IV
L’ambito cronologico di riferimento in cui vengono collocate
queste vicende si identifica con l’intero periodo di rilevamento
censuario dal 1951 al 2001.
Nel secondo capitolo ho ristretto l’analisi alle dinamiche e allla
ragion d’essere dei distretti industriali. Dopo aver rilevato com’ è
cambiata la distribuzione geografica di queste aree sul territorio
italiano, e le variabili causali della loro nascita (dalla nascita
spontanea a quella legata ad una grande impresa presente sul
territorio), ho cercato di evidenziare in modo decisivo i fattori che
hanno dato alle economie localizzate a carattere distrettuale elevate
capacità competitive e di sviluppo. Stiamo parlando del ruolo giocato
dall’ambiente, delineato da Alfred Marshall con il termine atmosfera
industriale, su cui mi sono soffermato al fine di individuarne i tratti
caratteristici ed il modo in cui essa ha inciso sullo sviluppo di lungo
periodo nel cluster distrettuale nel suo complesso. Ho indagato sul
ruolo della coesione sociale che è tipica dei distretti e sul modo in cui
si genera e si riproduce il capitale sociale.
Una volta accertata l’idea che si può guardare all’economia
italiana come a un complesso di economie locali, nel terzo capitolo ho
illustrato l’apporto qualitativo dell’intero processo di intervento statale
a favore delle piccole e medie imprese, sia all’interno che fuori dalle
aree distrettuali. La mia analisi parte dalle politiche degli anni ’50 e
’60, incentrate su una strategia di intervento orizzontale (si agevolava
qualsiasi tipologia di investimento delle imprese, utilizzando la
formula degli incentivi creditizi), a quelle degli anni successivi, aventi
obiettivi mirati a promuovere l’aggiustamento strutturale delle piccole
imprese ai mutamenti del mercato, in una logica di sviluppo e non più
di assistenza. Quello che si vuole sottolineare è che il soggetto delle
V
politiche dello sviluppo comincia a non essere più l’impresa ma il
sistema di imprese, riservando particolare attenzione alle peculiarità
socio-economiche locali. Infine ho voluto rendere chiaro il ruolo che il
sistema bancario ha avuto nel processo di sviluppo delle piccole e
medie imprese, con un occhio di riguardo al caratteristico rapporto
banca-impresa all’interno dei sistemi distrettuali. All’approccio
teorico, ho affiancato un riscontro statistico del peso degli impieghi
bancari sull’intero panorama nazionale delle piccole e medie imprese.
Nel quarto ed ultimo capitolo ho illustrato i tratti caratteristici del
sistema economico di una regione specifica: le Marche. Questo perché
l’intero quadro dell’industria provinciale marchigiana comprende, più
di molte altre, i caratteri propri dei sistemi di produzione locale. Ho
messo in risalto dunque, attraverso un’indagine statistica sul territorio,
(fatta di confronti per regione, settore e località, tra i vari censimenti),
gli aspetti caratteristici dell’economia marchigiana e i motori del suo
sviluppo dalle origini ad oggi. Ho preso in esame il settore
manifatturiero, in particolare l’industria calzaturiera, pilastro portante
dell’economia marchigiana che fa risalire le sue origini alla fine del
secolo scorso. Il tentativo è stato quello di evidenziare l’importanza
che i sistemi locali marchigiani, a maggioranza distrettuali, hanno
avuto sull’economia della regione. Per questo ho creduto opportuno
mostrare come è variato il loro peso sul territorio e l’evoluzione del
numero dei distretti di settore nel corso del periodo preso in analisi
(1951-2001).
1
CAPITOLO 1
1.1 La crisi della produzione di massa
Come è noto, l’apparato industriale italiano risulta
sostanzialmente diviso in due categorie di imprese dalle caratteristiche
assai differenti. Le grandi da una parte, protagoniste nella storia di un
progressivo declino, e le medie e piccole dall’altra, che al contrario
sono state protagoniste indiscusse del percorso di sviluppo del nostro
paese.
