di per sé sufficiente a definire con esattezza cosa sia l’equilibrio
finanziario o il disequilibrio: è necessario dare un significato ben preciso al
termine.
Ci sono diversi modi di intendere l’equilibrio finanziario.
4
4
Si veda: G. Tavaglini, “Analisi dell’equilibrio finanziario: logiche e metodi a confronto” in
“Amministrazione e Finanza”, inserto al n. 4 del 2001, pag. 3-15.
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
10
Un’impresa in equilibrio finanziario soddisfa una o alcune delle seguenti
caratteristiche:
1. bilanciamento, nel breve periodo, tra entrate e uscite;
2. composizione delle fonti di finanziamento coerente con il disegno
strategico perseguito;
3. dinamica del capitale circolante raccordata con l’evoluzione del
fatturato;
4. soddisfacente rendimento del capitale investito;
5. corretto rapporto tra reddito operativo e oneri finanziari;
6. corretto rapporto tra valore economico degli impieghi e delle fonti;
7. accettabile relazione tra flusso di cassa complessivo e sviluppo
aziendale;
8. struttura finanziaria che massimizza il valore dell’impresa.
Ovviamente è molto difficile trovare un’azienda che soddisfa tutti gli otto
requisiti. È la sensibilità dell’analista finanziario che a questo punto entra in
gioco, dovendo egli valutare quali di questi siano di importanza cruciale per
l’impresa sotto esame e quali meno rilevanti. Ad esempio, per una grande
impresa quotata in borsa assumono molta importanza quei requisiti che
incidono sul valore delle azioni, quali i flussi di cassa, cosa che invece sarà
quasi trascurabile per una piccola azienda magari a gestione individuale.
1.4.1 Bilanciamento, nel breve periodo, tra entrate e uscite.
Quando si parla di bilanciamento tra entrate e uscite nel breve periodo si
analizza la posizione di liquidità dell’azienda
5
, intesa come la capacità di
fronteggiare tempestivamente ed economicamente le uscite con le entrate.
5
Si veda: L. Brusa, S. Guelfi, L. Zamprogna, “Posizione di liquidità”, op. cit. , pag. 20-21. C. Caramiello,
“L’analisi delle correlazioni: la struttura patrimoniale a breve”, op. cit. , pag. 351-372.
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
11
Avendo come base un bilancio riclassificato e “normalizzato” (cioè con
l’indicazione dei valori economici delle varie poste), tornano utili per lo
studio della liquidità i tradizionali indici di bilancio (quoziente di
disponibilità e, soprattutto, di liquidità): essi evidenziano, però, soltanto una
generica attitudine dell’azienda a essere solvibile nel breve termine. L’analisi
dei flussi di cassa della gestione corrente, che concerne invece la dinamica
finanziaria, ci viene in aiuto per confermare o smentire tale generica
attitudine. È chiaro che le uscite possono essere superiori alle entrate in
periodi importanti della vita aziendale, in particolare quando si stanno
attuando dei cospicui piani d’investimento. Tuttavia è necessario che tale
sbilanciamento rimanga sotto controllo per evitare di portare la situazione
finanziaria in una “zona di pericolo”, tale da generare, alla lunga, anche
difficoltà di mantenimento dell’equilibrio economico a causa del carico degli
oneri finanziari. Comunque, le imprese di successo e con una solida
reputazione presso gli istituti finanziari riescono ad assorbire quasi tutti gli
squilibri temporanei di liquidità grazie alla rilevante capacità di ottenere
credito: ciò sicuramente comporta dei costi, ma non tali da turbare la buona
situazione di fondo.
1.4.2 Composizione delle fonti di finanziamento coerente con la strategia.
In questo caso l’equilibrio finanziario è soddisfatto quando la
composizione delle fonti è coerente con la formula competitiva adottata.
Si ritiene che il livello d’indebitamento sia strettamente correlato con le
caratteristiche del business nel quale opera l’impresa e quindi con i risultati
operativi: maggiore è la variabilità di questi ultimi, a causa del dinamismo e
della concorrenza settoriale, minore deve essere il grado d’indebitamento. In
questi casi è opportuna una struttura finanziaria costituita soprattutto da
mezzi propri, cioè da “capitale paziente”, in quanto il capitale apportato dai
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
12
soci esige si una remunerazione ma sa aspettare ed è flessibile alle scadenze.
Viceversa, il debito finanziario è impaziente e non ammette proroghe alla sua
remunerazione.
1.4.3 Dinamica del capitale circolante raccordata con l’evoluzione del
fatturato.
In questa particolare accezione di equilibrio finanziario, la relazione da
monitorare è quella tra il “capitale circolante netto operativo in senso
stretto”, nozione che verrà chiarita nel successivo capitolo 2, e l’andamento
del fatturato. Si vedrà, in particolare, come una lievitazione del capitale
circolante netto operativo in senso stretto comporta un assorbimento di
risorse finanziarie mentre una contrazione libera liquidità che può essere
liberamente investita. Un criterio per valutare l’equilibrio finanziario
consiste, appunto, nel verificare la variazione, in un dato intervallo
temporale, del capitale circolante netto operativo. Se vi è un aumento, è
possibile che ciò sia dovuto alla perdita di quote di mercato, con conseguente
aumento delle scorte invendute, oppure all’aumento dei tempi di incasso dei
crediti verso i clienti o, ancora, dalla indisponibilità dei fornitori a concedere
le abituali dilazioni di pagamento. Tenere sotto controllo le componenti del
circolante netto è fondamentale, perché ogni significativa deviazione dai
consueti valori può aiutare a identificare con prontezza la possibilità del
verificarsi di condizioni di squilibrio finanziario.
