Introduzione
Georges Méliès è stato il primo a concepire e a utilizzare il cinema come luogo
dell'immaginazione, il primo a concepire un mondo immaginario o di ricostruzione
storica, senza interessarsi minimamente a qualsiasi principio di verosimiglianza.
Come scrive Laurent Mannoni, Méliès “è stato il simbolo più lampante dell'incontro
tra la magia e il cinema, il maestro assoluto delle fantasmagorie filmiche”
1
. Il corpus
delle opere di Méliès, in larga parte distrutto, è stato spesso citato, più o meno
consapevolmente, da tutta una serie di autori che su questa falsariga hanno fondato il
loro universo e il loro stile. Ma è solo negli ultimi anni che, per ragioni che
concernono da una parte i mutati contesti di distribuzione e fruizione della Settima
Arte, dall'altra le moderne tecnologie di restauro, l'opera dell'illusionista di Montreuil
ritorna in qualche modo centrale, e con essa tutta una concezione di cinema come
artificio, artigianalità, stupore, decostruzione. Una rinascita che è al contempo
materiale e immateriale, riconoscimento postumo dell'artista e introiezione delle sue
innovazioni nel quotidiano, nel digitale, nel web.
Inizialmente si cercherà di analizzare l'opera di Méliès, non solo (o non tanto), dal
punto di vista biografico, data la quantità di inchiostro già spesa per narrare, in modo
più o meno attendibile, quella che è stata una vita incredibile. Si cercherà di
analizzare il suo stile e la sua poetica, cercando di inserire la sua esperienza nel
contesto storico-artistico dell'epoca.
L'immaginario di Méliès ha infatti specificità molto forti, che si legano a tre aspetti
del suo passato, nonché della storia dello spettacolo del XIX sec.: l'arte magica, il
teatro, il disegno. Méliès, non a caso, operava in tutti questi settori, e la sua forma
mentis caratterizzò la sua opera cinematografica sia in senso restrittivo
(corrispondenza di tempo dell'azione e tempo del racconto, punto di vista fisso) sia in
senso innovativo (usare l'apparecchio cinematografico, e in particolare lo strumento
del montaggio, come creatore di immaginari, decostruttore della realtà). Tutti gli
autori e artisti che da queste basi costruiranno le loro opere non potranno a loro volta
essere dissociati da queste tre arti, se così le si vuole chiamare, arti che, in netto
1
Mannoni L., Méliès. Magie et cinéma, in Malthête J., Mannoni L. (a cura di), Méliès, magie et
cinéma, Parigi, éd. Paris-Musées, 2002, p. 12.
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declino nel ventesimo secolo, penetreranno nell'arte cinematografica, depositandosi
stabilmente ai margini della scena.
La seconda parte della dissertazione verterà, invece, sull'eredità materiale dell'opera
di Méliès. Si tratta di un'eredità frammentata, il frutto di innumerevoli sventure: tra
tutte, il celebre rogo con cui l'artista diede alle fiamme tutte le sue pellicole (gli
storici stimano circa 500 negativi), netta rottura col passato e con un pubblico che gli
aveva voltato le spalle. Quella che è considerata dai restauratori cinematografici una
delle vicende più sciagurate della storia della conservazione filmica, ha fatto sì che
per più di un secolo la ricostruzione della filmografia mélièsiana costituisse un rebus
inestricabile. Benché spesso si dica che nulla nel cinema venga mai distrutto, nel
caso di Méliès molte opere, magari dall'alto valore artistico, sono andate
irrimediabilmente perdute. Molte sono, comunque, le fonti a cui ispirarsi per avere
indizi importanti: disegni, foto di scena, ritratti, fotogrammi singoli, apparecchi
magici, costumi, accessori, manoscritti, cataloghi, locandine, programmi, macchine o
accessori cinematografici. Il recupero e il restauro dell'opera del maestro di
Montreuil è indubbiamente un lavoro stimolante e sterminato.
Il recente ritrovamento e restauro di una copia a colori, della cui esistenza non si
avevano nemmeno notizie certe, di quello che è considerato (a ragione) il suo
capolavoro, il Voyage dans la lune, introduce però nuove problematiche in questo
discorso. Se è vero infatti che il restauro è sempre una reinterpretazione, questo è
ancor più vero nel caso di Méliès, dove l'assenza o la mancanza di fonti spingono
spesso i restauratori a compiere operazioni talvolta acrobatiche per eliminare le
lacune del film, cercando al contempo di comprendere la strategia di messinscena
dell'autore.
