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Taranto e la sua provincia si è trovata in questa situazione almeno sino alla
fine del secolo scorso, quando la limitata popolazione viveva con
semplicità, attingendo le scarse risorse dall’agricoltura, dalla pesca e dalle
attività artigiane indispensabili, mestieri questi che si tramandavano quasi
sempre nell’ambito familiare.
In tale periodo la famiglia è sicuramente ritenuta il nucleo della società.
E’ di stampo patriarcale dove moglie e figli sono completamente
subordinati all’autorità del pater familia.
La decisione del governo d’impiantare l’arsenale, di aprire il canale, di
costruire il ponte girevole, di creare quelle opere che oggi si definiscono
infrastrutture, diede un forte impulso alla vita cittadina, segnando una
svolta decisiva.
Sino a quell’epoca la popolazione, che si aggirava sui venticinquemila
abitanti, era rimasta saldamente abbarbicata all’isoletta (città vecchia)
conservando inalterate abitudini e forma di vita.
Quando iniziarono i lavori e molto di più quando cominciarono a giungere
a Taranto operai specializzati e non, tecnici, militari e navi, la cittadinanza
cominciò a perdere quelle caratteristiche di popolazione isolana
mescolandosi con gente venuta da altre posti d’Italia con lingue
consuetudini e mentalità diverse.
Tale progresso si arrestò inevitabilmente negli anni quaranta con il
divampare del secondo conflitto mondiale, seppe riprendere nuovo vigore
con la grande ripresa economica che, negli anni sessanta, interesso l’intera
nazione.
Agevolato dalla posizione geografica e da una fiorente attività portuale, sul
territorio sorsero importanti industrie come il quarto centro siderurgico, il
più grande d’Europa, con il suo vasto indotto, un’importante raffineria ed
un cementificio.
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Tutto questo, ancora una volta, favorì l’afflusso di manodopera e tecnici,
proveniente da ogni parte d’Italia che mescolandosi ed imparentandosi con
la popolazione autoctona, costituì il catalizzatore della crescita economica e
sociale dell’intero territorio provinciale.
I matrimoni aumentarono e con essi la richiesta di nuove e moderne
abitazioni che favorì enormemente la ripresa dell’industria edile e del suo
relativo indotto.
L’inarrestabile avanzata del progresso unita all’approvazione
d’importantissime leggi riguardanti l’istruzione obbligatoria, migliorarono
la qualità della vita, riducendo notevolmente miseria ed ignoranza.
Così nel nuovo scenario politico – sociale delineatosi, causa i molteplici
insediamenti industriali impiantati sul territorio, la famiglia contadina,
quella che era stata il nucleo della società, comincia col perdere vigore
tanto da essere considerata un’istituzione superata, contestata e per certi
versi respinta.
I motivi furono molteplici:
- contestazioni femministe
- insubordinazione dei figli
- sviluppo di un’educazione consumista
- disinteresse dello stato.
La donna ha rivendicato, dopo secoli di sudditanza, i propri diritti, la
propria legittima autonomia dall’uomo, sino a qualche decennio fa somma
autorità, perfino dispotica, della famiglia. A questo proposito il movimento
femminista, sostenuto in gran maggioranza da donne stanche e deluse, ha
svolto un’opera preziosa.
La donna ha avvertito il bisogno di inserirsi attivamente nella società, di
compiere le medesime esperienze dell’uomo, di evitare una mortificante
emarginazione dal mondo del lavoro, della politica, della cultura. Ciò ha
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provocato le prime insofferenze, la crisi della coppia, lo scricchiolamento
della millenaria autorità maschile.
Negli ultimi decenni anche i figli sono profondamente cambiati. Un tempo
completamente subordinati al padre, quasi schiacciati dalla sua autorità.
Resi culturalmente superiori, grazie all’istruzione di massa hanno finito col
non riconoscere più nella figura del padre, nel frattempo resa evanescente
dagli stessi mutamenti socio-economici, la guida, il modello esistenziale e
culturale da imitare. Hanno così cercato d’imporre la propria personalità,
tendendo a rendersi liberi, ad estraniarsi dalla famiglia. Così che anche i
padri “deboli” e democratici d’oggi sono vissuti da molti giovani come
noiosi limitatori dell’autonomia personale.
