II
Comuni minori a svolgere una serie rilevante di funzioni, quanto
meno singolarmente, esso non può prescindere da una verifica delle
reali capacità organizzative degli enti rilevanti e della congruità delle
loro dimensioni territoriali alle funzioni affidate.
Il problema, pertanto, è quello della dimensione demografica ottimale
dei nostri Comuni, della sua correlazione con i principi di efficienza
ed efficacia dell’azione amministrativa e dell’accorpamento di quelli
più piccoli perché anch’essi possano essere messi in condizione di
rispondere alle sempre più pressanti esigenze dei cittadini: in altre
parole, le ragioni di una gestione razionale, economica ed efficiente
delle risorse, che in qualche modo si pone come condicio del
federalismo reale e non solo teorico, suggeriscono una spinta
all’aggregazione.
Allo stato attuale, dunque, l’esercizio congiunto ed integrato di
funzioni e servizi è divenuta la principale risposta al problema di dare
al governo locale delle dimensioni appropriate, in attuazione del
principio di adeguatezza previsto dall’art. 4, comma 3, lett. g), l. n. 59
del ’97 (vale a dire quel principio che richiede l’idoneità organizzativa
dell’amministrazione ricevente a garantire, anche in forma associata
con altri enti, l’esercizio delle funzioni conferite).
Alla luce di quanto detto, il ridisegno, l’irrobustimento e la diffusione
delle forme associative diventano imprescindibili, e la dimensione
numerica, l’ampiezza delle circoscrizioni territoriali, nonché la
struttura organizzativa delle amministrazioni locali, sollecitano, in
assenza di un radicale intervento sul numero di tali enti, lo sviluppo di
forme associative e l’istituzione di nuovi organismi sovracomunali.
Allo scopo di incentivare e stimolare il riordino territoriale di cui
sopra, venne inserita nella legge sulle autonomie locali (legge 8
giugno 1990, n. 142) una variegata gamma di strumenti: dalla
previsione di un programma regionale di modifica delle circoscrizioni
comunali e di fusione dei piccoli Comuni, al mantenimento di forme
di partecipazione e decentramento per le collettività dei piccoli
Comuni fusi; da contributi statali e regionali per favorire le fusioni,
III
alla previsione dell’Unione di Comuni, come nuova forma associativa
specificamente destinata a questo scopo.
L’esperienza attuativa di tali previsioni, tuttavia, è stata assolutamente
deludente, al punto che, se alla vigilia dell’approvazione della legge si
contavano 8.088 Comuni, ora se ne segnalano 8.103: con un numero
che, dunque, non solo non è diminuito, ma tende ad un lento e
costante aumento.
Le ragioni dell’insuccesso della politica di riordino territoriale del ’90,
ed in particolare di quella delle fusioni, si ricollegano soprattutto alla
forte resistenza delle collettività locali, chiuse nella difesa della loro
autonomia e delle proprie tradizioni di autogoverno: esse, infatti, si
sono opposte ed ancora si oppongono decisamente ad ogni proposta di
riduzione del numero dei Comuni, vedendo in tale scelta sia una
diminuzione di autonomia e di significative prerogative costituzionali,
sia un attacco alle loro tradizioni storiche.
Ora, nel quadro di risultati di questo tipo, si è avviato un dibattito che
ha posto in discussione dalle fondamenta i metodi, se non gli stessi
obiettivi, seguiti dalla legge n. 142, sino alla svolta segnata dalla l. n.
59 del ’97 (e, quindi, anche dal d.lg. n. 112 del ’98), dalla l. n. 265 del
’99 e dal d.lg. n. 267 del 2000, che hanno posto espressamente il
problema dell’adeguatezza degli enti destinatari delle nuove funzioni.
