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Introduzione
La lotta ai cambiamenti climatici è diventata, nel corso degli ultimi anni, la
questione più rilevante del nostro tempo e la sfida più dura che dovrà essere
affrontata nel secolo che stiamo vivendo. Nell’ultimo decennio la Terra ci ha
lanciato molteplici segnali che hanno reso palese a tutti – politici, economisti,
giuristi e semplici lavoratori e cittadini – ciò che gli scienziati denunciano da quasi
mezzo secolo: il clima della Terra si sta trasformando a causa delle eccessive
emissioni di anidride carbonica ed altri gas ad effetto serra che l’umanità sta
producendo ad un ritmo insostenibile. Non si può negare che, ormai, chiunque
abbia un minimo di sensibilità ambientale riconosca tale problema come qualcosa
di grave e da affrontare senza indugi: uragani, alluvioni, inondazioni da una parte e
siccità, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello dei mari e aumento
delle temperature dall’altra stanno affliggendo parti sempre più ampie del nostro
Pianeta e creando disagi ad un numero crescente di popolazioni. Nonostante tutto
questo, la comunità internazionale riscontra ancora gravi difficoltà nel raggiungere
un accordo concreto e globale per fronteggiare autenticamente la questione. In
particolare negli ultimi anni, diversi ostacoli si sono frapposti tra l’effettiva presa di
coscienza e la realizzazione di un’azione concreta, decisa e concertata.
Negli ultimi due decenni qualcosa è stato fatto: le Nazioni Unite hanno mosso i
primi, seppur incerti, passi già verso la fine degli anni ’80 riconoscendo il problema
e occupandosi della questione. Questi piccoli passi portarono alla conclusione della
Convenzione quadro sui cambiamenti climatici nel 1992, seguita a breve (1997)
dall’innovativo quanto criticato Protocollo di Kyoto alla Convenzione che tentò di
porre degli obiettivi concreti di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra,
6
fondamentali per arrestare il costante riscaldamento del Pianeta. Siamo ormai nel
bel mezzo dell’intervallo di tempo in cui il Protocollo avrebbe dovuto sortire i suoi
effetti e già si parla di fallimento e della necessità di trovare un’intesa che lo
sostituisca e lo proroghi. Perché? I motivi sono tanti e diversi fra di loro. Anzitutto,
grazie ai diversi studi scientifici commissionati dall’ONU all’IPCC
1
, si è scoperto
che il problema è talmente grave che per essere risolto non bastano quattro anni di
vincoli modesti ma sono necessari programmi approfonditi e di lungo termine. In
secondo luogo è fondamentale che gli obiettivi di riduzione delle emissioni
vengano perseguiti da tutti, nessuno escluso. Il Protocollo di Kyoto, oltre a non
avere obiettivi che guardino oltre la scadenza del primo periodo di attuazione
(2008-2012), ha dovuto subire sia il rifiuto consapevole degli Stati Uniti d’America
a rispettare gli obiettivi prefissati, fino a poco tempo fa il Paese che guidava tutte le
graduatorie di emissione di gas serra, che l’assenza “legale” della Cina, di recente
diventata il maggior emettitore di gas serra nell’atmosfera, poiché considerata –
troppo semplicisticamente – Paese in via di sviluppo. Come si vedrà meglio in
seguito, un accordo sui cambiamenti climatici ha assolutamente bisogno di una
partecipazione globale per funzionare e l’assenza proprio dei due Paesi che più
contribuiscono ad aumentare l’effetto serra nell’atmosfera ha reso praticamente
inefficaci i trattati conclusi fino ad oggi.
Ed è proprio da questa consapevolezza che il seguente elaborato, analizzando
concretamente gli sviluppi storico-giuridici del sistema internazionale in tema di
cambiamenti climatici e prendendo atto dei rapidi mutamenti che la comunità
internazionale sta subendo dal 1989, tenterà di mettere in evidenza sia l’aspetto
etico e morale, rappresentato dal principio dello sviluppo sostenibile e dalla sua
concreta e più efficace trasposizione nel concetto di trattamento differenziato, sia
l’aspetto, più difficile da accettare, della necessità di fare in modo che anche Paesi
finora solo marginalmente responsabili del processo si impegnino attivamente
affinché facciano la loro parte in maniera proporzionata e compatibile con il loro
inalienabile diritto allo sviluppo.
