6
Alla scoperta dell'alterità: l'immigrazione nel ventunesimo secolo
L’alterità e i suoi esiti antropologici
«Non possiamo vivere in un mondo a compartimenti. L‟altro diviene un problema proprio perché
invade la mia vita ed è irriducibile al mio modo di vedere. Se un estremo è pensare che noi siamo
nel giusto e gli altri in errore, l‟altro estremo è ritenere che siamo tutti adatti per un tipo di
villaggio globale».
1
(R. Pannikar, Pluralismo e interculturalità)
Quello dell‟alterità è uno dei temi peculiari della ricerca antropologica: ritroviamo,
infatti, l‟esperienza dell‟altro e l‟interesse per la varietà culturale in diverse civiltà
e periodi storici, in cui l‟uomo ha indagato, a seconda dei tempi, sulle varie forme
in cui la diversità culturale si presentava.
In Affergan F. ritroviamo la seguente ripartizione, nella quale l‟antropologo
individua sei periodi da intendere come altrettante esperienze di appropriazione
dell‟alterità: il periodo antico, quasi esclusivamente quello greco; il Medioevo con
i viaggi di Marco Polo; l'ultima parte del XV secolo e tutto il XVI secolo con i
resoconti delle scoperte, in particolare quelle relative al continente americano; il
XVII secolo; il secolo dei Lumi ed infine il periodo che va dal XIX al XX secolo,
con gli esiti antropologici a cui giunge Levi-Strauss. Tuttavia, in questo contesto,
due risultano essere le tranche storiche meritevoli di interesse: l'età moderna, in
quanto scopre in modo brusco l'estremo altro e il diciannovesimo e il ventesimo
secolo, in cui si tenterà di erigere a scienza della diversità ciò che era stato
percepito e vissuto a contatto con l'alterità. (Affergan, F., 1987, p.8-9). Nel
Rinascimento l‟incontro con gli indiani d‟America ribalta la tradizionale visione
della realtà dell‟uomo moderno. Ciò dipese soprattutto dal fatto che si era sempre
negata l'esistenza del continente americano e la sua scoperta fu dunque un'autentica
1
PANNIKAR RAYMON, Pluralismo e interculturalità, a cura di Jaka Book, 2009
7
sorpresa. Gli abitanti del Nuovo Mondo appaiono come portatori di una cultura
completamente altra, separata, dai costumi e dalle credenze autonomi, in apparenza
al riparo da possibili contaminazioni. Oltre a collocarsi all'origine dell'età moderna
della nostra civiltà, la scoperta dell‟America comportò, infatti, il formidabile
incontro con la molteplicità, impegnando poi nei secoli successivi il pensiero
occidentale in un lavorio tematico e teorico che lo ha portato diritto ad indagare se
stesso. Questa incredibile esperienza fu lo stimolo evidente di tutte quelle forme di
pensiero che tematizzarono poi l'incontro con l'altro.
All'origine dell'incontro dell'uomo moderno con l'alterità più radicale e
dell'esperienza rinascimentale della diversità, il pensiero antropologico ha
individuato cause di varia natura. Il colonialismo, la ricerca di nuove rotte
commerciali e l‟espandersi del mercato economico mondiale spingono l‟uomo
rinascimentale ad oltrepassare i confini del mondo da lui fino ad allora conosciuto.
Non solo. Oltre a motivazioni di carattere storico ed economico, si individua
all‟origine della scoperta del Nuovo Mondo anche uno spasmodico bisogno di
conoscere, vedere e osservare direttamente l'altro nella sua presenza istantanea e
nella sua irriducibile peculiarità. Il Rinascimento è l'epoca in cui questo
atteggiamento si impone nella maniera più vistosa. L'io rinascimentale vede,
guarda, osserva e scruta l'altro, soffermandosi, impressionato, sulla sue
caratterizzazioni e sui suoi comportamenti, così estranei rispetto al proprio punto di
vista di osservatore. L'io è così attratto dai colori esotici, da nudità attraenti o
repellenti, da comportamenti assurdi e stravaganti, da volti dipinti o mascherati, e
non solo. Vi è anche un incrocio di sguardi e di sentimenti. Nell'esperienza
rinascimentale dell'alterità vi è, infatti, anche lo sguardo dell'altro sull'io: anche
l'altro vede, osserva una radicale alterità, classificandosi,dunque, sia come oggetto
che come soggetto. Due risultano essere i valori fondamentali in base ai quali
vengono classificati gli altri nell'epoca della grandi scoperte geografiche: il remoto
e lo straordinario. Entrambi, a loro volta, faranno classificare il diverso come
esotico, in quanto proveniente da un altrove ignoto per definizione e del quale si
ignora a priori l'essenza e la reale provenienza. Questa dualità di valori la si
8
ritroverà nel corso della storia dell'età moderna: le reazioni dei viaggiatori, di
spavento e/o di attrazione dipenderanno sempre da questa duplice visione del
diverso. Di conseguenza i racconti relativi alle scoperte, fino a Colombo,
evidenzieranno sempre una binarietà oppositiva, di rifiuto o di sfrenata curiosità.