In particolare, a partire dal ’97, il legislatore nazionale ha preferito
seguire un indirizzo diverso rispetto a quello originario della l. n. 142:
pur non trascurando la possibilità di giungere ad una semplificazione
del reticolo del sistema di governo locale attraverso delle procedure di
fusione dei Comuni più piccoli (riordino strutturale), questi ha
preferito intraprendere la via di sviluppare le forme associative tra gli
enti locali territoriali, ed è passato, sostanzialmente, dalla politica
delle fusioni alla politica dell’associazionismo comunale (approccio
funzionale).
Così, la prospettiva di un diffuso movimento tendente
all’accorpamento dei piccoli Comuni in un lasso di tempo
relativamente breve sembra oramai essere stata abbandonata dallo
stesso legislatore, che ora pare piuttosto perseguire un migliore
IV
esercizio di funzioni e di compiti mediante forme associative
liberamente scelte dai Comuni: in particolare, questi ha dettato una
disciplina generale ed organica degli strumenti consensuali dell’azione
amministrativa, prevedendo una varietà di ipotesi tra loro distinte, in
modo da consentire agli enti locali di scegliere la forma di
collaborazione più appropriata al caso, in considerazione delle
caratteristiche intrinseche di ciascun istituto.
Spetterà poi all’autonoma determinazione dei Comuni scegliere tra le
cosiddette forme “forti” di aggregazione (quelle, cioè, che danno cita a
veri e propri enti di ambito intercomunale, quali sono le Unioni, le
Comunità montane e i consorzi) e gli strumenti più “snelli” per la
gestione associata (vale a dire quelli, come ad esempio le convenzioni,
grazie ai quali la cooperazione tra più Comuni si sviluppa mediante
forme collaborative simili a contratti, la cui stipulazione non dà luogo
né ad un nuovo soggetto istituzionale né a nuovi organi).
A prescindere dalla forma associativa utilizzata, comunque, merita
rilevare come attualmente la questione della revisione delle
circoscrizioni territoriali appaia oggi più che mai una questione
cruciale, rappresentando, essa, uno degli ostacoli più rilevanti ad una
efficace ed adeguata distribuzione delle funzioni amministrative sul
territorio.
Da quanto precede deriva l’interesse di trattare un tema così rilevante
come la frammentazione e l’inadeguatezza comunale, da un lato, ed i
processi associativi fra Comuni, dall’altro: nel presente lavoro si
cercherà, pertanto, di svolgere una motivata riflessione sul fenomeno
della collaborazione intercomunale, ed in particolare sulle singole
forme associative previste dal nostro legislatore e sulla necessità che i
Comuni, e più in generale tutti gli enti locali, si ispirino, in tutte le
loro possibili relazioni, ad un modello “cooperativo” e non più
gerarchico o piramidale, come erano tradizionalmente abituati.
Il presente lavoro si compone di quattro parti, ognuna delle quali si
articola in diverse sequenze che trattano temi specifici.
- La prima parte comprende i capitoli 1 e 2.
V
Dopo alcuni paragrafi necessari a definire le origini storico-legislative
dell’autonomia comunale, il primo capitolo è interamente dedicato
alle norme relative alle autonomie locali presenti nella Costituzione
repubblicana e alle leggi che, a partire dal 1990, hanno modificato
l’assetto e l’ordinamento dei nostri enti locali (in particolare, in questa
sezione, vengono analizzati i principali obiettivi ed i tratti salienti di
alcune delle leggi più importanti in materia di enti locali, vale a dire la
l. n. 142 del ‘90, la l. n. 59 del ’97, la l. n. 265 del ’99 ed il nuovo testo
unico del 2000).
L’obiettivo di questa analisi è essenzialmente quello di evidenziare
come nel nostro Paese, nel corso degli anni, l’autonomia e
l’indipendenza dei Comuni siano aumentati in modo esponenziale, e
come l’intento del legislatore, nazionale e regionale, sia stato quello
di accrescere gli spazi di autodeterminazione del livello di governo più
vicino ai cittadini, e cioè proprio dei Comuni, al fine di garantire a
detti enti l’esercizio di un numero di funzioni sempre più ampio.
