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1.1. INTRODUZIONE AL TEMA
In Italia le banche hanno sempre ricoperto un ruolo di centrale importanza
nell’intermediazione, sia a livello creditizio sia mobiliare. A questo fenomeno
si è per lungo tempo associata una debolezza strutturale e operativa del
mercato azionario in genere e del suo più importante e famoso comparto: la
Borsa. La ragione di questa fragilità è da ricercarsi sostanzialmente nella
mancanza di una compiuta normativa, che ha impedito il radicarsi di principi
chiave quali la trasparenza, la correttezza e la stabilità. Molti autori sono
pressoché concordi nel ritenere che tutto ciò sia stato determinato da una
precisa volontà delle banche in tal senso: esse, infatti, avrebbero per lungo
tempo ritenuto “pericolosa” la presenza di un mercato mobiliare “forte”,
perché esso avrebbe potuto indebolire il loro ruolo di “finanziatrici delle
imprese”. Oggi, invece, questo tipo d’approccio non ha più ragion d’essere e il
convincimento che le banche abbiano bisogno di borse robuste per operare al
meglio sembra ormai totalmente radicato. Per comprendere la normativa
italiana attuale in materia di banca e d’intermediazione bisogna conoscere i
passaggi storici fondamentali che ad essa hanno portato; pertanto, è opportuno
darne una breve descrizione.
1.2. IL MODELLO FRANCESE
Il primo modello di Borsa che si è affermato in Italia è quello francese, che è
stato adottato nel nostro paese con la legge 6 luglio 1862, n°680. I punti chiave
di questo documento, ancora molto lontano dall’aver formulato una
definizione anche solo simile a quella che oggi si ha di borsa, erano i seguenti:
ξ Le borse dovevano essere istituite mediante decreto reale;
7
ξ Su di esse si potevano negoziare indifferentemente titoli o merci;
ξ La negoziazione doveva avvenire esclusivamente tramite specifici
operatori, gli agenti di cambio, pena la nullità dei contratti stipulati;
ξ Con la conclusione dei contratti si doveva giungere alla determinazione
del prezzo di scambio dei beni negoziati;
ξ Gli agenti di cambio operavano in nome proprio ma per conto altrui:
non potevano compiere operazioni per loro stessi e non erano
considerati commercianti;
ξ Il loro compenso era stabilito dalle Camere di Commercio, le quali
avevano anche il compito di vigilare su di loro;
ξ Le Camere di Commercio dovevano fornire tutte le strutture e i servizi
necessari per operare sul mercato.
La struttura della borsa era quindi di natura pubblica e vi era un sostanziale
monopolio degli agenti di cambio per quanto concerneva le negoziazioni.
Tutto questo era però sola apparenza: di fatto fin da subito si formarono degli
“accordi sottobanco” fra gli agenti di cambio e le banche, accordi con i quali gli
scambi (che dovevano essere teoricamente compiuti nelle borse) si svolgevano
in realtà “nelle private case dei commercianti, nei privati studi dei banchieri”1, e
venivano poi solo formalizzati in Borsa. E’ evidente come una situazione del
genere abbia influito negativamente sul ruolo delle borse, relegandole in una
posizione assolutamente marginale rispetto alle banche, che invece, pur non
avendone il diritto, erano i soggetti attraverso cui transitavano tutte le
operazioni.
1
Costi, Il mercato mobiliare (2000), pagina 20.
8
1.3. IL MODELLO ANGLOSASSONE
Dopo il Codice di Commercio del 1865, ne è stato introdotto, nel 1882, uno
nuovo, nel quale si sanciva il passaggio dal modello francese a quello inglese.
Questo nuovo regolamento consentiva di completare la legge allora esistente
perché in esso si dettavano non solo norme riguardanti la borsa ma anche le
banche. Infatti, per ciò che attiene la borsa, si affermava sostanzialmente che gli
agenti di cambio non erano più pubblici ufficiali e che potevano compiere,
dietro versamento di una cauzione e dietro concessione di un’apposita
autorizzazione da parte delle borse locali, non solo operazioni in nome proprio
e per conto altrui, ma anche per proprio conto. Ciò determinava una
trasformazione del modo di intendere la borsa: essa non aveva più natura
pubblica bensì privata ed era basata sul principio del localismo territoriale2. Dal
punto di vista delle banche, invece, il codice si limitava a regolare, peraltro in
modo abbastanza sommario, le operazioni che queste potevano compiere.
