tutta una serie di problemi legati agli aspetti organizzativi, istituzionali e
gestionali dei servizi che si occupano della risposta ai bisogni della persona e
come pertanto il tema dell’integrazione sia cruciale proprio per i servizi di
carattere socio-sanitario di cui intende occuparsi la presente tesi.
Alla radice della parola “integrazione”, troviamo l’aggettivo “integer”, vale a dire
“intero”. L’idea che sottostà alla necessità di uno sviluppo dell’integrazione socio-
sanitaria, infatti, è che a bisogni unitari della persona debbano corrispondere
risposte altrettanto unitarie ( Longo, 2000). Chi opera nei servizi è a conoscenza
che la progressiva differenziazione delle persone e dei gruppi sociali, unita agli
altrettanti meccanismi di specializzazione professionale, rendono molto
problematico il lavoro sociale tendente alla integrazione.
Il pluralismo dei soggetti implicati nella riforma dei servizi sociali conduce alla
necessaria ricerca di strategie di convergenza su obiettivi comuni, nonostante le
differenze di ruolo, funzioni, competenze degli enti pubblici e privati.
La seguente tesi si propone di analizzare il modello Veneto di integrazione socio
sanitaria partendo dalle motivazioni e dalle giustificazioni storico culturali che
hanno spinto alla sua adozione ed esaminando i punti di forza e le criticità che lo
stesso presenta nella situazione odierna, costruendo un quadro complessivo del
modello di gestione dei servizi socio sanitari alla persona.
La mia ricerca si prefigge di esplicare in maniera esauriente e quanto più
possibilmente completa le specificità e le caratteristiche del modello in questione.
La tesi si compone di una introduzione all’ argomento, nella quale verranno
esposti i concetti di integrazione socio-sanitaria e di servizi alla persona; di tre
capitoli strutturati nella seguente modalità: il primo, intitolato “l’ evoluzione
storica del modello di integrazione socio sanitaria”, si compone di tre paragrafi
che definiscono rispettivamente le origini politico-culturali del modello Veneto e
le motivazioni che hanno spinto il Veneto alla sua adozione, il percorso storico
delle normative di riferimento, la gestione integrata dei servizi alla persona. Il
secondo capitolo, “il modello attuale” è costituito da cinque paragrafi che trattano
rispettivamente del modello regionale in vigore, dei soggetti coinvolti e degli
strumenti utilizzati, dei processi di integrazione socio sanitaria, dei modelli di
gestione alternativi a quello Veneto ( in particolare il modello Lombardo), della
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discrezionalità gestionale di un Comune Veneto tipo . Il terzo capitolo esamina il
caso dell’ AULSS 9 di Treviso, in quanto oggetto di una ricerca che mi vede
coinvolto attivamente; è strutturata nella seguente maniera: il primo paragrafo
analizza la struttura ed i processi del piano di zona dell’ azienda U.L.S.S. n.9, il
secondo definisce le aree di intervento in cui opera l’ azienda trevigiana, il terzo
riporta la ripartizione dei costi per l’ erogazione dei servizi socio-sanitari e l’
ultimo espone i punti di forza e le criticità del caso in oggetto.
L’ esigua entità di materiale letterario esistente riguardo la materia che si andrà ad
analizzare, ed in particolare circa le condizioni e le motivazioni storiche che
hanno spinto il Veneto verso l’ adozione dello specifico processo di integrazione
socio-sanitaria di servizi alla persona, ha reso necessaria un integrazione delle
produzioni letterarie con la memoria storica del territorio di riferimento. Una
ricerca di questo tipo condotta senza raccogliere le testimonianze di chi ha
concretamente vissuto questo processo storico risultava essere quanto meno
lacunosa.
L’ attestazione offerta dagli intervistati M. Frattin , ex dirigente della AULSS 8,
da C. Scapin, direttore dei Servizi Sociali AULSS 15 e B. Pigozzo Presidente
Conferenza dei Sindaci del territorio Ulss n° 13 del Veneto e Sindaco del comune
di Salzano risultano dunque essere fonti necessarie e fondamentali per introdurre
una completa e coerente analisi sull’ argomento in parola.
