4
rivoluzionario in quanto ha rappresentato il contesto da cui si è potuta sviluppare
la rivoluzione einsteiniana.
Di grande rilievo però è un’ altra caratteristica che non viene mai a mancare nella
filosofia del Geymonat, anche se viene col tempo maggiormente sistematizzata, e
che a mio parere è il punto che ne garantisce l’autonomia e l’originalità di
pensiero: il fattore storicità. Da questo punto di vista penso che il maggior
impulso gli venga offerto dalla tradizione degli studi italiani e, per quanto
riguarda l’analisi della scienza, da Federico Enriques. A partire da questo punto
infatti egli stesso si distingueva dal neo-positivismo e ne criticava alcuni aspetti.
La sistematizzazione filosofica avviene quindi, partendo da questi punti,
attraverso la ricerca e l’analisi metodologica e storica dei criteri della scienza fino
alla loro riorganizzazione in una visione realista e dialettica. Possiamo dire, in
seguito all’analisi fatta, che non vi è un passaggio da una filosofia ad un’altra
nella storia del pensiero geymonatiano ma una vera e propria evoluzione che si
sviluppa certamente dai contesti filosofici a lui contemporanei ma che si presenta
fin dall’inizio con spunti ricchi di originalità.
La concentrazione dello studio su questo tipo di analisi lascia ai margini della
discussione molti risvolti dell’ attività del Nostro. L’impegno civile ad esempio,
che abbiamo sfiorato fin dalla sua personale decisione di partecipare direttamente
alla guerra di Resistenza, si dirama anche per tutta la storia della Repubblica
italiana e lo si può ben analizzare nei tanti testi e saggi scritti nelle maggiori
riviste italiane e nei testi editi nel tempo che ne raccolgono i più significativi:
“Contro il moderatismo” e “La ragione e la politica” possono essere considerati i
più significativi. Questa analisi presupporrebbe anche l’affrontare i rapporti del
Nostro con le organizzazioni politiche italiane, il Partito Comunista in primo
piano, e le sue personali posizioni all’esplodere delle contraddizioni degli anni
sessanta e settanta. Ciò che comunque maggiormente si nota è il suo impegno e la
sua concentrazione, anche in questi frangenti, verso un rinnovamento culturale
generalizzato. A questa analisi si potrebbe addirittura affiancare il suo impegno
didattico, presente anch’esso già agli inizi della carriera universitaria, che si
sviluppa e si manifesta nelle battaglie accademiche portate avanti per introdurre le
5
cattedre di Filosofia della scienza e il metodo storicista nello studio della stessa.
Al di fuori dell’ambito accademico però sarebbe di rilievo cercare di analizzare la
vera e propria pedagogia geymonatiana.
Continuando in realtà potremo sicuramente trovare altre direttive che ci farebbero
osservare la figura del Geymonat in tutte le sue angolazioni e sfumature.
Un carattere fondamentale però da citare, e che ho precisato anche nello sviluppo
della tesi, è il carattere morale che assume il pensiero del Nostro, anche questo su
impulso della filosofia italiana di inizio novecento. Un carattere morale che lo
porta spesso ad un’autoanalisi, soprattutto nei periodi di solitudine della guerra
partigiana, e che rappresenta, come appare nel paragrafo conclusivo della tesi, il
nucleo più forte di coerenza della sua mentalità e filosofia. La coerenza come
ricerca della coerenza e della sincerità, soprattutto verso noi stessi, è il messaggio
forse un pò juvaltiano che più di tutti deve essere appreso dallo studio profondo e
critico seguito da Ludovico Geymonat lungo l’arco di tutta la sua vita.