L‟esame storico dell‟incontro-scontro dell‟uomo europeo con il diverso viene
condotto a partire da un punto di vista ben preciso, quello dei vincitori, cioè di
coloro che conquistarono e dominarono con un atteggiamento aggressivo ed
imperialista. Fin dalle percezioni dei grandi viaggiatori, infatti, l'altro è stato
percepito dalla cultura occidentale secondo modalità fortemente etnocentriche,
attraverso cui i conquistadores spagnoli e portoghesi, giustificano la loro azione, di
esplorazione, prima e invasione, conquista, colonizzazione e distruzione dopo.
Fin dai tempi più antichi si individua la tendenza da parte dell‟uomo a dipingere
come estraneo, straordinario e inconoscibile, ciò di cui non aveva conoscenza,
ossia l‟ignoto. Nel I sec d.c., ad esempio, circolavano fantasie popolari
sull‟esistenza di un mondo degli Antipodi e sui cosiddetti uomini nuovi: uomini
senza testa, con occhi e bocca sul petto, deambulanti sulle braccia come riporta
Plinio il Vecchio(Plinio il Vecchio,77 d.c.). A partire dai primi anni della
Conquista spagnola, si affermeranno poi, atteggiamenti di rifiuto e di
misconoscimento dell‟essenza umana di quelli che Colombo chiamò erroneamente
indios, convinto di essere approdato nelle Indie. Proprio l‟esperienza di Colombo
introdurrà la denominazione di selvaggio, che pian piano prenderà piede e sarà
divulgata dallo stesso navigatore e dai suoi collaboratori, affermandosi poi come
convinzione generale. L‟immagine delineata e descritta dell‟americano è quella di
un essere bestiale, rozzo, incivile. Selvaggio è sinonimo di abitante delle selve e in
questo senso l‟uso di tale denominazione simboleggia l‟assimilazione degli indios
ad uno stato di natura, negando, così, loro, la possibilità di essere portatori di una
caratterizzante cultura. Di contro gli europei sostenevano la propria superiorità
aggrappandosi ai seguenti argomenti: la professione dell‟unica vera fede, il
possesso di armi da fuoco, navi e vestiti, la barba, il riconoscimento del valore
dell‟oro, il padroneggiare lingue complete. Tutti questi argomenti emergono da
9
quell‟attenta analisi del viaggio di Colombo che ci propone Tzvetan Todorov,
filosofo e saggista bulgaro. Analizzando il viaggio del navigatore genovese da un
punto di vista antropologico, prima che storico, egli esamina i suoi scritti (diari,
lettere, rapporti) per comprendere le idee che questo partorisce sugli indiani
durante i primissimi incontri. L‟atteggiamento di Colombo, ciò che egli nota degli
indigeni, il suo stesso modo di osservarli sono dati altrettanto indicativi di una
esperienza della differenza ma anche del non riconoscimento.