Si potrebbe, parafrasando il noto saggio di Walter Benjamin, parlare quindi non tanto
di opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica, ma di opera d'arte nell'epoca
della reinterpretazione tecnica: di come, cioè, problemi oggettivi, cambiamenti
tecnologici e mutamenti del contesto produttivo e distributivo possano dare sì nuova
vita ai capolavori del passato, ma una nuova vita artificiale, tutta tesa tra uno sforzo
di fedeltà assoluta a un originale (il quale riconquista d'improvviso l'aura che aveva
perduto) e una ricontestualizzazione nell'ambito dei mezzi di diffusione informatici e
digitali.
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Nell'ultima parte, infine, si dimostrerà come le intuizioni, spesso istintive e guidate
forse da una pura follia, del Nostro abbiano appunto dato vita a un filone
cinematografico che, più o meno sotterraneo, è sempre esistito nell'arte
cinematografica, intersecandosi spesso con nuove influenze e nuovi media.
I film di Méliès brillavano particolarmente per la loro fantasia dinamica, per la loro
immaginazione incoercibile, per la loro gioia irresistibile. La sua cosmogonia era
fatta di effetti speciali, diavolerie, trompe-l'oeil, illusioni, fiamme, vapori, complesse
macchinerie teatrali. Quello che lo distingueva, però, dai suoi colleghi illusionisti
non era solo l'intuizione, geniale, di usare il neonato medium cinematografico per i
suoi scopi, ma anche – e questo è un aspetto spesso trascurato dagli storici del
cinema – la sua poetica, i suoi mondi audaci, personali, misteriosi, così lontani da
quello che era il cinema di allora, ma che al contempo solo tramite il medium
cinematografico potevano esistere, prendere forma, animarsi. Il rapporto tra filmico e
profilmico è ridiscusso, lo statuto stesso dell'immagine è messo in discussione, con
ripercussioni d'importanza capitale sulla percezione degli spettatori, sia a livello
artistico che a livello ontologico in senso lato. E nella decostruzione di tale
immagine-verità non solo c'è una rivoluzione a livello percettivo, ma anche una
critica sociale spesso non banale. All'anarchia (e l'autarchia) formale corrisponde
quindi un'anarchia sociale, essendo entrambe le posizioni tese a decostruire e a
mettere in discussione la realtà “istituzionale” esperita. Il meraviglioso tende a
questo, e in tale messa in discussione trova la propria ragion d'essere. Ogni
fantastico, come scrive Adonis Kyrou, non è meraviglioso. “Il fantastico senza
meraviglioso”, prosegue lo studioso, “lo lascio volentieri ai curati, a Cocteau e alle
riviste del grande spettacolo. Io non prendo gli ostensori per lanterne e non vado in
estasi davanti a ogni vampiro e ogni apparizione. (…) Il meraviglioso esplode per
terra. I maghi dei paesi selvaggi e gli alchimisti attingono al meraviglioso quando
distruggono (spesso senza volerlo) ogni idea di dio, di potere supremo, di forze
extraterrestri, di peccato”
2
. Non a caso Kyrou dedica a Méliès parole d'amore,
paragonando i suoi film alle poesie di Benjamin Péret e, soprattutto, ai quadri di
Henri Rousseau: “Come nelle più nelle tele del Doganiere Rousseau, una tenerezza,
un amore dell'umano fiorisce in mezzo a piante stilizzate e a apparizioni
fantastiche”
3
.
2
Kyrou A., Le Surréalisme au cinéma, Le terraine Vague, Paris, 1963, pp. 63-64. (corsivi nel testo).
3
Ivi, p. 70.
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Questo è il filo rosso che percorre tutta la storia del cinema e che parte, appunto, da
Georges Méliès. A lui, e a questa concezione della Settima Arte, devono molto registi
come Jean-Pierre Jeunet, Michel Hazanavicius, Tim Burton, George Lucas, Terry
Gilliam, Zbigniew Rybczyński.
Il cineasta che però, più di chiunque altro, ha saputo introiettare e reinterpretare la
lezione mélièsiana, conservandone lo spirito originario, è stato a mio parere Michel
Gondry, nei suoi film ma ancor più nei suoi video musicali. Tramite un'analisi
letteraria di un corpus di videoclip di Gondry si dimostrerà, infatti, come certe
tendenze (la ricerca di stupore a breve termine, la decostruzione della realtà,
l'esibizione del trucco, l'artigianalità, la centralità del montaggio) non solo siano
immutate dai tempi di Méliès, ma come anzi, esse vibrino e ridiventino centrali in
quella che forse è la deriva più postmoderna dell'arte cinematografica: il videoclip.