6
I PARTE
LA CONTESTUALIZZAZIONE
LOGICO-MATEMATICA
TRA ‘800 E ‘900
7
CAPITOLO PRIMO
LA QUESTIONE DEI FONDAMENTI
1. Cantor, Dedekind e l’ horror infiniti
Tutto ciò che riguarda lo sviluppo matematico del ventesimo secolo è da
inquadrare, o meglio, deve partire dall’analisi della questione dei fondamenti. Per
fondamenti si intende il tentativo di analizzare a fondo la matrice su cui si
fondano le scienze in maniera tale da fornire loro piena autonomia. La questione
non riguarda solo gli ultimi secoli ma domande e problemi posti fin dall’origine
del pensiero umano: come tali infatti possono essere ricondotte, ad esempio, la
questione pitagorica dei numeri irrazionali e i noti paradossi di Zenone. E’ vero
però che solo con la specializzazione dell’ ottocento una simile ricerca diventa
materia a se stante, diventa appunto ricerca. La prima fase moderna di tale studio
può essere inquadrato nelle analisi che prendono piede da Cantor e Dedekind fino
alla prima sistematizzazione filosofica di Hilbert e Frege: tutto nasce dalla culla
della matematica, si sviluppa nella logica e in seguito si riversa su tutte le scienze
particolari.
Quando si parla di Cantor la prima cosa che viene in mente è sicuramente la teoria
degli insiemi o aggregati da cui effettivamente prende piede l’insegnamento della
matematica fin dalla scuola dell’obbligo. Cosa sono gli insiemi? Essi sono una
collezione di elementi o meglio, per dirla in maniera tecnica, una “riunione in un
tutto di oggetti determinati della nostra intuizione o del nostro pensiero, ben
distinti fra loro, che vengono chiamati elementi”
1
. Gli insiemi dei numeri Reali ad
esempio o dei numeri Dispari, ma estendendo fuori dalla matematica potrebbero
essere l’insieme dei libri consultati per questa tesi o le penne utilizzate per
prendere appunti, facendo naturalmente le debite differenze.
Ora consideriamo due insiemi e raffrontiamoli: l’insieme N dei numeri naturali e
l’insieme P dei numeri pari. Possiamo dire che tutti gli elementi di P siano
1
R. Maiocchi, Storia della scienza in occidente, Milano 2000, p. 421.
8
compresi anche nell’insieme N ma che viceversa, non è vero il contrario. In
questo caso parliamo di P come sottoinsieme di N. Consideriamo ora “l’insieme
dei nani di Biancaneve” e “l’insieme dei giorni della settimana”: notiamo subito
come essi abbiamo lo stesso numero di elementi, in questo caso parliamo di
insiemi di pari potenza o, utilizzando il termine tecnico, equipotenti. È nel
concetto di potenza che verte la rivoluzione cantoriana o meglio nel concetto di
potenza dell’infinito e nell’ idea della possibilità di costruire una gerarchia tra
insiemi infiniti: essi, ci svela Cantor, non sono tutti equipotenti. Non si può
comprendere la forza di tale cambiamento se non si conosce e percepisce quello
che già durante la scolastica veniva chiamato l’ horror infiniti , la difficoltà di
constatare un infinito reale e attuale, per usare i termini aristotelici; una tale idea
era considerata totalmente assurda in quanto l’infinito poteva essere solamente
percepito in potenza e non in atto, la posizione aristotelica permane ancora
nell’ottocento.
“L’analisi, ossia lo studio dei processi infiniti, era stata concepita da Newton e
Leibniz come una disciplina matematica concernente grandezze continue, […]
mentre la teoria dei numeri aveva evidentemente come proprio campo di studio
quello rappresentato dall’insieme discreto dei numeri naturali […]. La teoria dei
gruppi originariamente aveva riguardato insiemi discreti di elementi; Klein aveva
però concepito la possibilità di unificare sotto il concetto di gruppo sia gli aspetti
discreti che quelli continui della matematica. Il XIX secolo fu infatti un periodo in
cui vennero stabilite correlazioni fra branche diverse della matematica:
l’aritmetizzazione dell’analisi […] era un aspetto di questa tendenza generale. Il
termine essenziale dell’analisi è, naturalmente, quello di funzione […]”
2
. Senza
soffermarci sullo specifico sviluppo della matematica dell’ottocento possiamo dire
che ai fini della nostra discussione vi sono alcuni concetti in questa citazione che
ci riguardano da vicino e che dobbiamo fissare nella memoria: il concetto di
infinito, quello di continuo, l’aritmetizzazione dell’analisi e il termine di funzione.