«Colombo parla degli uomini che vede solo perché dopo tutto fanno parte
anch‟essi del paesaggio»
2
. Comprendiamo, dunque, come alla base dell‟incontro-
scontro dell‟uomo bianco con i nativi americani, ci fosse, ed anche in maniera
piuttosto radicata, l‟idea dell‟inferiorità degli Indios. Sorgono perplessità sulla loro
effettiva umanità, nonché dubbi sulla presenza in loro di sentimenti, capacità
intellettive e morali simili a quelle dell‟uomo europeo. Proprio su questo tema
scoppierà nel 1550 una polemica, passata alla storia come Controversia di
Vallaloid, in cui si scontrarono il domenicano Las Casas e l‟umanista spagnolo
Sepulveda. Il primo si cimenta in un‟appassionata difesa dei nativi, in virtù della
loro semplicità, purezza, docilità, candore ed innata fiducia nel prossimo,
catalogandoli, inoltre, come esempio di un‟originaria umanità, non ancora
contaminata dalle brutture della storia e per questo vicini a Dio. Sepulveda, invece,
si cimenta in una dura requisitoria, in cui mette a confronto, rimarcandole, le
differenze tra i due popoli, europei da un lato, indios dall‟altro, fino a definire
quest‟ultimi omuncoli e a giustificare lo sterminio compiuto a loro discapito, in
nome della fede e della loro inciviltà. Sepulveda aggiunge che gli indigeni sono
inferiori per natura perché praticano il cannibalismo, i sacrifici umani e ignorano la
religione cristiana, quindi gli spagnoli hanno il diritto, anzi il dovere, di imporre
loro ciò che è bene, senza preoccuparsi del loro punto di vista. Al contrario, Las
Casas difende gli indigeni, dichiarando che il sacrificio umano è la forma più alta
di devozione perché si dà alla divinità ciò che di più caro si possiede. Egli non si
pronuncia mai né contro la sottomissione né contro la colonizzazione, ma dice che
2
TZVETAN TODOROV, La conquista dell’America. I problema dell’altro, a cura di Einaudi, 1984.
10
entrambe devono essere gestite diversamente, tramite un'azione pacifica,
sostituendo i religiosi ai soldati. Di fronte al pensiero dei due intellettuali, appena
espresso, saremmo indotti a definire razzista Sepulveda, mentre più tollerante e
conciliabile Las Casas. Tuttavia, come ci suggerisce lo stesso Todorov (Todorov,
1984)entrambi non accettano l‟altro, il diverso, mostrandosi indisponibili al
riconoscimento della diversità e ciò risulta più marcato proprio nell‟ideologia
espressa dal domenicano Las Casas. Infatti mentre Sepulveda, pur con tutto il suo
odio e la sua avversione per gli indios, dimostra per lo meno di percepire la loro
diversità, Las Casas mostra indisponibilità ad accoglierli nella loro libertà ed
originalità culturale. Possiamo dunque ritenere che entrambi gli autori rifiutano
l‟accettazione dell‟altro in quanto tale, senza porre gerarchie o demonizzazioni.
In nome dell‟inferiorità e della diversità, le civiltà precolombiane furono
completamente distrutte dalla Conquista, una distruzione compiuta attraverso l‟uso
sfrenato e diretto della violenza.
Il primo pensatore che mostra di accettare l‟ottica della diversità culturale è il
filosofo francese Montaigne, il quale ribadirà il principio della grande variabilità
dei comportamenti umani: misurare i costumi altrui sulla base dei nostri e ridurre a
barbaro tutto ciò che è lontano dal nostro modo di vivere significa ignorare tale
principio fondamentale. Nella riflessione di Montaigne, a fronte di una critica
serrata della civiltà europea, il Nuovo Mondo diventa il paradigma di un‟umanità
diversa e nella quale forse si può ancora sperare. Con le idee di Montagne, il
dibattito sul selvaggio si allontana dalla pura e semplice condanna dei primi
decenni del XVI secolo, per cambiare poi completamente rotta con l‟affermarsi
dell‟ideologia illuminista. Con essa il selvaggio diviene modello di purezza e
semplicità, inserito nella primitiva dimensione degli albori della storia
dell‟umanità, possibile iniziatore di un processo di rinnovamento del mondo.
Significativo in questo senso, anche il pensiero di Rousseau, Voltaire, Diderot: il
selvaggio non viene non più catalogato come l‟uomo allo stato di natura, dalla
spiccata ferinità, ma inserito all‟interno di una società in equilibrio tra la stupidità
dei bruti e la ragione illuminata dell‟uomo civile, tra natura e cultura, divenendo
11
cosi espediente culturale per condurre una critica della società presente e per
fondare un progetto di rinnovamento della stessa.
Per giungere al pieno smantellamento dell‟ideologia entnocentrica dobbiamo,
dunque, attendere l‟affermarsi e il conseguente sviluppo delle idee
dell‟Illuminismo francese, che saranno ulteriormente approfondite, nel corso del
Novecento, dal grande entnologo e antropologo francese Claude Levi-Strauss.