Grazie a tale risorsa si avrà la possibilità di affrontare, con diversi punti di vista,
tematiche ed argomenti poco trattati dagli “addetti ai lavori” nelle rispettive
analisi sul tema.
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CAPITOLO 1
L’ EVOLUZIONE STORICA DEL MODELLO
1.1 Le origini politico-culturali del modello
E’ utile, al fine di una adeguata e completa analisi del fenomeno, considerarlo sia
dal punto di vista del contesto storico-evolutivo che da quello più prettamente
tecnico.
1.1.1 L’evoluzione concettuale del ruolo dei fruitori dei servizi
Nel percorso storico evolutosi dal 1950 a fine secolo scorso, si possono
individuare tre tappe che possono essere assunte come paradigmi del modo di
intendere i destinatari dei “professionisti dell’ aiuto sociale” ed il loro contesto.
Di seguito si procederà alla descrizione delle tappe sopra citate.
Prima tappa: il Cittadino assistito
Gli anni ’50-’60 si distinguono per la fase della ricostruzione post-bellica,
caratterizzata da una forte accelerazione economica e del benessere connesso al
significativo sviluppo dei settori secondario e terziario. Prevale un sistema di
protezione sociale statale e parastatale, secondo un modello mutualistico-
assicurativo prevalentemente legato al lavoro, gli interventi assistenziali vengono
organizzati per categorie ben definite e da istituzioni che rispondono a
“specializzazioni monofunzionali”; si pensi, ad esempio, ai grandi enti nazionali
quali: Ente Nazionale Assistenza, Orfani sul Lavoro, Organismo Nazionale per gli
Orfani di Guerra, Ente Nazionale Sordomuti, Organizzazione Nazionale per la
Maternità e l’Infanzia ecc., ciascuno con i propri specifici
destinatari d’aiuto, i propri apparati, i propri pacchetti di prestazioni. Gli interventi
sono volti in prima istanza ad obiettivi assistenziali riparativi a carattere residuale.
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Non sono assenti, in questa fase, interessanti tentativi di “intervento di comunità”
volti alla promozione delle persone nei loro contesti comunitari, come, ad
esempio, le azioni promosse dai grandi enti di riforma (Ente Delta Padano, Ente
Maremma, Ente per la trasformazione Agraria e Fondiaria in Sardigne, Ente
Riforma Agraria in Sicilia ecc.).
Nel complesso, tuttavia, si potrebbero riferire a quell’ epoca servizi sociali e
assistenziali secondo il paradigma del cittadino assistito, in cui prevale
l’accentuazione sulle caratteristiche di deficit e problematicità individuale dei
soggetti “bisognosi di assistenza” (Gui, 2000), mentre il loro contesto ambientale
e comunitario rimane di sfondo, la normalità resta parametro del dover essere, il
disagio sociale rappresenta un residuo trattabile(con interventi di riabilitazione
mediante l’assistenza) o contenibile (con provvedimenti di reclusione mediante le
istituzioni totali). Fatta eccezione per le frontiere del servizio sociale più avanzate,
dunque, la comunità è ritenuta il substrato “naturale”, aproblematico e fonte di
risorse positive, su cui vanno ricollocati i soggetti a rischio di deriva sociale. La
tecnicità delle professioni d’aiuto si esprime nella funzione di “riadattamento” dei
soggetti deboli o devianti e di potenziamento della recettività comunitaria.