Riprendendo il concetto di modernità di Bauman, infatti, e in particolare il
postmoderno come essenza liquida che non si lascia arginare, possiamo dire che il
videoclip contiene, al suo interno, narrazione, marketing e arte d'avanguardia, ed è
persino multimediale, in quanto condiviso dalla tv e da internet. Questa concezione
onnivora e in un certo senso infantile dell'arte cinematografica, dove tutto nasce da
zero per crescere nutrendosi di qualsiasi stimolo con scopi eminentemente ludici, si
ricollega, con una vertigine temporale, proprio alla concezione mélièsiana della
Settima Arte, portando alla luce una connessione che potrebbe essere d'impulso
anche per futuri studi sulla materia.
Va precisato, sin da ora, che nella nostra trattazione non ci soffermeremo su tutte le
forme brevi digitali, ma quasi esclusivamente sul videoclip. Quello dei video
musicali è, infatti, un territorio che già di per sé si presenta come sconfinato: la
produzione massiccia e policentrica ne fa un oggetto assolutamente non
monitorabile, e refrattario a qualsiasi suddivisione in categorie, siano esse storiche o
tematiche (il che spiega anche una certa indifferenza da parte del mondo
accademico). Già, quindi, prima di individuare quanto di mélièsiano ci sia nel
videoclip bisogna cercare, nei limiti del possibile, di capire se sia corretto
approcciarsi ad esso come a un corpo unitario, al netto di tutte le variabili
tecnologiche, spaziali, temporali e di fruizione. Espandere questa ricerca alle a tutte
le altre forme brevi digitali (spot, banner, trailer, cortometraggi, videoarte) sarebbe
un lavoro sicuramente interessante ma altrettanto sicuramente di proporzioni
gigantesche. La videoarte, in particolare, mostra un forte debito nei confronti di
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Méliès, soprattutto nella sua componente neo-dada e surrealista (si pensi a Michel
Jaffrennou, a Nicolas Bériou, a Zbigniew Rybczynski), ma manca di quello spirito
mainstream che è che accomuna, come dimostreremo, Méliès e i video musicali. In
altre parole, lo scopo di questo confronto non è quello di dimostrare che certe
innovazioni stilistiche e poetiche siano sopravvissute e si siano sviluppate anche nei
sette decenni che separano il rogo di Montreuil dalla nascita di Mtv; ciò che conta è
capire perché esse siano ritornate in auge. Esse ritrovano il loro spazio, appunto,
principalmente in una forma espressiva come il videoclip, che pur rivolgendosi ad un
pubblico vasto e popolare permette di sperimentare soluzioni visive e testuali
innovative. L'importante è meravigliare lo spettatore, farlo presto, e farlo con ogni
mezzo necessario. Se tutto il cinema popolare deve rispondere ai desideri del
pubblico, nel caso del videoclip, più che in qualsiasi altra forma breve, tali desideri
sono molto simili a quelli che Méliès cercava di esaudire nei suoi spettacoli Robert
Houdin. Resta da dimostrare se siano simili anche i prodotti finali, e in che misura.
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1. L'opera di Georges Méliès
1.1 Cenni biografici
Nel 1923, viene inaugurato, a Parigi, il prolungamento del Boulevard Haussman. Per
Méliès non è un momento facile: il suo théâtre Robert-Houdin è stato demolito per
l'occasione. Rovinato, vinto dall'impossibilità di far fronte ai suoi debitori, non gli
resta che vendere la sua proprietà di Montreuil, e gli studioss, ormai abbandonati.
Prima di lasciare la proprietà, Méliès vuota una ad una le scatole accumulate nel
corso degli anni e manda al rogo tutti i suoi film: cinquecento negativi, in fiamme.
È una specie di suicidio artistico, o una protesta, se si preferisce (in tutti i suicidi,
d'altronde, è presente una componente di protesta). O ancora, una drammatica
ammissione di inadeguatezza al mondo circostante: si tratta di tre aspetti quasi
sinonimici, d'altronde. Mai, nella lunga casistica di artisti che distruggono le loro
creazioni, è stata raggiunta una tale radicalità, un tale taglio netto con il passato.