1
Per una definizione dettagliata dell’IPCC vedere p. 14.
7
Il primo capitolo si aprirà con una breve esposizione, dal punto di vista tecnico-
scientifico, del problema dei cambiamenti climatici – cause, conseguenze e
previsioni – per poi passare all’analisi dei princìpi guida che hanno ispirato la
creazione dell’intero sistema giuridico.
Il secondo capitolo descriverà le varie posizioni negoziali che hanno portato
all’adozione della Convenzione quadro e analizzerà gli articoli fondamentali che
hanno definitivamente portato la questione dei cambiamenti climatici in cima alle
agende politiche dei Governi di tutto il mondo.
Il terzo, proseguendo con l’analisi dei negoziati, concentrerà la sua attenzione sul
processo che portò all’adozione del Protocollo di Kyoto e verranno analizzati gli
obblighi che esso ha introdotto nei confronti dei Paesi industrializzati. Inoltre, si
cercherà di mettere in luce le varie posizioni che hanno determinato successi e
fallimenti del Protocollo, prima fra tutte, la complessa posizione statunitense
condizionata da diversi fattori quali, oltre all’amministrazione stessa, il Congresso e
le lobbies.
Il quarto ed ultimo capitolo analizzerà le sfide che la comunità internazionale dovrà
affrontare nel prossimo futuro: si cercherà di mettere in luce quali siano state le
problematiche che la quindicesima Conferenza delle Parti di Copenaghen non è
riuscita a risolvere e quali, invece, ha chiarito. In particolare si tenterà di descrivere
l’evoluzione che il concetto di trattamento differenziato (e conseguentemente di
“responsabilità comune ma differenziata”) sta subendo e i relativi adeguamenti che
il regime internazionale relativo ai cambiamenti climatici dovrà recepire.
Oggi, in un mondo sempre più multilaterale e già molto diverso da quello degli anni
’90, un accordo che non includa tutte le Parti e una classificazione che non
rispecchi le loro reali responsabilità e capacità tecnologico-finanziarie in misura
proporzionale è da considerarsi un fallimento. Per questo, un trattato che voglia
efficacemente rispondere alla più grande sfida ambientale che l’Uomo abbia mai
affrontato, dovrebbe innanzitutto fotografare la realtà e mettersi alle spalle tutti gli
interessi particolari che la guidano.
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Capitolo 1
Che cosa sono i cambiamenti climatici?
1.1 Il degrado dell’atmosfera
La scoperta del fenomeno del riscaldamento globale risale alla fine del
diciannovesimo secolo quando il chimico Svante Arrhenius
2
(Premio Nobel per la
chimica nel 1903) illustrò per la prima volta la teoria secondo la quale l’anidride
carbonica (CO
2
, nota anche come diossido di carbonio) avrebbe un’incidenza sul
clima. Da quel momento in avanti, la consapevolezza che l’uomo potesse influire
sul clima causando effetti di natura antropogenica è andata notevolmente
crescendo. Nella prima metà del ventesimo secolo molti scienziati credevano che
gli oceani avrebbero mantenuto costante il livello di CO
2
nell’atmosfera assorbendo
gran parte delle emissioni di natura antropogenica ma, nel 1957, questo assunto
venne messo in discussione dallo studio di Roger Revelle e Hans Suesse. Questo
trovò poi conferma durante gli anni ’60 e ’70 del Novecento: diversi chimici,
infatti, realizzarono accurate misurazioni sulla vetta del vulcano hawaiano Mauna
Loa che li portarono ad affermare che la concentrazione dell’anidride carbonica
nell’atmosfera stava progressivamente aumentando. Sulla base di questi nuovi dati,
la questione venne portata all’ordine del giorno presso i più importanti convegni
scientifici internazionali e la sua naturale evoluzione consistette nel cominciare, con
l’avvento degli anni ’80 e di nuove tecnologie più avanzate e precise, ad estenderne
ed approfondirne lo studio.