2
C. B. Boyer, Storia della matematica, Milano 1980, p. 633.
9
Restringendo il campo sosteniamo che il primo a dare una spiegazione aritmetica
dell’infinito, senza passare per i concetti della geometria è stato Dedekind, grande
amico di Cantor. La formulazione che ne dà è la seguente: “Un sistema S si dice
infinito quando è simile a una propria parte; in caso contrario S si dice un insieme
finito”
3
. Il passo successivo è proprio quello di Cantor il quale si accorge - egli
stesso in una lettera a Dedekind sosterrà “lo vedo, ma non ci credo” – come la
dimensionalità visiva non costituisca il criterio per la valutazione di una potenza
di un insieme: l’insieme di punti di un segmento ad esempio ha la stessa potenza
di un insieme di punti di una retta. L’insieme P dei numeri pari, possiamo dire per
tornare a un nostro primo esempio, è infinito quanto l’insieme N dei numeri
naturali del quale rappresenta un sottoinsieme. La valutazione della loro gerarchia,
della differente potenza - dirà Cantor - è data dalla densità. E’ facile intuire come
una tale deduzione tolga delle basi fisse alle spiegazioni matematiche, tutto pare
più nebuloso e senza punti e figure di attaccamento.
Ad esempio cosa ne è a questo punto del concetto di numero? Uno dei punti
cruciali della ricerca dei fondamenti è proprio la risposta a questa domanda. Ciò
che più si consolida a questo punto è l’idea già presente tra alcuni matematici che
i numeri reali non vanno più concepiti come grandezze intuitive ma come strutture
concettuali. Cantor stesso ad esempio parlava, per quantificare la potenza di un
insieme, di numeri transfiniti in maniera tale che essi non si confondessero con i
sottoinsiemi quantificati. Il tentativo di Cantor di fare della teoria degli aggregati
una branca particolare della matematica si inserisce nel tentativo di fondare la
matematica come scienza autonoma, di costruire un sistema completamente
coerente della matematica che accomuna una generazione di matematici
dell’ottocento. Naturalmente, come tutti i cambiamenti rivoluzionari della scienza,
le nuove teorie si scontrarono con lo zoccolo duro di una tradizione che resiste
tenacemente al cambiamento e che potrebbe essere semplificato nelle parole
troppo pitagoriche del matematico Kronecker, il più grande avversario di Cantor:
“Dio ha creato i numeri interi; tutto il resto è opera dell’uomo”
3
Ivi, p. 649
10
2. Le geometrie non euclidee
1) Si possa tracciare una retta da un punto qualsiasi ad un punto qualsiasi;
2) Si possa prolungare indefinitamente una linea retta;
3) Si possa descrivere un cerchio con un centro qualsiasi e un raggio
qualsiasi,
4) Tutti gli angoli retti siano uguali;
5) Se una retta che interseca due altre rette forma dalla stessa parte angoli
interni inferiori a due angoli retti, le due rette, se estese indefinitamente, si
incontrano da quella parte dove gli angoli sono inferiori a due angoli retti.
Questi esposti sono i cinque postulati su cui si basa la geometria euclidea. Per
secoli essa è stata la base degli studi geometrici ed il metodo degli “Elementi” è
stato il fondamento di ogni ragionamento deduttivo: dati alcuni postulati è
possibile realizzare conseguentemente costruzioni geometriche rigorose. Bisogna
puntualizzare che, dal punto di vista euclideo, il metodo in realtà era abbastanza
ingenuo e che il termine “assiomatizzazione” la storia della scienza lo fornirà più
avanti nel tempo. Gli stessi “Elementi” e gli stessi suoi postulati subiranno delle
variazioni e delle integrazioni col passare dei secoli e questa permanenza di fondo
non fa che confermare come il testo di Euclide sia uno testi più importanti della
storia della matematica. Il V postulato ad esempio col tempo assumerà una
formulazione differente e verrà esposto come il postulato delle parallele nel
seguente modo:
“data una linea retta ed un punto esterno ad essa, per tale punto passa una e
soltanto una retta giacente nello stesso piano della prima e parallela ad essa”.