L’obiettivo cui è orientato il capitolo 1 viene, inoltre, completato con
una serie di valutazioni sull’importanza del decentramento e
dell’autonomia comunale e con una analisi, anche terminologica, dei
due termini sopra citati.
Sempre al fine di evidenziare la portata del trasferimento, tuttora in
atto, di compiti e funzioni agli enti locali minori, il secondo capitolo
del presente lavoro tratta del principio di sussidiarietà (analizzandone
le origini storiche, la presenza e la diversa accezione in ambito
comunitario, nonché, per quanto attiene il nostro ordinamento statuale,
il suo recente inserimento nel testo di riforma della seconda parte della
Costituzione) e del principio di adeguatezza.
- La seconda parte è composta dal capitolo 3, nel quale, prima di
addentrarsi nell’analisi delle forme aggregative vere e proprie, si
chiariscono i termini della questione del riordino territoriale e si
descrivono le modalità di fusione previste dalla nostra Costituzione,
prima, e dall’art. 11 della legge n. 142, poi.
Nel proseguo del capitolo 2, inoltre, vengono analizzati i motivi del
fallimento della politica delle fusioni e le ragioni che hanno spinto il
VI
legislatore, a partire dal ‘97, ad optare, diversamente dal passato, per
una riforma basata sull’adesione volontaria e consensuale dei singoli
enti alle esperienze di cooperazione.
- La terza parte raggruppa i capitoli 4, 5, 6 e 7.
Questa parte può essere definita il fulcro di tutto il lavoro, in quanto in
essa si analizzano nel dettaglio le singole forme associative previste
dalla legislazione positiva italiana e si esaminano minuziosamente
tutti i cambiamenti e le novità apportate dal legislatore alla materia in
esame, il tutto attraverso un’analisi che parte dalle origini normative
di ogni singola forma associativa alla disciplina attuale di ciascuna di
esse.
In particolare, i capitoli 4, 5 e 7, trattano delle forme di aggregazione
cosiddette “forti” o stabili, vale a dire di quelle forme di integrazione
che determinano, per i Comuni che decidono di usufruirne, la
creazione di un apposito ente, dotato di propri organi, di una propria
autonomia e, dunque, essenzialmente staccato dai singoli Comuni
associati: entrando nello specifico, il quarto capitolo si concentra sulle
Unioni di Comuni; il quinto capitolo tratta delle Comunità montane,
mentre il settimo capitolo si occupa della forma associativa più
risalente nel tempo: i consorzi.
Il sesto capitolo del presente lavoro, invece, analizza un aspetto
differente del fenomeno dell’associazionismo comunale: in esso,
infatti, si descrive l’istituto della convenzione, vale a dire quella forma
di collaborazione “flessibile”, “non strutturata”, che non determina,
per gli enti che la utilizzano, la creazione di un ente ad hoc, ma che
consiste, essenzialmente, in una sorta di contratto che vincola le parti
contraenti solamente con riguardo all’esercizio della funzione o del
servizio associato ed al raggiungimento dei fini previamente accordati.
In sintesi, l’obiettivo della quarta sezione della tesi, è quello di mettere
in evidenza le consistenti differenze fra le forme strutturate e non
strutturate di collaborazione, e di ripercorrere l’evoluzione legislativa
di ciascun istituto attraverso un’analisi completa delle diverse
normative di riferimento.
VII
- La quarta parte, infine, è rappresentata dalle conclusioni, nelle quali
si riassume brevemente quanto detto in precedenza e si illustrano i
vantaggi e gli svantaggi connessi alla collaborazione; i principali
motivi che spingono gli enti locali ad esercitare congiuntamente ed in
modo integrato con altri enti una serie più o meno ampia di funzioni;
le resistenze e le ostilità mostrate dagli enti stessi nei confronti delle
diverse forme associative, soprattutto di quelle più “forti” e stabili.
Per completare questa parte, infine, si è ritenuto opportuno formulare
alcune indicazioni che, tenendo conto delle esigenze di autonomia e di
indipendenza degli enti locali, potrebbero essere utili alla
valorizzazione, allo sviluppo ed alla diffusione capillare delle singole
forme associative analizzate nel corso del presente lavoro.