Le stesse democrazie moderne, poi, nel loro economicismo esasperato,
tendono a trascurare la famiglia a vantaggio del consumatore, corteggiato e
bandito tramite l’offerta di prodotti e servizi spesso costosi quanto inutili.
Eppure la crisi della famiglia rappresenta, entro certi limiti, un fatto
positivo, nella misura in cui si mettono in discussione rapporti sbagliati ed
ingiusti, sedimentatisi, come vedremo in seguito nel corso degli anni.
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CAPITOLO PRIMO
COME CAMBIA LA FAMIGLIA ITALIANA
1.1 Profilo storico della famiglia italiana
La famiglia italiana ha subito nell’ultimo secolo e mezzo una profonda
trasformazione non solo in termini sociali e psicologici, ma anche
strutturali e demografici.
Storicamente in tale secolo e mezzo di trasformazioni si considereranno
solo tre momenti emblematici: il periodo della prima industrializzazione tra
fine 800 ed inizio 900; il ventennio fascista; ed il secondo decollo
industriale, gli anni del cosiddetto “miracolo economico”.
In questi tre periodi la famiglia italiana è cambiata sia come oggetto di
politiche sociali che come soggetto politico, cioè come uno dei principali
agenti del mutamento socio – economico. Questo significa che la famiglia
non ha solo passivamente recepito i cambiamenti economici, ma è stata
essa stessa uno dei principali fattori di cambiamento della società italiana.
Già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento aveva preso il via, in tutti i
Paesi dell’Europa occidentale quel profondo processo di modificazione
della struttura familiare che diventerà poi più visibile nel corso del
Novecento. Per quanto riguarda l’Italia, il passaggio dalla famiglia allargata
a quella ristretta avrà la sua origine nello sviluppo industriale e avrà effetti
profondi nella vita privata e comportamentale dei singoli.
Il lento e progressivo restringimento del gruppo familiare sarà, del resto,
uno dei fenomeni determinanti della società liberal – borghese. Nel periodo
tra le due guerre i cambiamenti iniziati alla fine del secolo scorso
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diventeranno più evidenti specialmente a causa della forte accelerazione al
cambiamento impressa dalla prima guerra mondiale. Ma saranno, a dir
poco, vorticosi nel periodo del secondo dopoguerra, allorché tutta la società
italiana subirà quella “grande trasformazione” che la porterà a diventare un
Paese industrializzato.
Il primo grande cambiamento è stato quello verificatosi alla fine
dell’Ottocento. In questa fase, accanto ad una maggioranza di grandi
famiglie contadine sono apparse anche molte famiglie operaie ed un
piccolo numero di famiglie borghesi.
Non è mai esistito un modello unico di famiglia contadina patriarcale
tradizionale così come lo si immagina comunemente. Infatti la celebre
inchiesta agraria del 1883 aveva chiarito che molti figli dopo il matrimonio
andavano a vivere per conto loro. Ma, al di là della maggiore o minore
estensione, questa famiglia contadina aveva in comune la miseria
alimentare. Poi, nel giro di vent’anni, la situazione cominciò a cambiare:
l’emigrazione all’estero, lo sviluppo della zootecnia, l’industrializzazione,
il miglioramento delle condizioni igieniche favorirono la riduzione della
miseria.
La pellagra che aveva devastato le campagne fu quasi debellata, portando
ad una minore mortalità. Per quanto riguarda i rapporti tra i coniugi, i
matrimoni erano quasi sempre combinati dalle famiglie, sia tra i poveri che
tra i ricchi. Mentre i ruoli maschili e femminili erano ben definiti: anche le
donne lavoravano nei campi, ma in genere erano addette a mansioni
diverse. Dunque, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento
compare in Italia quel processo di nuclearizzazione della famiglia che
continuerà poi in maniera più evidente negli anni più recenti. Infatti, dalla
metà del secolo scorso fino al primo conflitto mondiale la diminuzione del
numero delle famiglie allargate, che già era evidente nelle classi più
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elevate, si manifestò anche tra la popolazione rurale che costituiva allora la
maggioranza della popolazione italiana.