2
Svante Arrhenius è stato un chimico e fisico svedese, Nobel per la chimica nel 1903. Le sue
scoperte scientifiche sull’importanza dell’anidride carbonica per il clima sono presenti sul sito della
Fondazione Nobel http://nobelprize.org/nobel_prizes/chemistry/laureates/1903/arrhenius-bio.html
(consultazione del 2 gennaio 2010).
9
Quasi immediatamente si scoprì che non solo l’anidride carbonica ma – fra gli altri
– anche gas quali il metano (CH
4
), l’ossido di diazoto (N
2
O), l’ozono (O
3
) e, in
maniera indiretta, il vapore acqueo (H
2
O) sono altrettanto responsabili del
cosiddetto “effetto serra”. A questi vanno aggiunti anche gas di derivazione chimica
come i CFC, ossia clorofluorocarburi, che però sono già stati regolati dal Protocollo
di Montréal
3
del 1987 poiché responsabili dell’assottigliamento dello strato di
ozono. Alcuni calcoli pubblicati nel 1985 dimostrarono che tutti questi gas messi
assieme influiscono sul riscaldamento globale in misura pari all’anidride carbonica
rendendo la questione doppiamente seria e problematica rispetto a quanto previsto
in precedenza.
Ma cos’è l’effetto serra? È un fenomeno naturale che può essere descritto come la
capacità della Terra di assorbire e trattenere entro un certo livello di equilibrio
l’umidità ed il calore derivante dai raggi solari. La presenza di questi gas è dunque
fondamentale per far sì che sul nostro pianeta vi sia vita. Senza di essi, infatti, la
temperatura media sulla Terra risulterebbe intorno ai -18° Celsius mentre l’effetto
serra porta la temperatura media intorno ai 14/15°C.
Il problema del riscaldamento globale, infatti, ha per oggetto un ulteriore aumento
della temperatura media terrestre dovuto ad un’eccessiva concentrazione di questi
gas ad effetto serra presenti nell’atmosfera terrestre a causa di emissioni non più
solo di origine naturale ma anche antropica. I principali responsabili di un
incremento globale dell’anidride carbonica sono i combustibili fossili che vengono
massicciamente bruciati dall’uomo per produrre energia (responsabile del 75,2%
delle emissioni di gas ad effetto serra) utilizzata per soddisfare i consumi sempre
crescenti di elettricità e riscaldamento (32,6%) e per il settore dei trasporti (14,2%,
come automobili ed aeroplani). L’incremento di metano e ossido di diazoto, invece,
è principalmente dovuto al settore agricolo (responsabile per il 16,1%)
4
. Anche la
deforestazione contribuisce all’aumento di diossido di carbonio nell’atmosfera;
infatti le foreste, specialmente quelle tropicali, sono dei veri e propri pozzi che
3
Il Protocollo di Montreal è un trattato internazionale, firmato il 16 settembre 1987 ed entrato in
vigore il 1° gennaio 1989, che ha portato alla riduzione prima e al divieto poi di utilizzare nella
produzione di qualsiasi prodotto, ad es. bombolette spray e refrigeranti, tutte quelle sostanze che
possono minacciare lo strato di ozono. Ben 191 Stati lo hanno, ad oggi, ratificato.
4
Dati del Climate Analysis Indicators Tool (CAIT), World Resources Institute aggiornati al 2006 e
disponibili nel database online http://cait.wri.org/ (consultazione del 2 dicembre 2009).
10
assorbono e trattengono CO
2
, per questo la loro distruzione, oltre ad impedire il
regolare assorbimento, libera nell’aria ulteriore anidride carbonica prima
“naturalmente stoccata”. Dall’inizio degli anni ’90, la deforestazione avrebbe
contribuito ad un aumento di CO
2
pari circa al 15-25%.