Ammiratore della dialettica illuminista, passa alla storia come l‟iniziatore della
corrente strutturalista, che aprirà la nostra scienza verso una prospettiva
universalista. «Levi-Strauss considera la cultura come sistema di codici integrati in
cui i simboli sono il prodotto della mente umana, in accordo con la sua
convinzione che la struttura sia una dimensione archetipa e inconscia e dunque
universale»
3
. Sostenendo che la mente umana ha sempre la stessa struttura e
funziona secondo proprietà logiche universali, l‟antropologo francese individua nel
significato di cultura, la realizzazione di processi cognitivi universali, che si
manifestano attraverso sistemi di segni. (Resta P., 2006, p.32). Tuttavia, il
contributo per noi più prezioso da lui fornitoci, consiste nell‟aver demitizzato
proprio l‟idea della superiorità della civiltà occidentale moderna, al di sopra di tutte
le altre in quanto espressione dello stadio più progredito del cammino
dell‟umanità, partendo dalla dimostrazione dell‟inesistenza di un progresso
qualitativo della stessa nel corso della storia.
Entriamo nello specifico. Parevano indiscutibili alcuni pregiudizi ereditati dai
secoli XVI e XIX: l‟idea della superiorità della società tecnologica moderna contro
quelle non basate sullo sfruttamento intensivo della natura e il mito di un
progressivo progresso dell‟umanità, determinato dallo scorrere del tempo. Si
immaginava l‟uomo scalare una montagna, lungo un percorso in salita, e
consegnare man mano la fiaccola del progresso ad un successore. Da feroce e
illetterata, così, l‟umanità sarebbe cresciuta lentamente nutrendosi di cultura e
civiltà. Non tutti gli uomini sarebbero, però, riusciti a tenere il passo con questo
processo in ascesa, cosicché percorrendo a ritroso la montagna del progresso si
3
RESTA PATRIZIA. Elementi di antropologia culturale, Edizioni del Rosone, Foggia, 2006 , p.31.
12
incontrano gruppi di uomini sparsi, alcuni più evoluti, altri meno, quest‟ultimi
esseri inferiori, lontani dalla civiltà tecnologica. (Levi-Strauss C., 1970)Immagini
mitiche, che nel corso del Novecento perderanno di credibilità. Levi-Strauss pur
sostenendo la dialettica dell‟Illuminismo in quanto struttura fondante della civiltà
tecnologica, ha dimostrato nelle sue spedizioni sul campo e poi nei suoi libri,
l‟inconsistenza teorica dell‟etnocentrismo. Il merito dell‟antropologo sta nell‟aver
intuito che non è possibile giudicare una civiltà diversa dalla nostra facendo
riferimento ai nostri criteri in quanto essa è sorta e si regge su criteri diversi. (Levi-
Strauss, C., 1967. p 9-16)«L‟Occidente, signore della macchine, ha conoscenze
molto elementari sull‟utilizzazione e sulle risorse di quella macchina suprema che
è il corpo umano. In questo campo, invece, come in quello connesso dei rapporti
fra fisico e morale, l‟Oriente e l‟Estremo Oriente lo hanno anticipato di parecchi
millenni; hanno prodotto quella vaste summae teoriche e pratiche che sono lo yoga
dell‟India, le tecniche del respiro cinesi o la ginnastica viscerale degli antichi
Maori».
4
Pare che di fronte al principio della diversità delle culture, l‟evoluzione
sociale e lo sviluppo tecnologico, perpetrati dall‟Occidente, abbiano cercato di
negare l‟evidenza, diffondendo la credenza secondo la quale le varie civiltà non
sarebbero altro che stadi o tappe di un unico svolgimento destinato a converge in
un punto determinato.
Quello della diversità culturale è un problema assai complesso in quanto ci spinge
a riflettere sulla possibilità di costituire o meno per l‟uomo, un vantaggio o un
inconveniente. Quando analizziamo i fatti culturali e dunque lingue, tecniche,
istituzioni sociali, arte, religione, siamo stimolati a chiederci se le società, tenuto
conto dei mutui rapporti reciproci, possano raggiungere un grado massimo di
diversità al di là del quale non potrebbero spingersi e allo stesso tempo rimanere
senza pericolo. La diversità culturale, dipende, infatti, da svariati fattori: gli uomini
sviluppano strutture e ideologia differenti in quanto lontani geograficamente, in
base alle proprietà degli ambienti in cui sono inseriti e in relazione all‟ignoranza
4
CLAUDE LEVI-STRAUSS, Primitivi e civlizzati. Conversazioni con Gorge Charbonnier, Milano, a cura di
Rusconi, 1970.