Tra tutti gli eventi storici che hanno pesantemente influenzato la storia del restauro
cinematografico, questa è probabilmente la più sfortunata in assoluto. Siamo nel
1923, e i 21 anni che separano questo gesto autodistruttivo dalla celebrità
internazionale ottenuta con il Voyage dans la lune sembrano un'era geologica. Tutto è
cambiato: i gusti del pubblico, la tecnica cinematografica, il linguaggio filmico, etc.
A tutto ciò si aggiunse, come vedremo, tutta una serie di disavventure che non hanno
assolutamente niente a che vedere con l'arte in senso stretto: Méliès era un
autarchico, per citare il film di Nanni Moretti, e le major cinematografiche che
stavano in quegli anni nascendo, al di qua e al di là dell'oceano, non esiteranno a
inghiottirlo e a irretirlo in una spirale di cinismo e di doppi giochi.
L'incendio delle pellicole ha quindi un valore non solo di taglio netto personale con il
passato, ma soprattutto di disprezzo per tutto quello che fu, per tutto quello che il
cinema diventerà: una gigantesca macchina di storie, una fabbrica di sogni, davanti
alla quale il povero Georges non potrà che arrendersi. La pista del disprezzo verso la
Settima Arte è d'altronde confermata dal fatto che, all'epoca, era estremamente
difficile che uno studio distruggesse le pellicole. Piuttosto, si cercava di rifonderle e
venderle per ricavarci qualche soldo. Le pellicole, fuse, diventavano allora tacchi,
scarpe, etc. Méliès sicuramente non avrebbe troppo apprezzato l'idea che la borghesia
parigina potesse camminare in scarpe derivate dai propri film, e, malgrado le
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opinioni politiche di Méliès non siano che accennate nelle sue opere, nel fuoco vi era
sicuramente un disprezzo implicito di un intero sistema economico, dello show-
business tout-court. E una certa dose di follia, evidentemente; come anche la
convinzione, evidentemente sbagliata, che nessuno si sarebbe più interessato dei suoi
film, che presto quelli che lo avevano acclamato e che erano accorsi in massa ai suoi
spettacoli non si sarebbero neanche ricordati del suo nome.
Si sbagliava, appunto: non solo le Università e gli Archivi faranno ciò che sarà in
loro potere per recuperare tutto il materiale che Méliès ha girato, scritto, disegnato,
dipinto, fotografato; ma – cosa ancor più importante – il suo stile e la sua poetica
influenzeranno e daranno il via al cosiddetto “genere Méliès”, da cui deriverà il
filone fantastico del cinema, e che influenzerà tutte le generazioni a venire (ancora
oggi, le sue opere non cessano di portare la propria ombra sulle nuove generazioni).
Gli storici tendono a separare il filone Méliès dal filone Lumière, identificando il
primo con la nascita del cinema di finzione, il secondo con la nascita del film
documentario. Citando Burch
4
, si può dite che tutta la storia del cinema sia tesa tra
un'affermazione della superficie (Méliès) e un'affermazione della profondità
(Lumière). In realtà, si tratta di una semplificazione critica: non è possibile lavorare
su Méliès prescindendo dai fratelli Lumière, come d'altro canto non è possibile
lavorare sui fratelli Lumière prescindendo da Méliès (illuminante, a questo proposito,
la polemica innescata da Jean Luc Godard
5
). Da ambo le parti, infatti, abbiamo
aspetti di continuità, e certe scelte stilistiche comuni non possono che testimoniare,
d'altronde, la circolazione delle loro idee dall'uno all'altro. Vediamo quindi come gli
ingegneri di Lyon, dopo un iniziale periodo proto-documentaristico, arrivino a
cercare nuovi stimoli proprio nei film di finzione; è vero, parimenti, che la
composizione del quadro e la visione frontale del cinema di Méliès sono aspetti
molto più vicini al teatro del diciannovesimo secolo che alla scrittura filmica che
nascerà nel ventesimo. In questo senso, quindi, le prospettive dinamiche dei Lumière
apriranno, molto più di quanto farà Méliès, le porte al cinema di finzione, e in
particolare a quello drammatico, genere che sarà dominante negli anni della Prima
Guerra Mondiale.
4
Cfr. Burch N., Porter ou l'ambivalence, in Bellour R. (a cura di), Le cinéma americain, Paris,
Flammarion, 1980.
5
Cfr. Godard J.L., Il cinema è il cinema, traduzione di Adriano Aprà, Garzanti, Milano, 1981.
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