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Struttura metodologica
Gli obiettivi che questa tesi si pone possono essere sintetizzati nei seguenti punti:
- Descrivere il percorso che mi ha portato ad approfondire la figura di Cecilia Mangini
attraverso il racconto delle mie esperienze personali, quali le interviste e il montaggio di un
documentario, che vede come protagonista la regista.
- Contestualizzare il periodo storico in cui Cecilia Mangini opera, per comprendere le fonti di
ispirazione che spaziano dall’appartenenza a una determinata ideologia politica, alla
frequentazione degli intellettuali del tempo, sino alle scelte estetiche della produzione
artistica, dando particolare importanza alla peculiarità dell’immagine, che l’artista interpreta
attraverso il concetto dell’immanenza.
- In un secondo momento viene analizzata l’opera complessiva di Cecilia Mangini mediante la
lettura critica delle fotografie e dei documentari, che affrontano in particolare i grandi temi
della realtà del secondo dopoguerra nel nostro Paese.
- In un terzo momento si ripercorre la produzione attuale della regista, evidenziando il suo
percorso culturale e analizzando la visione attuale in merito ad alcune tematiche quali la
politica, il ruolo dei giovani e la situazione delle donne.
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Introduzione
Il percorso che mi ha portato ad approfondire la figura di Cecilia Mangini è iniziato più un anno e
mezzo fa, quando il professor Melanco ha proposto agli studenti del corso di cinematografia
documentaria un progetto laboratoriale, per la realizzazione di un documentario sulla regista. Ho
alzato la mano insieme a Federico e Andrea, i miei due colleghi, e questo ci ha dato modo di scoprire
un mondo nuovo: il nostro compito iniziale è stato quello di ascoltare attentamente le interviste che
la Mangini ha registrato nell’arco di quattro anni, dalle lezioni tenute al Maldura e a Mestre, fino
all’intervista del 2014 con il professor Melanco. Attraverso questo primo approccio sono riuscita ad
approfondire la sua vita e le sue opere, dopo di che, nel mese di novembre del 2016, ho avuto
l’opportunità di andare a Roma con il professore, l’operatore di macchina e montatore Tommaso
Brugin e il mio collega Cristiano, che nel frattempo si occupava dell’altro regista, Luigi Di Gianni, a
cui era dedicato un altro documentario. Nel corso della prima giornata ci siamo recati presso la casa
del regista per portare a termine la prima intervista, mentre nel pomeriggio ci siamo diretti verso
l’abitazione di Cecilia Mangini, con l’incarico di raccogliere delle immagini di repertorio: a Tommaso
Brugin il compito di aggirarsi nelle stanze, per catturare tutti quegli elementi che possano
contraddistinguere il carattere e la personalità della regista, in una casa lontana dal traffico di Roma.
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Gli ambienti che più ci colpiscono sono la libreria e lo studio: la prima è colma di libri di storia e di
romanzi, mentre lo studio ad un primo impatto sembra quello di una donna nel pieno dei suoi anni di
attività: la schermata aperta sulle numerose mail, un’altra sull’attualità, un computer moderno e una
scrivania colma di testi, tra cui il suo nuovo libro di fotografie. La Mangini, donna esile e minuta, si
destreggia tra le nuove tecnologie e cammina in maniera scattosa, lo sguardo attento, come se fosse
sempre pronta ad immortalare un’immagine con la sua macchina fotografica. Le presentazioni sono
molto veloci, ogni attimo sembra prezioso al punto da tenere sempre accesa su di lei la macchina da
presa, mentre il professore le spiega che cosa avverrà durante il viaggio di ritorno verso Padova. In
auto abbiamo cinque ore di tempo per interagire con la regista e raccogliere il materiale che poi sarà
parte integrante del nostro documentario: io comincio a farle qualche domanda di attualità, sulle
donne, sulla politica e sui documentaristi attuali, dei quali è molto informata, mentre si rifiuta di
parlare dei giovani, poiché spiega che si sono spese fin troppe parole sui ragazzi di oggi, spesso
ingiuste nei confronti della nuova generazione. Tommaso Brugin la inquadra mentre parla al
professore, ripetendo le vicende salienti che riguardano i suoi film, dei quali si ricorda ogni minimo
particolare.