Intuitivamente la verità dei postulati sta nella loro evidenza, essi sono la base di
partenza per la costruzione geometrica e non possono essere ridotti ad altri. Da
questo punto di vista però il V postulato ha sempre dato luogo a dei sospetti: è
esso stesso evidente di per sé o è semplicemente una conseguenza dei primi
quattro? Per secoli i matematici si sono posti il problema di spiegarlo fino a che
11
nell’ottocento non si è posto il problema in termini differenti. Durante i primi
secoli del XIX secolo tre matematici simultaneamente diedero inizio, con le loro
scoperte, a quella che viene definita geometria non-euclidea. I loro nomi sono
Lobacevskij, Ostrogradskij e Janos Bollai anche se per varie vicissitudini storiche
sarà soprattutto il primo ad essere ricordato. L’idea originale è stata, anziché
cercare di derivare il V postulato dai precedenti, quello di tentare di costruire una
geometria assumendo come V postulato uno differente a quello euclideo:
“Dati una retta ed un punto esterno ad essa esistono più rette giacenti sullo stesso
piano passanti per il punto e parallele alla retta data”
L’inizio della geometria non euclidee viene datato nel 1829 anno di pubblicazione
di “Sui principi della geometria” di Lobacevskij, la nuova geometria dovette
comunque aspettare diversi decenni prima di potersi vedere affermata e fu dopo le
spiegazioni e teorizzazione del matematico Riemann che essa iniziò ad essere
considerata a pieno titolo . L’ innovazione del matematico tedesco stava nel
costruire la geometria non partendo dal postulato delle parallele ma nell’estendere
il concetto di spazio e rendere in tal modo la geometria euclidea come un caso
particolare di una geometria più estesa. Se considerassimo la geometria euclidea
ci accorgeremmo che essa è strettamente riferita ad uno spazio piano a due
dimensioni, ma senza farci distrarre dal foglio di carta e rivolgendo lo sguardo
nella realtà non possiamo non notare come esso sia tridimensionale. Riemann in
realtà parlava di uno spazio n-dimensionale: “un modello di questa geometria è
dato dalla interpretazione di “piano” come superficie di una sfera e di “retta”
come cerchio massimo della sfera stessa”
4
. In tal modo saltava non solo il
postulato delle parallele ma anche la considerazione che la somma interna degli
angoli di un triangolo fosse di 180°.
Comunque, senza inoltrarci troppo nelle discussioni estremamente tecniche,
dobbiamo fare un salto e reintrodurre il nostro discorso all’interno di quella che
4
Ivi, p. 625.
12
abbiano chiamato “questione dei fondamenti”. Si inizia a parlare di fondamenti
della geometria a partire dal testo di Hilbert (“Fondamenti della geometria”
appunto) che fu il primo a “darle un assetto puramente formale e assiomatico
quale era riscontrabile nell’algebra e nell’analisi”
5
, “bisognava abbandonare il
livello empirico-intuitivo delle vecchie idee geometriche, e si dovevano concepire
i punti, le rette, i piani semplicemente come elementi di certi insiemi dati. La
teoria degli insiemi, dopo essersi impadronita dell’ algebra e dell’analisi, stava ora
invadendo la geometria”
6
.
Possiamo notare più apertamente come la geometria dall’ottocento si ricostruisca
abbandonando l’idea di considerare gli assiomi come assoluti, nel momento in
cui si incrina tale assolutezza viene aperta la strada allla costruzione di geometrie
differenti. Ma a questo punto viene spontaneo chiedersi, se gli assiomi sono
asserzioni arbitrarie dove sta la validità della matematica e della geometria?