I vari aspetti fin qui descritti portano quasi certamente ad affermare che, rispetto ai
valori precedenti la rivoluzione industriale (in particolare l’IPCC è solito utilizzare
il 1750 come anno spartiacque), la concentrazione atmosferica globale di CO
2
è
passata da un valore di circa 280 ppm
5
a quello registrato nel 2005 di 379 ppm
6
. Per
comprendere l’entità del valore registrato nel 2005 basta citare l’intervallo naturale
di CO
2
degli ultimi 650 mila anni: compreso fra 180 e 300 ppm
7
. Il metano e
l’ossido di diazoto, invece, sono cresciuti, rispettivamente, da un valore di 715 ppb
(anno 1750) a quello attuale di 1774 ppb (2005) il primo e da 270 ppb a 319 ppb il
secondo. Questa concentrazione avrebbe già causato un aumento della temperatura
della Terra pari a circa 0,7°C. Secondo il Quarto rapporto di valutazione dell’IPCC,
undici degli ultimi dodici anni (1995-2006) sono stati tra i più caldi dal 1850 in
avanti. Il trend degli ultimi cinquant’anni ha visto un aumento medio pari a 0,13°C
per decennio, ossia un valore all’incirca doppio rispetto a quello registrato negli
ultimi cento anni. Anche se la concentrazione di tutti i gas ad effetto serra dovesse
essere mantenuta ai livelli dell’anno 2000, un ulteriore incremento di circa 0,1°C al
decennio risulterebbe inevitabile vista la lenta risposta degli oceani in termini di
assorbimento ed entro il 2050 la concentrazione di gas serra nell’atmosfera
raggiungerebbe livelli doppi a quelli preindustriali (circa 550 ppm). Ma la realtà
vede un continuo aumento del flusso annuo, per questo la soglia delle 550 ppm di
CO
2
potrebbe essere raggiunta già nel 2035. Secondo molti scienziati, per
contrastare la prevista evoluzione catastrofica del fenomeno, sarebbe quantomeno
5
Ppm (parti per milione) o ppb (parti per miliardo, “1 billion” nel sistema anglosassone corrisponde
a 1 miliardo) è il rapporto fra il numero di molecole di gas serra e il numero totale di molecole di
aria secca. Per esempio: 300 ppm significa 300 molecole di gas serra per milione di molecole di aria
secca.
6
Il dato si riferisce all’ultimo rapporto dell’IPCC. I dati attuali (marzo 2010) registrati a Mauna Loa,
Hawaii, e forniti dal NOAA (National Oceanic & Atmosphere Administration – Dipartimento del
commercio del Governo degli Stati Uniti d’America) parlano di una concentrazione di CO
2
pari a
390 ppm. I dati ufficiali sono riportati nella pagina: http://www.esrl.noaa.gov/gmd/ccgg/trends
(consultazione del 18 marzo 2010).
7
IPCC, “Summary for Policymakers” in Climate Change 2007: The Physical Science Basis.
Contribution of Working Group I to the Fourth Assessment Report of the Intergovernmental Panel
on Climate Change, 2007, p. 2.
11
auspicabile che si raggiunga l’obiettivo minimo di non superare le 450 ppm entro il
2050 rispetto al già citato valore attuale pari a 379 ppm. Questo obiettivo
conterrebbe l’incremento della temperatura media a 2,0°C. Per raggiungerlo, le
emissioni globali dovrebbero toccare l’apice entro il prossimo decennio per poi
scendere di almeno il 5% l’anno, diminuendo del 70% rispetto agli attuali livelli di
emissione entro il 2050. Le stime reali, però, prevedono un aumento compreso tra
2° e 4,5°C (la previsione migliore è di 3°C).
1.2 Le conseguenze del riscaldamento globale: i cambiamenti
climatici
Il fenomeno fin qui descritto porta a delle conseguenze tangibili sull’ecosistema
terrestre. Quelle più evidenti sono riscontrabili nello scioglimento della criosfera,
ossia di quella parte della superficie terrestre coperta da acqua allo stato solido
come le calotte polari, i ghiacciai presenti sulle montagne, il permafrost (termine
che indica quelle zone del Pianeta ove il terreno è perennemente ghiacciato) etc.