Tale fenomeno si deve attribuire a due cause concomitanti e distinte:
l’urbanizzazione e l’industrializzazione.
Il passaggio dal gruppo domestico allargato a quello ristretto ha avuto la
sua origine nello sviluppo industriale che ha modificato la vita privata degli
individui, i quali non hanno recepito passivamente i mutamenti economici.
Se all’indomani dell’unificazione italiana l’ampiezza media delle famiglie
era ancora di 4,7 persone, nel 1921 era già scesa a 4,4.
Contemporaneamente si verificò anche un sensibile calo della mortalità
infantile a cui si accompagnò una diminuzione della natalità. Sempre a
partire dalla fine dell’Ottocento si passò da un tasso di mortalità del 27,2
per mille al 19,1 nel 1914, di conseguenza, rispetto a questa maggiore
aspettativa di vita dei figli, i genitori misero in atto rudimentali sistemi di
controllo delle nascite. Così nello stesso periodo di tempo la natalità
decrebbe dal 37,4 per mille abitanti al 31,7. Negli anni successivi la
mortalità continuerà a decrescere, salvo un’impennata nel periodo della
Grande guerra e così anche la natalità.
Le famiglie operaie erano in prevalenza cittadine, perché le fabbriche si
localizzarono soprattutto nelle periferie urbane. Infatti l’emigrazione in
città divenne, proprio in quegli anni, un fatto rilevante. Certamente erano
nuclei più piccoli di quelle contadine, anche per la grande difficoltà a
trovare delle abitazioni adeguate. Difatti, tutte le famiglie urbane, sia che
fossero operai, artigiani o muratori, condividevano la penuria degli alloggi.
Per non parlare della completa mancanza di qualsiasi norma di tutela
lavorativa. Per altro nella famiglia urbana, come in quella contadina, tutti
lavoravano ed avevano un’occupazione diversa.
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Infatti, gli anni del decollo industriale ebbero un’altra importante
conseguenza sulla vita delle famiglie per il massiccio impiego di
manodopera femminile. In mancanza di una specifica legislazione, il lavoro
delle donne veniva pagato molto meno di quello degli uomini. Il 1881
registrò il momento di massimo impiego femminile nel mondo del lavoro
con il 43,9% delle donne impegnate fuori di casa.
Da allora in poi le lavoratrici ricominceranno di nuovo a diminuire per
arrivare nel 1911 al 29%. Il minimo verrà raggiunto nel 1931 con il 19%.
Ma ancora negli anni cinquanta la maggioranza delle donne faceva la
casalinga. Solo a partire dal 1971 la percentuale ricomincerà a scendere.
Quindi la figura della casalinga sarà un fatto nuovo, cominciato all’inizio
del Novecento, dovuto all’uscita delle donne dal mondo del lavoro.
Il maggior tempo a disposizione e la richiesta di essere più visibili ed attive
nella società portarono alla nascita del femminismo, che fu uno dei fattori
di cambiamento nella vita familiare ma non fu l’unico. Il femminismo fu
l’aspetto più evidente, più immediatamente leggibile, ma quelli della
struttura e nell’identità familiare ne furono l’aspetto più profondo e
duraturo. Infatti le trasformazioni familiari non investirono solo il sesso
“debole”, ma anche quello “forte” implicando modificazioni dei
comportamenti assai più profonde di quelle del femminismo.
Per le leggi allora vigenti lo Stato liberale non considerava la famiglia un
soggetto di diritto. Tutta la codificazione era allora infatti caratterizzata
dalla difesa dei diritti dell’individuo. Il Codice civile del Regno d’Italia,
promulgato nel 1865, si occupava della famiglia nel titolo V, dedicato al
matrimonio, ma l’interesse del legislatore si era prevalentemente fermato
sulle disposizioni relative ai diritti ed ai doveri fra i coniugi e sui requisiti e
sui vincoli per contrarre o per sciogliere il matrimonio. Infatti per la prima
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volta lo Stato aveva avocato a sé il diritto di legiferare in tema
matrimoniale, togliendo alla Chiesa il suo secolare diritto sulla materia.