Rispondiamo con un’affermazione di Reichenbach: “Se la matematica non deve
necessariamente usare certi sistemi di assiomi, ma è in condizione di impiegare
tanto l’assioma a quanto l’assioma non-a, allora l’asserzione a non appartiene alla
matematica, e la matematica è esclusivamente la scienza dell’implicazione, ossia
delle relazioni aventi la forma “se… allora…”; conseguentemente, per la
geometria in quanto scienza matematica non v’è nessun problema che concerna la
verità degli assiomi. Questo problema apparentemente insolvibile si rivela uno
pseudo-problema”
7
.
Qua sta la grande importanza della discussione sui fondamenti, nella capacità e
consapevolezza di abbandonare quella che Reichenbach chiamerà in seguito
l’ansia della certezza e sprigionare la ricerca priva di qualsiasi zavorra di assoluti.
5
Ivi, p. 698.
6
Ivi, p. 699.
7
H. Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo, Bologna 1961, p. 31.
13
3. La nascita del logicismo: Frege
L’importanza di Gottlob Frege sta nell’aver smosso la logica pressoché ferma
alle teorizzazione di Aristotele, le sue costruzioni prendono piede dalla
constatazione dell’inadeguatezza della logica tradizionale e il suo sviluppo nel
ribaltarne il punto di vista. In realtà dobbiamo dire che sin dall’alba del pensiero
umano vengono tramandate due differenti logiche.
Quando si parla di logica aristotelica è facile ricordare il sillogismo. Pochi non
conoscono la seguente serie:
Tutti gli uomini sono mortali
Socrate è un uomo
Socrate è mortale
L’importanza di Aristotele sta nell’aver guardato, a differenza di Platone, al
mondo degli oggetti e nell’aver rilevato l’importanza degli universali. La scienza
consta nel passaggio dall’universale al particolare e l’arte del sillogismo ne è il
suo metodo. Come si vede in realtà tale arte è una catena di premesse e
conseguenze resa possibile da un termine medio, in questo caso “Uomo”, che
nasconde un ragionamento circolare. La formulazione, da cui potremo partire per
spiegare tutta la filosofia aristotelica, è basata sulla “struttura «(s)oggetto-
predicato», dove per «(s)oggetto» si intende qualunque cosa che fa parte del
mondo (indicata da un sostantivo), e per predicato qualunque modo di pensare a
oggetti (attraverso aggettivi e verbi che ne descrivono proprietà ed azioni)”
8
.
Reintroduciamo ora un altro concetto, quello dell’inferenza “se… allora…” che
già abbiamo visto nella citazione reichenbachiana e sveliamo subito che esso è la
base dello studio della nuova logica. In realtà esso, se notiamo bene, è il filo
trasparente presente dietro al sillogismo e Aristotele stesso ne parla ma come
conseguenza della struttura interna, del rapporto tra termini statici. Se tale logica
è definita “predicativa” la logica che astrae dalle strutture dei ragionamenti è detta
8
P. Odifreddi, Il diavolo in cattedra, Torino 2003, p. 131.
14
“proposizionale” ed è incentrata sull’analisi dei quattro connettivi: congiunzione
(«e»), disgiunzione («o»), negazione («non») e implicazione («se… allora…»).
“La storia della logica proposizionale è sostanzialmente la storia delle gesta di
questi quattro moschettieri. Come nel romanzo di Dumas, che nel titolo si riferisce
soltanto a tre di essi, ma è in realtà la storia del quarto, anche la logica
proposizionale si concentra spesso e volentieri su negazione, congiunzione e
disgiunzione […], ma è in realtà un teoria dell’implicazione: e
comprensibilmente, visto che mediante questo connettivo si intende descrivere la
cruciale nozione di deduzione”
9
.
I primi ad astrarre i connettivi furono gli Stoici che in sostituzione della struttura
statica di Aristotele preferirono una struttura interna in senso relazionale. Essi
furono attratti dall’idea del continuo e partendo dai paradossi di Zenone della
scuola parmenidea “arrivarono a cogliere più profondamente di ogni altra scuola
filosofica dell’antichità alcune proprietà dei concetti di infinitesimo e di infinito,
ad esempio si resero ben conto che mentre negli insiemi vale la proprietà che il
tutto è più grande di una parte, questo non vale per gli insiemi infiniti. Le loro
notevoli intuizioni non furono però comprese dai contemporanei e vennero
giudicate assurde”
10
. Il seguito della storia della logica vede l’autorità scolastica di
Aristotele e del suo sillogismo e la riduzione della logica relazionale alla logica
“(s)oggetto-predicato”, almeno fino a Frege.