Secondo alcune previsioni, i ghiacci artici potrebbero addirittura essere soggetti a
scioglimento completo nei periodi più caldi dell’anno (come in tarda estate) verso
la fine del ventunesimo secolo.
La criosfera, ovviamente, ha un ruolo fondamentale nel sistema climatico globale
ed una variazione della sua estensione può portare a mutamenti sul sistema stesso.
Ecosistemi fragili come quelli di mari, montagne e paludi rischieranno di essere
definitivamente compromessi. Ad esempio, secondo i dati dell’IPCC, una riduzione
della calotta glaciale antartica e di quella della Groenlandia ha quasi certamente
contribuito ad un innalzamento del livello dei mari tra il 1993 e il 2003 di entità
pari 3,1 mm all’anno e ci si aspetta che entro il 2100 l’innalzamento sarà compreso
tra i 15 e i 95 cm. Inoltre l’aumento di CO
2
nell’atmosfera porterà ad
un’acidificazione degli oceani provocando danni irreparabili all’ecosistema marino
– ad esempio, alla Grande barriera corallina, inclusa tra i beni protetti
dall’UNESCO
8
nel 1981. Parallelamente, la desertificazione (e con essa le ondate
8
L’UNESCO è un’organizzazione delle Nazioni Unite volta a promuovere e mantenere una lista di
“patrimoni dell’umanità” da proteggere e conservare perché considerati importanti dal punto di vista
culturale e/o naturalistico per la comunità internazionale. La Grande barriera corallina è stata inserita
12
di calore) si espanderà verso quelle regioni che attualmente godono di un clima
temperato come, ad esempio, le aree a Nord e Sud del deserto del Sahara, come
l’area del Mar Mediterraneo, provocando gravi danni per l’agricoltura: infatti i
rendimenti subiranno un calo e aumenterà il numero di persone a rischio
denutrizione. Fenomeni come El Niño – ossia una variazione dell’Oscillazione
Meridionale che solitamente si verifica ogni nove anni e che provoca gravi
mutamenti del clima quali uragani, tempeste, alluvioni nell’America centrale ma
anche periodi di forte siccità spesso legati ad incendi devastanti nella zona del
Pacifico occidentale – aumenteranno ed aumenteranno anche di intensità
provocando vittime ed ingenti costi per danni. Tutto questo potrà portare anche alla
diffusione di malattie, come la malaria, in zone dove precedentemente erano
sconosciute.
Visto l’enorme impatto che una variazione positiva dell’effetto serra (ed il
conseguente aumento delle temperature) ha sull’ambiente, il più appropriato
termine “cambiamenti climatici” ha ultimamente sostituito il più popolare
“riscaldamento globale”. Esso infatti tende a racchiudere sia le cause che le
conseguenze del fenomeno fin qui descritto. Ed è per questo motivo che verrà
preferito anche nel prosieguo di questo elaborato.
in questa lista nel 1981 poiché contiene “più di 400 tipi di coralli, 1500 specie di pesce, 4000 tipi di
molluschi. Inoltre è considerata di enorme interesse scientifico poiché è l’habitat di specie a rischio
di estinzione come il dugongo e la tartaruga verde”. Fonte: http://whc.unesco.org/en/list/154.
13
Figura 1 - Temperatura media (a), livello dei mari (b) e copertura nevosa nell'emisfero
settentrionale (c) tra il 1850 ed oggi
9
1.3 Dai primi studi scientifici all’IPCC
Come accennato nei precedenti paragrafi, il problema dei cambiamenti climatici
che successivamente ha portato all’adozione della Convenzione quadro delle
Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) del 1992, ha dovuto affrontare
diverse fasi suddivisibili in tre periodi temporali
10
. Il primo periodo è quello
9
Immagine tratta da IPCC, “Summary for Policymakers”, op. cit., p. 3
10
Bodansky D., “Prologue to the Climate Change Convention” in Mintzer I. M., Leonard J. A.,
Chadwick M. J. (a cura di), Negotiating Climate Change: the Inside Story of the Rio Convention,
Cambridge, Cambridge University Press, 1994, pp. 46-47.