L’attività bancaria era allora concepita come una vera e propria attività
d’impresa e i vincoli di trasparenza cui erano soggette le banche erano molto
limitati: consistevano semplicemente nel depositare mensilmente una sorta di
rendiconto sulla propria situazione patrimoniale3.
1.4. LE ALTRE EVOLUZIONI DELL’’800
In questo secolo, e prioritariamente nella sua seconda metà, è stato avviato il
fenomeno del “pluralismo bancario”. Esso consisteva nel fatto che non vi era
più un unico tipo di banca bensì, accanto agli istituti speciali e alle società
anonime specializzate nell’erogazione del credito, si affermavano le Casse di
2
Costi, Il mercato mobiliare (2000), pagine 20, 21 e 22.
3
Antonucci, Diritto delle banche (1997), pagina 2.
9
Risparmio e quelle Rurali, ciascuna delle quali si distingueva dalle altre per la
peculiarità del proprio statuto. In questo periodo non esisteva ancora, come già
detto, una normativa organica in materia di banche e pertanto l’operatività
delle stesse era rimessa ai principi di “buona condotta bancaria”. Per spiegare
cosa s’intendesse all’epoca con “buona condotta bancaria” si può riportare
un’interessante affermazione di Pantaloni: “E’ ovvio che ogni banca non può
dare altro credito di quello che riceve… Orbene, se i depositi si possono
richiamare da un giorno all’altro o con preavviso di pochi giorni, e con tenue
limitazione di somma, altrettanto facilmente realizzabili devono essere le
attività della banca, cioè sicuri e brevi i fidi e prontamente vendibili di titoli. La
bilancia tra i debiti che possono venire a scadenza e le attività che entro la stessa
epoca si possono realizzare deve ognora essere perfetta se la banca non si vuole
resti esposta al fallimento. Quindi, la cerchia delle operazioni possibili resta
rigorosamente definita, per quanto variamente a seconda dei mercati”.4
1.5. LA LEGGE 20 MARZO 1913, n°272 E SUE SUCCESSIVE INTEGRAZIONI
La struttura organizzativa che il Codice di Commercio del 1882 aveva delineato
per il sistema borsistico italiano presentava il grosso limite di aver reso
relativamente semplice a chiunque l’ingresso nel mercato. Tutto ciò aveva
inevitabilmente causato una situazione di instabilità, per far fronte alla quale
venne emanata la legge 20 marzo 1913, n°272 integrata poi dal regolamento
approvato con regio decreto 4 agosto 1913, n°1068. Essa aveva ad oggetto “le
borse di commercio, le mediazioni, e le tasse sui contratti di borsa” e i suoi
contenuti essenziali erano i seguenti:
ξ La struttura organizzativa della Borsa tornava ad essere quella pubblica;
4
Antonucci, Diritto delle banche (1997), affermazione di Pantaleoni pagine 3 e 4.
10
ξ Agli agenti di cambio era nuovamente fatto divieto di compiere
operazioni per conto proprio;
ξ Il controllo era spostato in capo al Governo.
La legge sanciva, quindi, una sorta d’unione fra il “pubblico” e il “privato”
perché le attività di negoziazione erano svolte presso sedi pubbliche, così come
pubblici erano i soggetti preposti alla sorveglianza, mentre coloro che
operavano erano privati. La normativa di base è stata poi integrata da una serie
di altre norme che, anche se spesso non citate, hanno, di fatto, contribuito a
rendere più organica la disciplina. Fra di esse è possibile ricordare la legge sulle
tasse sui contratti di borsa, con la quale sono state formulate idee innovative
circa la liquidazione coatta di borsa e l’emissione dei “certificati di credito” in
caso d’insolvenza di borsa (1923), la legge relativa all’istituzione di un “ruolo”
per gli agenti di cambio (1925), le norme sulla struttura e sul contenuto dei
listini di borsa (1926), nonché l’importante riforma dell’allora ministro De
Stefani, con la quale gli agenti di cambio assumevano la qualifica di pubblici
ufficiali (1925).