Seconda tappa: il Cittadino utente
Gli anni ’70-’80 sono riconoscibili come gli anni delle riforme sociali. Si
affermano le impostazioni d’aiuto sociale avverse alle istituzioni totali (riforma
del sistema penitenziario nel 1975, riforma psichiatrica nel 1978, ricerca di forme
alternative al ricovero in istituto dei minori nel 1983 ecc.) ed il decentramento
amministrativo e delle competenze assistenziali, assieme all’istituzione del
Servizio Sanitario Nazionale del 1978. Di quel periodo è l’affermazione dei
principi del welfare state universalistico, della pianificazione pubblica anche nel
settore delle politiche sociali, in una prospettiva di welfare “istituzionale”
(Titmuss, 1958) o “totale” (Mishra, 1977. Cesareo ,1981), secondo
un’impostazione “unicentrica” (Donati ,1993) della sicurezza sociale. Si
potrebbero riferire quei decenni al paradigma del cittadino utente ( Gui, 2000).
L’ente locale si afferma come il titolare pressoché egemone dell’erogazione di
servizi, in prima istanza non più secondo criteri di assistibilità per categorie di
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problemi ma secondo un criterio selettivo di appartenenza territoriale. Il
riconoscimento dei diritti di cittadinanza assistibile è dato dall’inclusione entro
“bacini d’utenza”sancita dall’iscrizione anagrafica comunale, cosicché il confine
geografico va a circoscrivere la competenza delle istituzionali locali ad occuparsi
dei “propri” utenti. “Territorio” è il nome assegnato comunemente allo spazio di
riconoscimento tra servizi e popolazione. “Il territorio –riferisce Franca Ferrario
in merito a quegli anni – appare alle professioni sociali come campo in cui diverse
componenti si incontrano e collaborano per obiettivi convergenti … non
nell’ottica di ricostruire o fondare appartenenze, ma nella prospettiva di attivare
forme diverse di partecipazione e rivendicazione” (Ferrario ,1987). Il servizio
sociale da settoriale si fa unitario, decentrato, integrato, “di base” (Ferrario ,1993).
In questa prospettiva, assunta in pieno dalla riforma sanitaria, l’Unità Sanitaria
Locale si propone come luogo privilegiato dell’integrazione socio-sanitaria,
secondo un modello organizzativo tendenziale (perché mai realizzato appieno in
molte parti del paese) articolato per “distretti”, come scomposizione geografica in
bacini d’utenza “ottimali” (circa 60.000 abitanti).
La competenza dei professionisti dell’aiuto, così, viene tradotta nella doppia
funzione di cambiamento sociale, nella direzione del decentramento capillare del
sistema istituzionale di welfare, e di erogazione universalistico-redistributiva di
risorse e servizi (Dal Pra Ponticelli ,1983).
Terza tappa: il Cittadino cliente
Dalla metà degli anni ’80 alla fine degli anni ’90 si sottolinea l’emersione della
società civile. E’ il periodo in cui si celebra la crisi del modello di welfare solo
pubblico (De Vita, Donati e Sgritta, 1994) e assumono crescente rilievo le
espressioni organizzate dei cittadini "privati". Sono del 1991 sia la prima legge
nazionale che riconosce e regolamenta il rapporto tra servizi e volontariato (l.266)
che la legge sulla cooperazione sociale (l.381) (Boccacin, 1993). Dagli anni ‘80
assumono crescente rilievo anche le esperienze di self-help nel campo
dell’alcolismo, dell’obesità, dell’assistenza a malati terminali ecc. (Noventa
,1990). Il riconoscimento della componente “immateriale” del benessere connessa
agli aspetti relazionali ed alla condivisione di senso nell’esperienza quotidiana,
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porta l’attenzione sui mondi vitali (Ardigò, 1980) e sulla capacità diffusa di
produrre benessere entro legami interpersonali significativi, emotivamente carichi,
informali e comunitari (Bulmer ,1987). Le politiche sociali assumono sempre più
diffusamente obiettivi di esternalizzazione dei servizi, all’insegna del principio di
economicità da un lato e di rispetto della libertà di scelta da parte dei cittadini
dall’altro (Merler, 2001).
La pluralizzazione dei soggetti fornitori di servizi sociali e sanitari, in un "quasi-
mercato" dei servizi, può evocare il paradigma del cittadino cliente (Gui, 2000).