La Chiesa da parte sua affrontò il magistero sulla famiglia con la
pubblicazione dell’enciclica Arcanum divinae sapientiae, promulgata da
Leone XIII nel febbraio del 1880. Anche qui però prevaleva l’attenzione
verso il sacramento del matrimonio in contrasto con il contratto
matrimoniale sancito dallo Stato, piuttosto che verso la famiglia nel suo
complesso. In generale poi nell’atteggiamento della Chiesa predominava la
preoccupazione di difendere la tradizione della famiglia cristiana rispetto ai
mutamenti che si stavano verificando.
In questo contesto sociale si afferma progressivamente la famiglia
borghese: ancora numericamente molto esigua, ma già un modello
trainante. Quando si dice borghese, non si intende solo appartenente alla
classe media, ma caratterizzata da una serie di comportamenti decisamente
innovativi: la tendenza al matrimonio d’amore, la ricerca dell’intimità
familiare, l’importanza concessa alla casa ed agli spazi privati
dell’abitazione. Fin dalla metà dell’Ottocento, questo diviene il modello al
quale tutti aspiravano. La donna, sposa e madre esemplare, era il nume
tutelare di quest’isola felice celata agli occhi esterni dalle mura domestiche.
L’uomo, padre e lavoratore onesto, era la colonna portante, mentre i figli
erano educati e coccolati come mai era avvenuto in passato.
Il secondo periodo di cambiamento non coincide con una fase di forte
sviluppo economico, ma piuttosto con un periodo di modernizzazione della
vita quotidiana durante il ventennio fascista e segnerà l’allargamento, quasi
di massa, della famiglia media. Uno dei più significativi cambiamenti negli
anni Trenta fu la concentrazione dell’età in cui nascevano i figli. Se infatti
prima la fecondità della donna avveniva in un arco di tempo molto lungo,
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circa tra i 20 ed i 40 anni, nel periodo successivo la procreazione ebbe a
concentrarsi in un intervallo sempre più breve tra i venti ed i trenta anni.
Nel ventennio fascista, in generale, per quanto riguarda la fecondità, il
passaggio ad un indice basso avvenne in periodi diversi a seconda delle
regioni: in alcune zone come la Liguria ed il Piemonte questo dato era già
molto esiguo negli anni Venti, mentre intorno agli anni Trenta apparve
evidente che esisteva un deliberato controllo delle nascite anche nel
Meridione.
Il minor numero di figli ed il periodo più ristretto nel quale nascevano i
figli rappresenteranno per le donne una maggiore libertà, per il ridotto
impegno delle gravidanze e quindi una profonda modificazione nella vita
familiare.
La prima guerra mondiale aveva diviso e lacerato molte famiglie: gli
uomini al fronte e le donne a casa per la prima volta nella storia d’Italia. Il
primo dopoguerra sarà, dunque, segnato da un forte desiderio di famiglia:
tradizionale, forte e sicura. Sia il fascismo che la Chiesa cavalcheranno
questa “voglia” di famiglia in chiave di restaurazione e mantenimento
dell’ordine.
Una valanga di norme legislative investirà la struttura familiare per
arginare il calo delle nascite: la celeberrima tassa sul celibato, i premi di
nuzialità e natalità, i privilegi per i coniugati con prole con i vari sussidi
alle famiglie numerose; senza ottenere grandi risultati. Il Codice civile
finalmente promulgato nel 1942 riassumeva tutta la politica familiare del
regime. La parte dedicata alla famiglia rappresentava un grosso sforzo di
razionalizzazione senza precedenti nella legislazione liberale.
La Chiesa da parte sua tenterà di riportare l’ordine nei comportamenti
devianti che apparivano già fonte di preoccupazione. Con la famosa
enciclica sul matrimonio, Pio XI, nel 1930, cercherà di entrare fin nella