2
proprietarie sempre più consolidate3.
La stretta chiusura degli assetti proprietari non soltanto poneva un freno allo
sviluppo di un rapporto più stretto tra banca e impresa-cliente, che
travalicasse il semplice affidamento, ma determinava anche una debole
apertura verso il mercato dei capitali4.
Quest’aspetto caratterizzante le nostre imprese (non solo piccole e medie),
unitamente ad altri fattori, ha reso difficile un’evoluzione del rapporto banca-
impresa. Il mercato mobiliare per emissioni private sta vivendo da poco un
lento percorso di miglioramento, ma fino a qualche anno fa risultava sottile e
frammentato in borse valori regionali con prospettive poco attraenti per
un’impresa italiana che volesse quotarsi. L’unico mercato che funzionava era
quello dei titoli di Stato, a reddito fisso e rischio zero, che spiazzava
letteralmente le emissioni private e canalizzava il risparmio verso la copertura
dell’enorme debito pubblico.
L’intervento pubblico ha ostacolato in vari modi l’operatività delle nostre
banche le quali si trovavano strette tra l’esigenza di un ammodernamento
gestionale ed operativo ed il continuo controllo pubblico che ne limitava la
discrezionalità.
Il controllo statale ha pervaso l’intero sistema dell’intermediazione finanziaria
3
Cfr., NARDOZZI G., VERNA A., Il settore dell’investment banking in Italia, Milano, 1996, pagg.244-247.
4
Il modello proprietario descritto allontanava, infatti, sia dal rapporto banca-impresa, del tipo haus bank, sia
dal modello di controllo anglosassone della public company.
3
soprattutto in seguito al fallimento, negli anni trenta, della cosiddetta banca-
holding5.
Nell’intento e col pretesto di risanare il sistema finanziario nazionale, lo Stato
istituì una propria holding, l’IRI, alla quale furono conferite le partecipazioni
industriali dei grandi istituti di credito, trasformati a loro volta in semplici
banche di deposito. Tramite l’IMI e le nascenti società finanziarie, lo Stato
assicurava l’intermediazione a medio-lungo termine delle imprese pubbliche e
private. Proliferavano i crediti agevolati e i tassi d’interesse erano mantenuti
artificialmente bassi.
In tal modo era inevitabile, considerata anche la ristrettezza del mercato
mobiliare, che le imprese si orientassero in prevalenza verso il credito.
Ne risultò un mercato finanziario chiuso che lasciava spazio soltanto alle
contrattazioni di titoli di Stato.
La forte intermediazione svolta dalle banche è stata più volte regolata da
politiche monetarie e creditizie volte a contenere gli effetti negativi di una
crescente inflazione e, contemporaneamente, interessate ad orientare il
risparmio verso i titoli di Stato.
Unitamente agli effetti di una legislazione che, a partire dalla Legge bancaria
del 1936, mirava a perpetuare il predominio dello Stato sul sistema
5
In seguito alla caduta della domanda del 1926-27, le banche intervennero a sostegno delle imprese affidate
trasformando i crediti in partecipazioni azionarie, accresciute tra l’altro, dai tentativi di ristrutturazione posti
in essere dalle stesse banche. Si costituirono così delle holding industriali che vedevano le imprese
4
finanziario, anche gli interventi di politica monetaria risultavano distorsivi in
quanto, non lasciando spazio all’azione discrezionale delle banche, favorivano
fenomeni negativi quali il pluriaffidamento.
Solo negli anni ’80, la disintermediazione avviata con l’emissione di titoli di
Stato che risultavano più redditizi rispetto ai depositi bancari e la
ricapitalizzazione del passivo iniziata dalle banche, hanno dato una scossa al
sistema finanziario 6.
Sono questi gli anni in cui nascono le merchants banks con l’intento di dare
vigore al mercato finanziario, già prospettato verso un nuovo assetto
regolamentare (così come gli intermediari).
Un sistema finanziario, il cui regime è stato tale per anni, non può non
risentire ancora adesso degli effetti negativi che ne sono derivati; la
ristrettezza del mercato e la sua sostanziale chiusura, la prevalenza della
banca di credito ordinario, il modello di controllo delle imprese italiane e, in
aggiunta, un sistema fiscale che ancora stenta a mutare, rimangono pur
sempre gli elementi ostativi dell’evoluzione in atto nel nostro sistema
finanziario 7.
È ancora dubbio l’interesse delle imprese verso un rapporto sempre più
globalizzante con una banca di riferimento ma, se così fosse, sarebbe
permanentemente controllate da un istituto di credito.