Il cittadino si trova infatti, grazie alla concorrenza tra i soggetti fornitori dei
servizi, a scegliere liberamente tra più possibilità di offerta.
Gli operatori sociali si collocano sempre più spesso sia nel ruolo di fornitori
diretti di servizi, sia nel ruolo di orientatori per la selezione personalizzata di
servizi acquisibili della gamma differenziata di agenzie assistenziali: operatori
sociali broker o key worker a vantaggio del cittadino (Payne ,1995). In
quest’ultimo periodo, dunque, si va configurando una costruzione dei servizi
mista, il tanto citato welfare mix, tra soggetti richiedenti e soggetti agenti di aiuto,
nella quale non paiono rigidamente fissati né i bisogni esprimibili, né le
prestazioni erogabili, né, in fine, i soggetti-attori ed i loro ruoli.
Si impongono con maggior forza i temi della soggettività,
dell'autodeterminazione, della titolarità ed assunzione di iniziativa particolaristica,
della concertazione, della pianificazione territoriale. Si enfatizza la configurazione
“relazionale” della realtà sociale come continuo processo dinamico delle
interazioni fra soggetti diversi, abbandonando l’illusione di una realtà sociale
staticamente regolata o regolabile (Donati ,1993); se ne colgono la necessaria
integrazione tra sistemi e la prospettiva reticolare degli interventi sociali (Serra
,2001). Gli esiti degli interventi di servizio sociale, in tal senso, non sono
predefinibili con chiarezza, secondo una razionalità lineare, ma sono il frutto di
composizioni contingenti fra diversi soggetti sociali temporaneamente
convergenti su obiettivi di volta in volta negoziati.
In linea con quanto sinora accennato, si può facilmente cogliere come la legge
nazionale di riforma dell’assistenza, sin dalla sua titolazione utilizza la chiave di
lettura oggi prevalente nel descrivere il welfare: “sistema integrato di interventi e
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servizi”. Non pare assecondabile pertanto ogni affrettata archiviazione della 328,
se non altro per la sua funzione di recettore ed amplificatore di alcune delle
connotazioni di cui i servizi sociali italiani vanno celermente dotandosi, segnando
alcuni punti di non ritorno nella cultura assistenziale degli anni 2000.
1.1.2 Profilo tecnico: L’ evoluzione organizzativa
Di seguito ci si riferisce ad analisi condivise dalla maggioranza delle forze
politiche e sociali che si sono impegnate per l’ attuazione delle riforme.
Prima dell’ approvazione della legge 382, DPR 616 e della legge 833, il settore
sanitario era caratterizzato:
dalla frammentazione di competenze amministrative e sanitarie tra una
molteplicità di enti, diversi per natura giuridica, competenza e
categoria amministrativa, ambito territoriale. La tutela sanitaria divisa
per categorie professionali produceva oggettive sperequazioni tra le
stesse; gruppi di cittadini ne erano esclusi;
sotto il profilo economico la moltiplicazione dei centri di decisione e
di spesa, senza alcun coordinamento, generava sprechi, alimentando la
dispersione delle risorse.
Tutto ciò era favorito dall’ esistenza di un modello accentrato e settoriale della
sanità, con un Ministero della sanità e propri uffici periferici separati dalle altre
istituzioni sanitari, nonché dalla proliferazione legislativa in materia assicurativa e
mutualistica.
Lo sviluppo caotico, non programmato, della società italiana di questi ultimi
decenni ( il processo di industrializzazione che creava nuove situazioni di rischio
e nuove patologie; l’ urbanizzazione che con gli spostamenti rilevanti di
popolazione favoriva l’ insorgere di nuovi problemi per alcuni gruppi sociali, gli
anziani, i minori ecc.) ha accelerato la crisi del settore, mettendone in luce le
disfunzioni ed inadeguatezze.
La risposta-difesa che si è saputo e potuto dare è stata quella:
dell’ uso spesso indiscriminato e comunque eccedente il bisogno reale
di cura, della ospedalizzazione;
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