L’economia occidentale fondata sulla modalità produttiva
fordista, dunque sulla produzione di massa, già dagli anni sessanta e
settanta risulta inadeguata per una nuova realtà che cominciava a
richiedere una produzione più articolata e differenziata. Il
cambiamento degli stili di vita, la crescita del numero di famiglie
appartenenti ad alte fasce di reddito, l’influenza che la
differenziazione attuata dai produttori ha avuto sulle abitudini
d’acquisto sono tutti fatti che hanno contribuito a modificare il
modello della domanda ed a rendere più sofisticato il comportamento
dei consumatori. Questo nuovo scenario ha messo in crisi il modello
di produzione fordista. basato sulle economie di scala, fondato su un
alto livello di standardizzazione della produzione e su serie di
produzioni programmate per grandi volumi
1
. A tal proposito due
studiosi americani, Michael J. Piore e Charles Sabel, hanno
concentrato i loro studi sulla contrapposizione fra il sistema di
produzione di massa proprio della grande impresa, e quello della
1
S. Taranto, Madie e piccole imprese nel nuovo scenario degli anni ‘90, Roma, 1990, pp.94-96.
2
produzione flessibile di cui l’Italia sembrava offrire l’esempio più
significativo
2
.
Ciò che più di ogni altra cosa ha consentito al sistema italiano di
raggiungere un elevato livello di sviluppo industriale è proprio la
grande flessibilità della struttura produttiva, generata dalla natura
composita del sistema industriale fatto di piccole e medie imprese e
dal modo in cui si sono diffuse sul territorio italiano
3
. All’inizio degli
anni cinquanta, la struttura dell’industria italiana risulta dominata da
grandi imprese (con più di 500 addetti) e da piccolissime unità
produttive (meno di 11 addetti). Questa polarizzazione era destinata a
sparire nel tempo, come mostra l’analisi dei dati (si veda la tabella 1),
dal primo censimento industriale del dopoguerra al censimento del
1991
4
.
A partire dagli anni settanta la crisi petrolifera, la crescita di una
domanda personalizzata, e la rapidità del progresso tecnico mettono in
crisi ovunque, i metodi di produzione di quei prodotti standardizzati
costruiti sul modello fordista. La struttura organizzativa per divisione
adottata dalle grandi imprese viene rimodellata dal profondo. In Italia
tutto questo insieme di fenomeni ha sollecitato in modo forte la
crescita dei sistemi di piccola impresa, che mantengono con la grande
impresa rapporti di scambio e collaborazione. La personalizzazione
della domanda e l’aumentato ruolo delle innovazioni incrementali
hanno dato alle piccole imprese una spinta decisiva, aprendo loro uno
spazio prima imprevedibile.
2
M. J. Piore e C. F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale.Produzione di massa e produzione
flessibile, 1987, pp.17-25.
3
A. Saba, Il modello italiano,Roma, 1995, pp.31-36
4
S. Brusco e S. Paba, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli
anni novanta, , in Storia del capitalismo italiano, a cura di Fabriazio. Barca, Roma, 1998, pp.269-
271.
3
C’è un’altra ragione per cui in Italia la reazione alla crisi del
fordismo assume questi particolari caratteri. Il sindacato, almeno dalla
metà degli anni ‘60 alla metà degli anni ‘70, ha avuto nelle imprese
maggiori un ruolo straordinariamente incisivo. Ha contribuito a
mutare profondamente l’organizzazione del lavoro eliminando molti
lavoratori, ha influito sull’attribuzione delle qualifiche ed ha ridotto il
differenziale dei salari tra gli operai specializzati e gli altri. Il blocco
delle ore straordinarie aveva reso impossibile adeguare la produzione
alla fluttuazione della domanda. L’operaio massa aveva costituito la
base su cui il sindacato aveva fondato il suo potere e le grandi imprese
hanno cominciato a pensare alla demassificazione come mezzo per
modificare i rapporti di forza e per cambiare la struttura delle relazioni
industriali
5
. Un nuovo modello di produzione e di gestione
dell’impresa ha finito per apparire indispensabile soprattutto per
aggirare la rigidità sindacale vigente nella grande impresa. Fu proprio
in questo periodo che si assiste al decentramento produttivo
6
. Migliaia
di lavoratori furono licenziati dalla grande impresa e ripresero a
lavorare come subfornitori per le stesse imprese, spesso con
macchinari uguali a quelli usati in precedenza, talvolta proprio con le
stesse macchine. I mercati di fase divennero lentamente mercato
concorrenziali, dove le piccole imprese finali erano in concorrenza tra
loro e con la grande impresa
Il 1951 rappresenta l’anno iniziale della crisi caratterizzante le
economie industriali dei paesi occidentali. La tabella 1 mostra che
all’inizio degli anni ’50, la struttura industriale italiana risultava
caratterizza da un elevato livello di occupazione nelle grandi imprese
5
S. Taranto, Medie e piccole imprese nello scenario degli anni novanta, op. cit., pp. 96-97
6
S. Brusco e S. Paba, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo, op. cit., pp.322-
326.