1
CAPITOLO I
IL PERCORSO STORICO-LEGISLATIVO DEL
COMUNE:
L’AUTONOMIA COMUNALE DAL MODELLO
ORIGINARIO ALL’ORDINAMENTO VIGENTE.
2
1.1 L’ETÀ COMUNALE.
“I Comuni sono un prodotto spontaneo della realtà sociale cioè della
vita e dello sviluppo delle popolazioni. Essi nascono, in genere, come
associazioni naturali di famiglie: associazioni che, organizzate
territorialmente ed istituzionalmente, giungono talvolta ad
identificarsi con lo Stato e di frequente lo precedono, per divenire,
attraverso un lungo processo di adattamento, il tessuto connettivo
dello Stato moderno”
1
.
Il Comune, inteso in questi termini, ha un’origine antichissima che
risale al Medioevo, in quanto trova il suo antecedente storico nelle
città medioevali (secc. XI-XIV)
2
.
Agli inizi del secondo millennio, a seguito della crisi e del
dissolvimento del mondo feudale, in quasi tutti gli Stati dell’Europa
occidentale si è assistito al formarsi di Comuni liberi ed indipendenti.
Nati come associazioni volontarie tra i cittadini più influenti, essi
costituivano degli ordinamenti particolari nell’ambito
dell’ordinamento generale dell’Impero, del quale riconoscevano
pienamente la sovranità e al cui diritto (ius commune) subordinavano e
coordinavano il proprio (ius propium)
3
.
Ciò nonostante, i Comuni medioevali erano veri e propri ordinamenti
sovrani, dal momento che successivamente riuscirono ad ottenere
dall’autorità regia il riconoscimento formale del loro potere: potevano
darsi proprie leggi (statuta); esercitare la loro giurisdizione, imporre
tasse e tributi.
Nonostante la tesi più sostenuta dagli storiografi sia quella di negare la
continuità tra l’esperienza dei Comuni moderni e quella dei Comuni
nel Medio Evo, è importante rilevare che grazie ai caratteri dei “liberi”
Comuni medioevali si può comprendere il carattere autonomistico e
1
GIOVENCO L., L’ordinamento Comunale, Milano, Giuffrè, 1983, 1.
2
GALASSO, voce Comune, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1961, 169, osserva come
le esperienze costituzionali del Comune medioevale “solo indirettamente possono venire
collegate ad una premessa storica del Comune moderno, e si inseriscono invece
pienamente nel grande alveo dell’evoluzione storica dello Stato moderno”.
3
GALASSO, op. cit.
3
pluralista dell’organizzazione comunale prevista dalla nostra
Costituzione
4
.
L’impostazione autonomistica tipica del periodo medievale, tuttavia,
cominciò a declinare nettamente a partire dal XIV secolo, periodo in
cui si è assistito alla crisi e poi alla morte dei governi autonomi delle
città.
Nel periodo della Signoria e del Principato, infatti, si è verificato un
processo di concentrazione del potere nelle mani del “signore”, che
finì con l’assorbimento dei “liberi” Comuni medioevali nelle nuove
formazioni statali, intolleranti delle comunità indipendenti diffusesi al
loro interno.
La conseguenza per i Comuni fu evidente ed inevitabile: perdita di
qualsiasi potere politico ed assunzione di un ruolo subordinato di tipo
amministrativo
5
.
1.2 DALLA CRISI DELL’ANCIEN RÉGIME AL SISTEMA
AMMINISTRATIVO NAPOLEONICO.
L’Era della Signoria, segnata da un profondo ed incisivo
ridimensionamento dei poteri comunali, anticipa il modello di governo
centralistico ed autoritario adottato dallo Stato monarchico.
E’ importante rilevare, a questo proposito, che, derivando
l’ordinamento comunale italiano dalla legislazione e dalle istituzioni
4
PIRAINO A., Le autonomie locali nel sistema della Repubblica, Torino, Giappichelli,
1998.