Il nostro lavoro per dare forma al documentario ricomincia il giorno dopo, con le riprese in
laboratorio, dove avevamo creato un set con tre macchine da presa, in modo tale che la regista possa
essere ripresa in primo piano, a mezzo busto e da dietro, perché colta di spalle si possa vedere che la
regista interagisce con il monitor, nel quale vengono proiettate diverse immagini riprese nel corso di
altre interviste o documentari, attraverso un pre-montaggio che le abbiamo preparato e che le dà
modo di apportare varie aggiunte e commenti attuali. La nostra è una corsa contro il tempo durante
la quale cerchiamo di riassumere tutti i temi principali del suo cinema, per giungere ad una sintesi:
quando il professor Melanco inizia a dirigere il set, sorgono alcuni problemi: la regista, dal carattere
forte e volitivo, non è convinta dalla nostra modalità di girare il documentario ed esterna le sue
preoccupazioni e le sue critiche, da cui seguono discussioni.
Cecilia Mangini si guarda sullo schermo con una certa meraviglia e con un sorriso stanco sulle
labbra, ad ogni video che le proponiamo ad un certo punto interrompe la sequenza e aggiunge delle
considerazioni riguardo ai passaggi che ritiene più importanti: a me è stato assegnato il ruolo di
comparsa nel documentario, quindi sono ripresa di spalle mentre controllo il computer e seguo i
documentari della regista senza il sonoro. Da tale posizione non vedo il set, ma riconosco i molti
silenzi: Cecilia Mangini si concentra al massimo per esprimere frasi sintetiche capaci di restituire un
discorso sottostante molto più lungo, e non è abituata a farlo. Si ripetono le scene, spesso più di
quattro volte, a causa del suo estremo perfezionismo e il suo desiderio di realizzare il lavoro nel
migliore dei modi. Nonostante la sua necessità di approfondire alcuni argomenti e alcune vicende
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piuttosto che altre, riusciamo comunque a estrapolare tutto il materiale occorrente in due giorni, e
siamo consapevoli del fatto che ci aspetta un lavoro lungo e complesso.
Cecilia Mangini la si scopre poco a poco. Prima vedi una donna, poi una regista e una
fotografa, ma bisogna andare ancora più a fondo per capire la vera importanza e la profondità dei suoi
discordi. Bisogna ascoltare più volte le sue interviste, leggere il suo nome nei libri dedicati alla storia
del cinema italiano, analizzare tutti i suoi documentati e inserirla nel suo contesto storico per
comprendere la carica rivoluzionaria di questa donna, dal carattere vivo all’età di novant’anni. Parlare
di lei significa parlare di una generazione, composta da una minoranza di documentaristi che si sono
opposti alla produzione dominante degli anni sessanta, che hanno deciso si rialzarsi dai propri sbagli
commessi durante il fasciamo, quando erano ancora giovanissimi, e aprire una finestra che si affaccia
sulle realtà dell’Italia, puntando il riflettore sulle eccezioni, che partono da un mondo contadino ormai
estinto, sino ad affrontare le grandi tematiche di attualità da denunciare: il lavoro nelle fabbriche, il
consumo di massa dei beni, il boom economico. Il nome della regista emerge attraverso queste
ricerche e per un attimo ci si sofferma a pensare: è un nome femminile, laddove altri nomi femminili
nel cinema italiano non sono mai stati pronunciati, poiché si tratta della prima donna che ha il
coraggio di mettersi dietro la macchina da presa, nel 1958. Tutto questo non accade per caso: avviene
per la sua straordinaria passione, per la sua voglia di ribellarsi, per la sua ricerca di libertà, tanto che
afferma:
«Se mi si chiede cosa sono, io rispondo “sono una documentarista”. Anche se da anni non si girano più documentari, per
sempre si resta documentaristi…è vero, ho privilegiato una visione documentaria della realtà, a partire dalle stesse
condizioni materiali e produttive del documentario, dalla libertà espressiva che gli è connaturata. Sono convinta che il
documentarista è assai più libero del regista di film di finzione, ed è per questo, per la mia indole libertaria con cui convivo
fin da bambina, che ho voluto essere una documentarista. Il documentario è il modo più libero di fare cinema
1
»
La quantità di materiali raccolti negli anni e il tempo dedicato allo studio di questa persona
hanno fatto nascere dentro di me il desiderio e l’interesse che mi hanno indotto a dedicare un lavoro
di tesi espressamente su di lei, a partire dal documentario biografico, tentando di affrontare molteplici
argomenti che, per ragioni di tempo, sono stati omessi dall’ultimo documentario che la riguarda, al
fine di restituire una visione completa e approfondita sulla figura di Cecilia Mangini.