4
(oltre 500 addetti) e da piccolissime unità produttive (meno di 10
addetti), che insieme occupavano oltre il 54% del totale; questa
polarizzazione è destinata a scomparire nel tempo.
Tabella 1 - Gli addetti dell’industria nel solo settore manifatturiero, in Italia per
classe di dimensione delle imprese, dal 1951 al 2001.
Classi dimensionali 1951 1961
7
1971 1981 1991 2001
1 a 9 addetti 32.3 28.0 20.2 22.8 26.2 24.2
10 a 19 addetti 5.4 7.3 8.7 12.4 15.3 15.4
20 a 49 addetti 8.7 11.6 13.1 13.7 16.3 16.3
50 a 99 addetti 8.1 10.1 10.8 10.2 10.0 10.1
100 a 199 addetti 11.8 12.4 10.4 10.1 3.1 8.7
200 a 499 addetti 8.6 9.1 12.8 11.1 10.1 9.0
oltre 500 addetti 25.1 21.5 24.0 19.7 13.0 16.3
Totale imprese 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0
Fonte: elaborato su dati Istat. 8° Censimento industria e servizi
Nei primi due decenni del dopoguerra, l’evoluzione della
struttura industriale è condizionata da alcune trasformazioni. Una su
tutte è stata il completamento dei processi di formazione del mercato
nazionale in alcuni importanti settori, come l’abbigliamento, le
calzature, l’industria alimentare, il legno e mobile. Per un lungo
periodo, buona parte dell’offerta in questi settori era garantita da
artigiani tradizionali (sarti, falegnami, tappezzieri, fabbri) che avevano
come riferimento mercati assai limitati. L’emergere di un mercato
nazionale per le merci dei settori citati, sotto la spinta della migliore
integrazione dei sistemi di trasporto e dei miglioramenti degli stili di
vita, ha comportato un ridimensionamento delle attività artigianali
tradizionali
8
. Questo spiega la riduzione costante che avviene negli
7
Il censimento dell’Industria 1961, ha rilevato gli addetti per le classi di dimensione “da 100 a
250 addetti” e “da 250 a 500”. Pertanto alcuni dati possono essere sovrastimati.
8
S. Brusco e S. Paba, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli
anni novanta, , in Storia del capitalismo italiano, a cura di Fabriazio. Barca, op. cit., pp. 268-269.
5
anni ’50 e ’60 della quota di occupazione delle piccolissime imprese,
il cui peso si riduce da poco meno di un terzo (32,3%) del 1951 a circa
un quinto (20,2%) dell’occupazione manifatturiera totale del 1971. La
necessità di aumentare l’efficienza organizzando la produzione su
scala maggiore e la possibilità di sfruttare economie di
agglomerazione, hanno spinto i settori prima citati, verso una
maggiore concentrazione territoriale. A partire dal 1971 i dati della
tabella fotografano l’evoluzione della struttura dimensionale
dell’industria italiana: riprende a crescere l’occupazione nelle imprese
piccolissime, che aumentano il loro peso di quasi 3 punti percentuali
nel 1981, fino ad arriva re ad una quota superiore al 26% nel
ventennio successivo. Gli addetti alle imprese piccole (meno di 50
addetti), passano da una quota vicina al 42% del 1971, ad una di quasi
il 58% dell’occupazione manifatturiera nel 1991.
Contemporaneamente si riduce l’occupazione in tutte le classi
dimensionali medio alte (sopra i 100 addetti), e cala l’occupazione
nelle imprese più grandi capaci di perdere 11 punti in circa vent’anni.
Questo cambiamento sta a testimoniare la crisi della produzione
standardizzata di massa di cui Ford fu padre, ed lo spostamento degli
addetti verso le piccole imprese (sotto i 50 addetti), che nel 91
riuscirono a coprire circa il 60% della produzione totale. Ci troviamo
di fronte ad una struttura, quella italiana, in cui il peso delle piccole
imprese è andato sempre crescendo. Basti pensare che oggi all’interno
del settore manifatturiero dei paesi dell’UE, l’Italia ha la percentuale
di piccole imprese più elevata con il 94,9%, seguita dalla Svezia
(93,3%), Portogallo e Spagna (93%),mentre non si supera la soglia
dell’80% in Danimarca e Germania. Le medie Imprese (sotto i 250
6
addetti) invece rappresentano solo lo 0,5% del totale , contro lo 2,6%
in Germania e l’1,1% in Francia
9
.