5
GALASSO, op. cit., 177, descrive così la nuova situazione dei Comuni durante l’epoca
della Signoria e del Principato: “Non più elettive le magistrature comunali, non più
convocati i consigli deliberanti e perciò esaurita e ridotta a povera cosa l’attività
statutaria, ingigantiti i poteri dei funzionari statali con funzioni di controllo e di vigilanza
che non trovano altro limite se non nella volontà del signore, finì per prodursi, come era
inevitabile, una sorta di appiattimento delle strutture amministrative” […] ”a questo
processo di appiattimento, un altro ne andò aggiunto non meno grave per la vita cittadina:
e cioè il disinteresse, che finì per diventare distacco, della grande maggioranza dei
cittadini dalla cosa pubblica”.
4
piemontesi
6
, è a questa normativa cui bisogna far riferimento per
comprendere l’evoluzione storica comunale.
Le politiche accentratrici adottate dalla monarchia Sabauda dal XVII
secolo in poi erano tutte volte alla creazione di un modello di governo
centralistico, che poco o nulla lasciava all’autonoma determinazione
delle istituzioni amministrative locali.
Basti pensare alle “Regie Costituzioni” del 1770 e al “Regolamento
dei Pubblici” del 1775, che istituivano e delineavano con chiarezza la
figura ed i poteri dell’”intendente”: “agente governativo periferico
incaricato di eseguire la volontà dell’autorità centrale in un
determinato ambito territoriale – la Provincia – e per conseguenza di
seguire e di controllare, nello stesso ambito, l’attività dei Pubblici,
cioè dei Comuni, unici enti locali conosciuti dall’assolutismo sardo-
piemontese”
7
.
Le origini vere e proprie ed i tratti essenziali dell’ordinamento
comunale italiano, tuttavia, risalgono alle concezioni della rivoluzione
francese del 1789 e ai principi contenuti nella costituzione francese
post-rivoluzionaria.
Durante questo periodo, infatti, si profilarono alcune idee generali che,
accettate o rifiutate dai sovrani, non poterono essere ignorate, e, al
contrario, influenzarono in diversi modi e con diversa intensità le
legislazioni e le costituzioni europee.
Ciò fu particolarmente vero per il Piemonte che, oltre a subire la
suggestione provocata dai rivolgimenti francesi, sentì un influsso
maggiore a causa dell’annessione all’Impero di Francia e
dell’estensione degli ordinamenti amministrativi napoleonici alle
province subalpine.
Abbandonata l’impostazione centralistica e gli assetti locali tipici
dell’ancien régime, la Costituzione del 1789 aveva riconosciuto
l’esistenza di un “puvoir municipal”.
6
L’unificazione italiana avvenuta nel 1861, venne, infatti, portata avanti dallo Stato
Piemontese.
7
PETRACCHI A., Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano, Neri
Pozza Editore, Venezia, 1962, 28.
5
L’intento di questa normativa era quello di rendere razionale il quadro
territoriale (articolato in Dipartimenti, Distretti e Comuni) attraverso
la creazione di un sistema locale autonomistico.
Ne era la prova l’elettività di tutti gli organi preposti alle tre
amministrazioni locali e la mancanza di organi statali destinati a
rappresentare il potere centrale e ad esercitare su di esse delle funzioni
di controllo.
Tra i principali criteri che connotarono il modello francese nel periodo
rivoluzionario c’era quello della “generalizzazione del regime
comunale”.
Mentre nell’ancien régime il potere locale era considerato come un
privilegio concesso solo a determinate parti del territorio, con la
rivoluzione l’ordinamento comunale fu esteso all’intero territorio della
Francia.
La Costituzione post-rivoluzionaria del 1789, inoltre, prevedeva un
ordinamento omogeneo per tutti i Comuni, la cui organizzazione e il
cui complesso di funzioni erano regolati da norme uniformi,
indipendentemente dalle caratteristiche peculiari o dalle dimensioni
comunali.