1.6. IL PERIODO BELLICO
Gli anni della guerra sono stati una fase molto difficile, sia per la Borsa sia per le
banche: per la prima i problemi derivavano dal fatto che tutto il risparmio dei
cittadini era assorbito dallo Stato per sostenere lo sforzo bellico ed era quindi
fatto confluire nei titoli da esso emessi, lasciando ben poche speranze al
collocamento di strumenti privati; per le seconde, invece, la crisi s’innescò a
causa degli enormi sforzi in termini di finanziamento che esse dovettero
affrontare, prima per sostenere i costi del conflitto e poi per consentire la
riconversione dei grandi gruppi industriali, in crisi alla fine della guerra. Un
esempio su tutti è quello della Banca di Sconto Italiana che aveva finanziato in
11
modo assolutamente spropositato rispetto alle proprie possibilità il gruppo
Ansaldo, tanto da fallire. Questo “evento estremo” aveva mostrato
chiaramente i grossi limiti del sistema finanziario italiano, per far fronte ai quali
è stata varata la legge bancaria del 1926.
1.7. LA LEGGE BANCARIA DEL 1926
Tale legge si poneva come obiettivo la prevenzione di pericolose crisi bancarie,
che, se associate ai fenomeni di “run e panico”, avrebbero potuto creare seri
problemi, non solo al singolo istituto di credito interessato bensì al sistema
creditizio nel suo complesso. Il primo intervento degno di nota è stato
sicuramente l’istituzione della Banca d’Italia. In realtà essa era già stata creata
nel 1893 attraverso la fusione di tre (Banca Nazionale del Regno, Banca
Nazionale toscana e Banca toscana di credito) delle sei banche che all’epoca
fungevano da “Istituti d’emissione. Fino al 1926, quindi, il potere di emettere
moneta stava in capo a tre soggetti: la Banca d’Italia, il Banco di Napoli e il
Banco di Sicilia, mentre per quanto riguardava la Banca Romana, pur essendo
anch’essa titolare di tale diritto, era stata posta in liquidazione a causa della crisi
che l’aveva colpita. La legge del 1926 ha compiuto un intervento radicale sul
sistema bancario italiano, e i punti chiave di tale intervento sono i seguenti:
ξ Venne attribuito alla Banca d’Italia il diritto esclusivo all’emissione della
moneta;
ξ Sempre alla Banca d’Italia venne assegnato un ruolo di vigilanza sulle
banche del paese, obbligando queste ultime ad iscriversi in un apposito
albo e a richiedere una preventiva autorizzazione per esercitare l’attività
bancaria;
ξ Venne vietato alle banche di concedere prestiti per un importo
superiore al 20% del C.S. dell’impresa cliente;
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ξ Venne sancito l’obbligo alla presentazione di bilanci annuali nonché di
situazioni periodiche.
Nonostante la portata di questa legge, i problemi non erano stati
completamente risolti: la relazione tra banca e industria era comunque molto
stretta, sicché si giunse all’emanazione della legge bancaria del 1936.
1.8. LA LEGGE BANCARIA DEL 1936
La legge bancaria del 1936 può essere definita come la prima legge veramente
organica e completa che l’Italia abbia avuto, con la quale “si è data una risposta
alle inefficienze dei mercati dell’epoca riconducendo l’attività bancaria tipica al
finanziamento a breve termine”.5 Infatti, la caratteristica centrale della suddetta
legge era proprio quella di differenziare le banche in base ad un criterio di
specializzazione temporale ed operativa: da un lato, vi erano banche che
attuavano una raccolta a breve termine e impiegavano il denaro sulla base del
medesimo riferimento temporale, mentre, dall’altro, vi erano banche che
raccoglievano e quindi impiegavano risorse sul medio-lungo termine. Le prime
erano chiamate “banche ordinarie” e si distinguevano in:
1. Istituti di credito di diritto pubblico;
2. Banche d’interesse nazionale;
3. Banche popolari e cooperative;
4. Casse rurali e artigiane;
5. Casse di risparmio e monti di pegno;
6. Istituti centrali di categoria;
5
Draghi, Il processo di riforma dell’ordinamento finanziario: dal testo unico bancario al testo
unico della finanza (Bancaria n°6 del 1995).