Contemporaneo di Cantor e Dedekind si inserisce a pieno titolo nel grande
movimento di assiomatizzazione e fondazione delle basi della matematica; il suo
“I fondamenti dell’aritmetica” pubblicato nel 1884 è impegnato nella ricerca di
definire rigorosamente il concetto di numero naturale. Ma Frege fa di più, tenta di
dare una base logica alla stessa matematica anzi riduce la seconda ad un aspetto
della prima dando inizio alla scuola che prenderà il nome di logicismo.
9
Ivi, p. 54.
10
R. Maiocchi, Storia della scienza in occidente, cit. , p. 115.
15
La nuova logica che nasce con il filosofo tedesco è figlia di un capovolgimento
del punto di vista, la logica “(s)oggetto-predicato” entra a far parte di una
costruzione più vasta, sarà lei ora ad essere inglobata nella logica relazione; il
primum sono i giudizi non i termini. È nel principio del contesto che si esprimerà
maggiormente una tale posizione in quanto per ricavare un significato si fa
riferimento alla relazione delle parole nei loro nessi reciproci.
La forza esplosiva del nuovo ragionamento sta nella costruzione di una lingua
artificiale e di una simbologia che astrae dalla staticità degli elementi permettendo
di dedicare tutta l’attenzione sul funzionamento delle deduzioni logiche e
distaccandosi momentaneamente dalla semantica. In tal modo il linguaggio verrà
ripulito da qualsiasi incertezza, vaghezza e imprecisione di significato; la logica
stessa inizia a distinguersi in semiotica, semantica e sintattica..
Il progetto che fu di Leibniz della “mathesis universalis” fallito per
l’impossibilità di una tale costruzione nella visione “(s)oggetto-predicato”, viene
ora ripresentato ed esposto da Frege nella sua “Ideografia” anche se in realtà il
suo simbolismo non verrà attuato per la sua eccessiva complessità e col tempo si
farà spazio quello ideato da Peano; Frege stesso e il suo pensiero in realtà
rimarranno, lui in vita, in parte isolati dalle discussioni a cavallo tra i due secoli e
come vedremo egli stesso ad un certo punto si metterà da parte.
Abbiamo accennato come uno dei termini principali dell’analisi nell’ottocento sia
quello di funzione, tale concetto viene recepito da Frege e mutuato nella logica:
la formulazione “argomento-funzione” sostituisce ora la secolare logica
“(s)oggetto-predicato”; per funzione si intende la parte dell’espressione che
rimane invariata mentre per argomento la parte sostituibile e quindi “un enunciato
viene pensato come l’applicazione di una funzione ad uno o più argomenti, non
come la predicazione di qualcosa in relazione ad un soggetto”
11
.
Ora però sarebbe il caso di intraprendere la discussione sulla semantica di Frege.
In realtà egli nelle sue opere principali non espone mai il problema ma la
11
M. Mariani, Introduzione a Frege, Bari 2004, p. 18.
16
domanda nasce spontanea: cosa vi è dietro gli argomenti e le funzioni? Di cosa si
sta parlando?
La risposta che il logico ci fornisce è esposta in un articolo del 1892 intitolato
“Sinn e Bedeutung”, che viene tradotto con riserva, in “Senso e significato”:
“L’uguaglianza sfida la riflessione con quesiti che a essa si connettono e ai quali
non è facile dare risposta. È l’uguaglianza una relazione? È una relazione fra
oggetti oppure fra nomi o segni di oggetti? Quest’ ultima è la soluzione che avevo
adottato nella mia Ideografia”
12
. Se noi ci riferiamo all’ “allievo di Platone nato a
Stagira” cosa intendiamo dire? Sappiamo bene che il riferimento della nostra
espressione è Aristotele e che quindi è facilmente intuibile come “Il significato di
un nome N non è altro per Frege, che l’oggetto di cui N è nome”
13
. Ma quando
parliamo di “senso” a cosa dobbiamo riferirci? Frege da questo punto di vista non
da mai una definizione precisa ma ci dice che esso è il modo in cui un significato
ci viene dato. Se noi parliamo del “precettore di Alessandro Magno” ancora una
volta sappiamo che il suo riferimento è Aristotele ma ora tale riferimento ci viene
dato sotto un’altra veste. Ecco, il senso è la veste di un significato.