L’esaltazione del potere municipale tipica di questa fase storica,
tuttavia, ebbe breve durata e, sotto il regime napoleonico, il Comune
divenne poco più che una “semplice circoscrizione amministrativa
dello Stato”
8
.
Il riassetto dell’ordinamento locale operato durante questo regime si
fondava su due principi fondamentali: la concentrazione dei poteri
esecutivi nelle mani di organi monocratici e la collocazione di tali
organi in una precisa e definita scala gerarchica.
I sindaci (maires) erano alla base di tale assetto organizzativo:
rappresentavano il governo centrale, che deteneva il potere di nomina
e di rimozione dalla carica degli stessi.
Al vertice di tale scala gerarchica c’era il Prefetto, perno essenziale
dell’accentramento napoleonico.
8
GIOVENCO, op. cit., 2.
6
Questi veniva configurato come rappresentante del governo in
periferia e come organo preposto alla tutela e al controllo dei
Comuni
9
.
Una forte amministrazione centrale a carattere accentuatamente
autoritario con una serie di enti locali sottoposti alla sua costante
vigilanza, era dunque il modello organizzativo caratterizzante questo
periodo storico.
1.3 IL COMUNE IN ITALIA DALL’UNITÀ AL
FASCISMO.
Come già i vari Stati italiani preunitari, il Piemonte aveva recepito
l’impostazione amministrativa centralistica di tipo napoleonico.
La storia della legislazione comunale piemontese dal 1848 al 1854,
infatti, fu dominata da una costante: la tendenza a concentrare nelle
mani del Governo il controllo e la tutela degli enti locali.
Una tendenza inversa rispetto all’egemonia centrale si ebbe con
l’emanazione dell’Editto albertino del 27 novembre 1847 n. 659,
secondo il quale l’organizzazione amministrativa locale si articolava
in Divisioni e Province (erette a corpi morali) da un alto, e Comuni
dall’altro, ai quali furono riconosciuti, anche se solo parzialmente,
autonomia e auto-governo
10
.
Tale sistema, però, non entrò in vigore in quanto fu assorbito dalla
riforma introdotta con la l. 7 ottobre 1848 n. 807, che prevedeva
l’elezione solo degli organi deliberativi.
Tale normativa manifestava un evidente accrescimento dell’ingerenza
statale nella gestione delle amministrazioni comunali e, allo stesso
tempo, rappresentava la base della successiva legislazione in materia.
9
Il Prefetto coordinava la sua attività con i vari ministri, dei quali trasmetteva gli ordini ai
livelli inferiori, e si collocava come coordinatore di tutti i servizi periferici dello Stato.
10
Con questo importante editto venne istituito il sistema dell’elettività degli organi
comunali, nonostante al sindaco non fosse stata ancora riconosciuta piena rappresentatività
essendo egli ancora di nomina regia (cfr.: PETRACCHI, op cit.).
7
La legge Rattazzi 23 ottobre 1859 n. 3702, infatti, recepiva una serie
di norme della precedente riforma, registrando un duplice mutamento
negli equilibri istituzionali: da un lato, secondo il modello
napoleonico, aumentarono i poteri decisionali degli organi comunali
11
(nonostante il sindaco restasse ancora di nomina governativa);
dall’altro, si dilatarono maggiormente i poteri di controllo e di
direzione dello Stato.
In Italia la formazione dello Stato unitario, proclamato il 17 marzo
1861, comportò una ulteriore contrazione dell’autonomia comunale ed
una drastica affermazione del potere centrale su quello locale, dal
momento che, temendo di alimentare forze centrifughe,
l’organizzazione centralista del Piemonte fu estesa a tutto il nuovo
Stato.
Le disomogenee condizioni economiche e sociali, le differenti
tradizioni linguistiche
12
e culturali e le divisioni marcate tra le diverse
realtà locali, imposero al nuovo Stato di diventare un efficace
strumento di unificazione nazionale.