1
C. Domini, P. Pisanelli, Cecilia Mangini. Visioni e passioni. Fotografie 1952-1965, Errata corrige, 2017
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Capitolo primo: Il contesto storico
1.1 Cecilia Mangini
Cecilia nasce a Mola di Bari il 31 luglio del 1927, da padre meridionale e madre della piccola nobiltà
toscana. A sei anni, nel 1933, si trasferisce con la famiglia in Toscana per cercare fortuna, vista la
crisi del Sud Italia che si aggrava dal 1929; cambiare casa e amici in giovane età significa per la
regista perdere le poche certezze che si era costruita in Puglia, e approcciarsi ad un mondo
completamente nuovo ed estraneo al Sud: la sicurezza perduta le verrà restituita in buona parte dalle
istituzioni e dal fascismo, in quanto l’iscrizione alla scuola “Adelaide Cairoli” significa guadagnarsi
la tessera del Partito Nazionale Fascista, giurare fedeltà e promettere di difendere il regime. La
Mangini si ritrova in poco tempo occupata nelle molteplici attività che il Fascismo organizza per i
ragazzi, dalle marce in divisa al ricevimento degli ambasciatori: la giovane viene travolta da
un’atmosfera in cui tutti si sentono gratificati da un compito immenso, quello di proteggere e
combattere per la patria, di conseguenza molti della sua generazione si sentono innocenti anche di
fronte all’inizio della guerra. Sarà il conflitto a mettere in dubbio i valori fascisti dal momento in cui
la regista ricorda la vita in quegli anni a Firenze, dato che il benessere viene presto sostituito dalla
mancanza di acqua e di elettricità: sente in prima persona le tragedie avvenute alle sue compagne di
classe, i cui genitori sono stati fucilati dai partigiani, che lei ricorda semplicemente come «ragazzi
con i fazzoletti rossi su camicie rattoppate
2
». La sua generazione, allevata al culto del fascismo,
manipolata dai mezzi di propaganda quali il cinema, la radio, la stampa e i cui genitori avevano
preferito il silenzio e l’accondiscendenza alla ribellione, si ritrova alla fine della guerra
completamente svuotata di valori e con un passato da cancellare: è da questa esperienza che la regista
rinasce grazie ad una nuova coscienza, che la porta ad una visione del mondo completamente
contrapposta alla precedente. La sua intera esistenza, sia cinematografica che umana, consiste nel non
ricadere nelle false promesse dei regimi totalitari o dei governi che in qualsiasi modo privino della
libertà e dei diritti le persone. Questo percorso interiore è avvenuto soprattutto grazie al cinema.
2
Vannini Andrea, Grasso Mirko, Firenze, il cinema, la libertà, Conversazione con Cecilia Mangini, in Firenze di
Pratolini, editore Kurumuny, collana Fotogrammi, 2007, p. 30