Il classico esempio di Frege riguarda le due espressioni “La stella del mattino”
(Espero) e la “stella della sera” (Fosforo). Per tanto tempo si è creduto che le due
stelle fossero differenti tanto che si è attribuito ad esse nomi altrettanto differenti,
in realtà esse si riferiscono al medesimo oggetto, il pianeta Venere che in periodi
precisi dell’anno appare sia all’alba che al tramonto. Se nei due casi il
“significato” è il medesimo non lo è il “senso”: “Il senso di un nome proprio
viene afferrato da chiunque conosca a sufficienza la lingua o il complesso di segni
cui esso appartiene; in questo modo il significato, posto che ve ne sia uno, viene
pur sempre illuminato da un lato solo; la conoscenza del significato da tutti i lati
comporterebbe che per un senso dato qualsiasi si fosse immediatamente in grado
di dire se gli spetta oppure No. A questa conoscenza non perveniamo mai”
14
.
12
G. Frege, Senso e Significato, in Casalegno et al., Filosofia del linguaggio, Milano 2003, p. 18.
13
P. Casalegno, Filosofia del linguaggio, Roma 2005, p. 27.
14
G. Frege, Senso e Significato, in Casalegno et al., Filosofia del linguaggio, cit. , p. 19.
17
Ma Frege non si ferma qui, il senso e il significato che fin qui abbiamo esposto
riguarda solamente i termini singolari categoria nella quale Frege fa cadere sia i
nomi propri che quelle che Bertrand Russell chiamerà più avanti descrizioni
definite. Meno diretto è il discorso che riguarda il senso e il riferimento dei
predicati. Se in questo caso infatti il riferimento è il concetto che viene espresso,
meno approfondita pare la discussione sul senso che comunque rimane sempre un
modo di presentazione ma, in questo caso, del concetto stesso.
Per Frege vale il principio di composizionalità per cui il senso e il riferimento di
un enunciato sono dati dal senso e dal riferimento delle sue parti. Da qui se ne
ricava che il senso di un enunciato è il pensiero che esso esprime mentre il
significato è il suo valore di verità. In questa teoria è espressa la svolta linguistica
del XX secolo: il pensiero esiste come pensiero espresso.
Vi è da accennare che per quanto riguarda questi due ultimi concetti Frege aveva
una visione piuttosto platonica. Il pensiero e i valori di verità, che si riducevano al
Vero e al Falso, erano delle entità “al di fuori del tempo” appartenenti al “terzo
regno” distinto sia dal regno materiale che dal regno dei processi psicologici.
Ora possiamo concludere rispondendo ad una domanda che ci lega direttamente
alla questione dei fondamenti che non avremmo potuto comprendere a fondo
senza queste chiarificazioni. Cosa è il numero secondo il logicismo di Frege?
Abbiamo detto che il significato di un predicato è il concetto che esso esprime
cioè “una funzione i cui valori sono valori di verità” e “l’estensione di un
predicato P l’insieme di tutti gli oggetti cui P si applica veridicamente”
15
. E’
molto semplice vedere dietro tutto questo ragionamento la teoria degli insiemi di
Cantor, a questo punto possiamo quindi affermare che due concetti sono
equivalenti se hanno la stessa estensione, cioè se ad essi corrisponde la stessa
classe di oggetti e che il numero naturale n non è altro che l’estensione di tale
concetto.
15
P. Casalegno, Filosofia del linguaggio, cit. , p. 38.