Questo assetto centralistico fu, perciò, dettato prevalentemente da
esigenze di carattere pratico
13
.
In realtà, però, l’estensione dell’ordinamento napoleonico a tutto il
territorio nazionale non si svolse senza contrasti e riserve, dal
momento che non mancarono, nei vari ambienti politici, diverse
proposte favorevoli ad una impostazione autonomistica
11
Il Comune è definito: ”corpo morale avente una propria amministrazione determinata
dalla legge” (art. 10 l. 23 ottobre 1859 n. 3702).
12
L’Italia era un paese dove in ciascuno Stato si parlavano lingue e dialetti diversi: solo il
2,5% della popolazione parlava italiano (cfr.: AA.VV. Il Comune. Ordinamento, contabilità
e servizi, Edizioni Giuridiche Simone, 1998).
13
GIOVENCO, lc. cit., considerato che l’Italia al momento dell’unificazione aveva
gravissimi problemi economico-sociali, riconosce che “il sistema introdotto agli inizi
costituzionali sia stato efficace strumento soprattutto ai fini della coesione politico-
amministrativa e di progresso della vita nazionale”. Tale opinione è dunque tesa ad
affermare l’indispensabilità dell’adozione del modello centralistico di amministrazione e
dell’unificazione giuridico- amministrativa ai fini della costruzione dello Stato italiano.
8
dell’ordinamento statuale
14
.
L’urgente compito dell’unificazione amministrativa del Regno,
tuttavia, alla fine fece prevalere l’istanza accentratrice della Destra
Storica, la quale, con l’on. Ricasoli, riuscì a fare approvare la prima
legge comunale e provinciale dell’Italia, la legge 20 marzo 1865 n.
2248, all. A, postasi come legge di revisione della normativa di
Rattazzi, nonché come punto di partenza per le successive innovazioni
legislative relative all’ordinamento comunale
15
.
Con questa riforma, che ha dato avvio a quella che è stata
polemicamente definita la “piemontesizzazione” dello Stato, viene
sostanzialmente confermata l’adozione, da parte del nuovo Stato, del
sistema accentratore d’imitazione francese già recepito dagli Stati
italiani preunitari durante il dominio napoleonico.
L’ordinamento del 1865 prevedeva un’articolazione del territorio in
Province, Circondari, Mandamenti e Comuni, ed era caratterizzato da
una potente amministrazione centrale (che si avvaleva dell’istituto
prefettizio nella Provincia), in cui il Comune godeva solo di una
limitata capacità di auto-amministrazione.
In questo quadro, il sindaco era ancora di nomina governativa
16
, e la
partecipazione della maggior parte dei cittadini alla gestione della
“cosa pubblica” era ancora scarsa, dal momento che l’elettorato era
ancora delimitato sulla base di un sistema censitario.
14
I progetti di legge di Farini e di Minghetti del 1861 contenevano principi contrari alla
centralizzazione amministrativa alla francese: in essi si propugnava, infatti, un sistema
amministrativo che mettesse in luce i poteri e gli interessi delle diverse realtà locali,
dotandole di proprie possibilità di autogoverno e di autonomia. Il loro disegno, tuttavia,
venne giudicato pericoloso per l’appena raggiunta unità politica del paese, dal momento che
si temeva potessero rinascere le tensioni antiunitarie appena sconfitte.
15
E’ necessario specificare che nel presente capitolo l’analisi delle norme giuridiche citate
farà riferimento in maniera specifica al Comune, pur trattandosi di norme che disciplinano
anche la Provincia, quale ente locale. Il fine di questa specificità d’analisi è del tutto
didattico, in linea con l’obiettivo del presente lavoro, consapevoli che, in realtà, la
disciplina dei due enti viaggia di pari passo nel nostro ordinamento giuridico.
16
In base all’art. 102 della l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. A, il sindaco “esercita funzioni di
capo dell’amministrazione comunale” e, per l’art. 103 della stessa legge, anche di
“ufficiale di Governo”.