Si è specificato soltanto per inciso, che con la dizione «piccole
imprese» ci si riferisce a imprese con meno di cinquanta addetti, il più
delle volte anzi, con meno di venti addetti
10
. Le indagini empiriche
hanno mostrato che queste piccole imprese prestavano buone capacità
innovative ed una notevole flessibilità produttiva ed organizzativa.
Tali caratteristiche le mettevano in grado di competere con successo
sui più mutevoli mercati. Il loro vantaggio competitivo è apparso
evidente soprattutto quando l’inevitabile rigidità delle imprese
maggiori, costituiva invece un ostacolo per le innovazioni produttive
ed organizzative
11
.
Tabella 2 - Numero di unità locali per dimensione, espresse in percentuali sul
totale. 1951-2001
Dimensione Unità locali
1951
Unità locali
1971
Unità locali
1981
Unità locali
1991
Unità locali
2001
Fino a 2 78,215 74,464 71,998 68,680 73,981
3-5 15,097 16,072 16,944 19,135 15,092
6-9 3,467 4,320 5,244 5,921 5,189
10-49 2,527 4,279 5,082 5,600 5,081
50-99 0,360 0,479 0,404 0,377 0,377
100-499
12
0,281 0,332 0,284 0,249 0,243
500-999 0,028 0,031 0,026 0,023 0,022
1000 e più 0,026 0,023 0,018 0,015 0,016
Tot. 100,000 100,000 100,000 100,000 100,000
Tot. Unità locali (1.504.027) (2.236.044) (2.819.846) (2.972.347) (3.454.000)
Fonte:Elaborazione su dati Istat. 8° Censimento industria e servizi
9
Unioncamere-Istituto Tagliacarte, Le piccole e medie Imprese nell’economia Italiana.Rapporto
2002, ilano, 2003, pag.9
10
S. Brusco, Piccole imprese e distretti industriali, Torino,1989, pag.478
11
A. Alaimo, Un’altra industria? Distretti e sistemi locali nell’Italia contemporanea, Milano,
2002, pp.20-24.
12
I censimenti dell’Industria 1951 e 1961, hanno rilevato gli addetti per classi di dimensione “da
100 a 499”.Il Dato in tabella è stimato ipotizzando che gli addetti della classe “ da 100 a 499
addetti”, comprendano,al loro interno, le classi “100-199”, “200-299” e “250-499”, rilevate in
modo distinto, nei censimenti dal 1971 al 2001.
7
Con la tabella 2 si concentra l’analisi non sul numero di addetti, ma
sul numero di unità locali organizzate per classi dimensionali e riferite
all’intero sistema industriale italiano, al fine di verificarne la loro
variazione reale sul nostro territorio. Le unità locali appartenenti alla
classe di addetti “500-999”, passarono da una quota sul totale dello
0,028% del 1951, ad uno 0,022% del 2001. La variazione (0.006% in
50 anni) potrebbe apparire irrilevante, ma lo 0,22% va applicato ad un
numero totale di imprese più che raddoppiato nell’arco di 50 anni.
Oltre al regresso della grande impresa, le informazioni statistiche sono
riuscite a testimoniare anche il progresso “congiunturale” della piccola
impresa e dunque del sistema di produzione flessibile. La sola classe
di addetti “10-49” arriva a coprire nel 1991, il 5,6% del totale delle
imprese, già raddoppiato nello stesso anno di riferimento.
I dati delle tabelle 3 e 4 mostrano come l’insediamento delle
imprese maggiori sia stato preponderante nell’Italia nord occidentale,
prevalentemente in Piemonte e Lombardia che negli anni ‘50 e ‘60,
rappresentavano rispettivamente il 58% ed il 56% del totale di imprese
con oltre 500 addetti. Dal 1961 ai due decenni successivi, il nord est
ha perso circa 11 punti percentuali nella sola categoria di addetti “500-
999”; ma si è verificato un aumento costante del numero complessivo
di imprese sul territorio, più che raddoppiato in soli 30 anni
13
.