1.4.4 Soddisfacente rendimento del capitale investito.
Nella pratica è molto diffusa la convinzione che sia possibile misurare
l’equilibrio finanziario anche relazionando il rendimento del capitale
investito con il suo costo: una impresa è in equilibrio finanziario quando il
rendimento supera il costo. In realtà, c’è da dire che questo criterio di
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
13
valutazione è di fondamentale importanza ma ha natura economica e non
finanziaria, come invece molti analisti ritengono. Non è questa l’area
d’intervento prioritaria del direttore finanziario, anche perché, d’altro canto,
il costo del capitale è in gran parte deciso dal mercato e ciò che si può fare è
solo individuare le migliori condizioni possibili.
1.4.5 Rapporto tra reddito operativo e oneri finanziari.
Il rapporto tra il reddito operativo e gli oneri finanziari è detto “grado di
tensione finanziaria”. Il grado di tensione finanziaria è inversamente
proporzionale al numero delle volte in cui il margine operativo supera gli
oneri finanziari. L’indicatore più usato è il rapporto tra l’EBIT (“Earning
Before Interest and Taxes”, reddito prima degli oneri finanziari e delle tasse)
e gli oneri finanziari. Ad esempio, se il rapporto è pari a due, significa che
l’impresa ha a disposizione due euro di margini per pagare un euro di oneri
finanziari. L’indicatore è molto chiaro e i segnali che lancia sono altrettanto
facilmente comprensibili. Infatti:
se è inferiore ad uno, i margini non sono in grado di accollarsi il costo
del debito, l’impresa è in perdita ed in pesante tensione finanziaria;
se è inferiore a due, i debiti sono molto consistenti, non possono essere
ulteriormente incrementati e l’azienda è in un equilibrio finanziario
alquanto zoppicante;
se assume valori maggiori di due, più è elevato maggiore è il
potenziale di investimento non sfruttato e il grado di tensione
finanziaria si abbassa.
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
14
1.4.6 Rapporto tra valore economico degli impieghi e delle fonti.
Considerando quest’ulteriore aspetto, l’equilibrio finanziario sussiste
quando il valore economico degli impieghi risulta superiore al valore
economico delle fonti. Questo particolare modo di intendere l’equilibrio
finanziario deriva dalla legittima supposizione che i debiti vengano
rimborsati sulla base dei valori dell’attivo. Tuttavia si può osservare che
certamente non è solo questo l’unico modo per rimborsare i debiti, infatti vi
sono almeno tre possibilità:
1. lo smobilizzo di poste dell’attivo;
2. i flussi finanziari generati dalla gestione corrente;
3. l’accensione di nuovi prestiti.
Allora, se l’analista ritiene che il rimborso avverrà grazie alla prima
modalità utilizzerà il criterio esposto in questo paragrafo per valutare
l’equilibrio finanziario.
In conclusione, l’equilibrio patrimoniale inteso come caso specifico di
equilibrio finanziario è molto usato nella pratica, soprattutto dalle banche
nella valutazione dei fidi da concedere ai richiedenti credito, ma non permette
di cogliere altri aspetti importanti, quali l’impiego efficiente delle risorse
finanziarie, e quindi può consentire di effettuare soltanto un test preliminare
sull’esistenza dell’equilibrio finanziario, da approfondire con altre tecniche di
analisi.
1.4.7 Relazione tra flusso di cassa totale e piani di sviluppo aziendali.
È un modo di intendere l’equilibrio finanziario che si ricollega al concetto
di “crescita aziendale autofinanziata” e che presuppone il calcolo dei flussi
di cassa complessivi generati dalla gestione e la previsione del momento nel
quale si renderanno disponibili. Ovviamente, se il cash flow che si prevede di
CAPITOLO 1: “ Introduzione ”.
15
realizzare nei piani finanziari è sufficiente a sostenere lo sviluppo, l’impresa
è considerata in equilibrio finanziario rispetto a questa caratteristica,
altrimenti sarà in una situazione di disequilibrio.
1.4.8 Struttura finanziaria che massimizza il valore dell’impresa.
Poiché il punto di riferimento resta sempre lo Stato Patrimoniale
riclassificato secondo il criterio funzionale della Figura 1.1, per struttura
finanziaria si intende il mix tra capitale proprio e debiti finanziari.
Secondo quest’approccio, relativamente nuovo, l’impresa è in una
condizione di equilibrio finanziario quando il mix quali-quantitativo delle
fonti è tale da massimizzare il valore economico del capitale investito cioè,
detto in breve, quando presenta una ottimale combinazione delle fonti di
finanziamento. Il problema è allora quello di stabilire se esiste veramente
un’ottimale struttura finanziaria e, se si, quale essa sia.
Nel corso degli anni si sono succedute varie teorie a proposito, ognuna
con proprie assunzioni di base e con proprie conclusioni: si va dalla teoria
classica, che si concentra soprattutto nello studio dell’effetto leva, alle teorie
più recenti, come quella elaborata da Modigliani e Miller e le successive
evoluzioni.
Ormai, comunque, si ha la certezza che le politiche finanziarie svolgono
un importante contributo per la creazione di valore. Anzi, è possibile
individuare due diversi apporti delle scelte finanziarie alla creazione di
valore:
1. il contributo diretto, che riguarda l’azione immediata che le politiche
finanziarie hanno sulle due componenti del valore (rendimento e
rischio);
2. il contributo indiretto, che invece consiste in un ruolo indiretto nella
creazione di valore, svolto attraverso l’esaltazione dell’azione delle
strategie competitive sul rendimento e sul rischio.