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le seconde erano dette “Istituti di credito speciale”. Tutto ciò sanciva
inevitabilmente la fine della “banca mista” intendendo con questa definizione
una banca in cui, a fronte di una raccolta prevalentemente a breve termine, si
attua invece una strategia d’impiego delle risorse tanto a breve termine quanto
a medio-lungo. Rispetto a tale concetto, esiste anche una definizione più
“dottrinale”: in essa si afferma che “l’aggettivazione non si riferisce all’assenza di
specializzazione operativa e temporale, ma al mix d’imprenditorialità bancaria e
non bancaria.”6 Oltre a ciò, la legge del ’36, introduceva anche altre importanti
novità, tra le quali è opportuno ricordare:
ξ La banca, nella sua attività di raccolta del risparmio e d’erogazione del
credito, svolgeva una funzione d’interesse pubblico e, proprio in virtù
dell’importanza del suo servizio, doveva essere oggetto di controllo;
ξ Doveva essere sempre garantita la separatezza fra banca e industria.
Quest’obiettivo veniva perseguito mediante una norma la quale
impediva alle banche di acquisire delle partecipazioni in imprese
industriali in misura eccedente certi limiti fissati. Come risulta ovvio,
quest’imposizione aveva come scopo quello di evitare il ripetersi di
eventi sicuramente destabilizzanti per il sistema economico italiano,
quali il già ricordato fallimento della Banca di Sconto Italiana;
Per concludere si può aggiungere che “la configurazione data al sistema
creditizio era tale da mimare il funzionamento del mercato mobiliare,
canalizzando il risparmio del pubblico verso gli investimenti attraverso una rete
di passaggi tra intermediari specializzati, nella quasi totalità appartenenti alla
sfera pubblica. L’obiettivo, senz’altro conseguito, era quello di garantire un
adeguato supporto finanziario allo sviluppo del paese in condizioni di stabilità.
6
Antonucci, Diritto delle banche (1997), pagine 4 e 5.
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In queste tre caratteristiche: specializzazione, pubblicità (statalismo), assenza di
mercati mobiliari si sussume la realtà disegnata dalla legge del 1936 e si
individuano le strade della successiva evoluzione”.7
1.9. GLI ANNI ’70 E ’80
Tanto dal punto di vista bancario quanto da quello borsistico non si sono
avute più grosse innovazioni fino agli anni ’70, e questo nonostante che la
caduta del regime fascista avrebbe potuto rappresentare un buon momento per
intervenire. La legge bancaria del 1936 era stata, dato l’ambiente socio-
economico dell’epoca, un buon punto di partenza. Tuttavia, essa presentava il
limite di aver contribuito a disincentivare lo sviluppo del mercato mobiliare,
determinando una struttura finanziaria che ruotava totalmente intorno agli
intermediari8. Nell’arco degli anni il quadro di riferimento era andato
cambiando: si era realizzata una sostanziale omogeneizzazione fra le banche,
nonché una despecializzazione temporale delle stesse; per questo ormai
assolutamente anacronistica risultava essere la legge del ’36. Anche sotto il
profilo dei mercati mobiliari la situazione non era migliore: la loro debolezza
strutturale era divenuta pressoché insostenibile. Due erano i problemi da
affrontare: la riforma della disciplina delle società per azioni quotate in Borsa,
da un lato, e la revisione delle norme attinenti al funzionamento dei mercati,
nonché al corretto comportamento degli operatori, dall’altro. Fra i due venne
ritenuto di più stretta attualità il secondo, sicchè venne emanato il d.l. 8 aprile
1974, n°959 che dettava regole relative al “mercato mobiliare ed al trattamento
7
Draghi, Il processo di riforma dell’ordinamento finanziario: dal testo unico bancario al testo
unico della finanza (Bancaria n°6 del 1995).
8
Draghi, Il processo di riforma dell’ordinamento finanziario: dal testo unico bancario al testo
unico della finanza (Bancaria n°6 del 1995).
9
Jannuzzi, La Consob. Caratteri e funzioni: l’informazione societaria e le borse. Controlli e
sanzioni (1990), pagine 16, 17 e 18.
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