Applicando lo stesso ragionamento alle imprese del nord
occidente con addetti “1000 e più” (si veda la tabella 4), si nota come
dal 1951 al censimento del 2001 ci sia stata una perdita di circa 18.0
punti percentuali su un totale di imprese aumentato di sole 141 unità,
13
Il numero complessivo di imprese sul territorio, è comprensivo di tutte le classi di addetti “da 1
ad oltre1000” e passerà da 1.504.027 unità del 1951 ai 3.454.000 unità del 2001.Vedi “Tot. Num.
Imprese” nella Tabella 2
8
su un territorio che dal 1951 al 2001 è passato dal milione e mezzo
fino a circa tre milioni e mezzo di imprese.
Tabelle 3 – Numero di grandi imprese (addetti 500-999) distribuita sul territorio
ripartito geograficamente.
14
.
Addetti 500-
999 1951 1961 1971 1981 1991 2001
Italia nord-
occidentale 63,29 58,15 58,33 46,23 45,19 44,74
Italia nord-orientale 12,94 15,9 17,53 24,39 26,54 25,03
Italia centrale 13,88 13,11 13,94 16,98 15,49 18,91
Italia meridionale 7,29 9,92 6,32 8,36 9,33 7,86
Italia insulare 2,59 3,53 3,88 4,04 3,44 3,46
Tot: 10 100 100 100 100 100
Tot. Num.
Imprese: 414 574 696 742 697 751
Fonte: Elaborazione dati Istat. 8° Censimento impresa e servizi.
Tabelle 4 – Numero di grandi imprese (addetti 1000 e più) distribuita sul
territorio ripartito geograficamente.
Addetti 1000 e
più 1951 1961 1971 1981 1991 2001
Italia nord-
occidentale 66,25 65,16 59,14 52,78 52,77 48,7
Italia nord-orientale 9,07 10,63 13,95 17,66 17,07 22,49
Italia centrale 18,89 18,55 19,65 18,85 19,29 20,63
Italia meridionale 4,53 4,3 5,7 7,74 6,87 6,51
Italia insulare 1,26 1,36 1,57 2,98 3,99 1,67
Tot: 100 100 100 100 100 100
Tot. Num.
Imprese: 397 442 509 504 451 538
Fonte: Elaborazione dati Istat. 8° Censimento impresa e servizi.
14
L’Istituto nazionale di Statistica ha operato i seguenti raggruppamenti:
Italia nord-occidentale:Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia.
Italia nord-orientale: Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna
Italia centrale: Toscana, Marche, Umbria, Lazio
Italia meridionale: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria
Italia insulare: Sardegna, Sicilia
9
Sempre nella tabella 4, la grande impresa ha visto una
diminuzione inferiore della sua presenza relativa, nell’Italia nord
orientale. Ottima è stata a riguardo l’analisi compiuta dall’ISTAO
15
che ha cercato, attraverso una schematizzazione di lungo periodo
“1951-1981”, di mostrare l’impatto degli insediamenti della grande
impresa. Oggetto dell’indagine sono state le unità locali sull’intero
territorio nazionale con almeno mille addetti.
Nella sua semplicità e leggibilità la tabella 5 racconta una storia
complessa, in cui si intrecciano il “miracolo economico”, l’intervento
straordinario per il mezzogiorno, gli esperimenti di programmazione
degli anni ‘60 e infine la crisi e ristrutturazione intervenuta negli anni
’70. Tra il 1951 ed il 1961 si nota un modesto (+32.767 addetti)
progresso dell’occupazione nelle unità maggiori. Ma il “miracolo
economico” e la politica di incentivazione degli insediamenti al sud,
sono invece chiaramente visibili nei dati sulle maggiori unità locali del
decennio seguente. Nel 1971 l’occupazione nei grandi stabilimenti è
aumentata rispetto al censimento precedente (+224.900 addetti) e la
discesa della grande impresa verso sud è chiaramente visibile
16
.Il
quadro è quello di una diffusione sul territorio della grande fabbrica,
ma il Censimento del 1981 segnala una situazione ben diversa: la
grande fabbrica si ridimensiona nel Nord, dove il solo Piemonte ha
subito una diminuzione delle stesse di ben 70.691 unità, di cui l’85%
nella sola provincia di Torino.
15
Istituto Adriano Olivetti di Studi per la Gestinone dell’Economia e dell’Azienda.
16
Si osservino in particolare i dati rilevanti a Latina e Frosinone, l’apparizione sulla scena di
Caserta , il balzo in avanti di Napoli, il processo di insediamento che investe Abruzzo, le Puglie e
la Sicilia