6
Cfr., RICCI R., La banca moderna, Torino, 1988, pagg.10-41.
7
Cfr., NARDOZZI G., VERNA A., Op. cit., pagg.232-253.
5
parimenti dubbio il fatto che le banche siano oggi effettivamente dotate della
cultura, delle risorse e dell’organizzazione necessarie per adeguare il proprio
mix di offerta alle esigenze di finanziamento ed assistenza manifestate dal
settore produttivo.
1.2 Il fenomeno del pluriaffidamento
La via finanziaria dello sviluppo, adottata dai poteri pubblici al fine di sanare
il sistema finanziario e produttivo italiano, si è presto rivelata un comodo
strumento per controllare e contenere un debito pubblico in continua crescita.
I provvedimenti normativi, restrittivi della discrezionalità bancaria 8 e
accompagnati da politiche monetarie tese a frenare l’inflazione9, indussero le
banche a cercare nuove strade (benché sub-ottimali) per realizzare l’obiettivo
della crescita dimensionale.
Inoltre, gli interventi mirati a contenere l’autogenesi dei depositi risultarono
vani fino a quando non ebbe inizio il processo di disintermediazione, indotto
dall’offerta di titoli pubblici più redditizi.
Il risultato fu un attivo delle banche in gran parte monitorato dallo Stato, in
quanto costituito, prevalentemente, da titoli pubblici e obbligazioni emesse
8
Con la Legge bancaria del 1936 si impose un rigido regime di separatezza tra banca e industria in quanto,
alle aziende di credito si riconobbe la possibilità di erogare solo crediti a breve, mentre il finanziamento di
medio-lungo termine fu affidato esclusivamente agli Istituti di credito speciale.
9
Tali interventi riguardarono l’inasprimento dell’aliquota di riserva obbligatoria e i controlli diretti
6
dagli Istituti di credito speciale a fronte dei mutui concessi alla propria
clientela.
La restante parte, lasciata alla discrezionalità delle banche, fu indirizzata alla
concessione di crediti frazionati tra numerose imprese-clienti.
Distinguendole dagli Istituti di credito speciale, cui era affidata la concessione
di finanziamenti di medio-lungo termine, le banche venivano limitate nella
possibilità di ampliare la propria sfera d’azione oltre il monopolio detenuto
per anni sul processo di sviluppo economico, operato col solo ricorso al
credito bancario.
Si determinò un forte incentivo a concedere prestiti a breve,
indipendentemente dalla tipologia di fabbisogno finanziario espresso
dall’impresa. Anche i fabbisogni durevoli, meglio soddisfatti con
finanziamenti a medio-lungo termine (quali emissioni obbligazionarie o
aumenti di capitale), venivano fronteggiati con prestiti di breve scadenza
concessi dopo aver verificato, sommariamente, la capacità di reddito del
richiedente. Ne derivarono squilibri anche nelle forme tecniche di erogazione
del finanziamento a breve poiché, attraverso le aperture di credito in conto
corrente, si verificò uno sconfinamento temporale oltre il breve termine e i
prestiti venivano concessi senza presupporre una specifica destinazione del
sull’erogazione del credito eseguiti attraverso il massimale sugli impieghi e il vincolo di portafoglio.
7
capitale investito dall’impresa affidata10.
Dal canto loro le imprese, non vedendo valida alternativa di finanziamento ai
propri investimenti nel mercato finanziario, si rivolgevano a più banche,
traendo vantaggio dalla crescente competizione sul mercato quanto a minor
costo, maggiore disponibilità di credito e riduzione del grado di influenza
della banca sulle strategie di impresa.
Tutto questo ha determinato l’evolversi della pratica indiscriminata del
pluriaffidamento che vedeva più banche rivolte al finanziamento di un’unica
impresa.
Il fatto che la situazione debitoria della stessa impresa fosse condivisa insieme
ad altri istituti, ingenerava nelle banche creditrici una sorta di
“deresponsabilizzazione” e quindi l’adozione di politiche essenzialmente
imitative. Così, quelle attività considerate basilari per valutare la convenienza
di un affidamento, vale a dire lo screening e il monitoring, considerati i
relativi costi, venivano spesso poco approfondite. Il management bancario era
intento a perseguire l’obiettivo della crescita dimensionale e, quindi, tendeva
a concedere fidi indipendentemente da un’adeguata analisi dell’effettivo
merito di credito e della struttura finanziaria dell’azienda affidata11.
Il fenomeno del pluriaffidamento nasceva poi in un contesto caratterizzato da
10
Contrariamente alle altre forme di finanziamento a breve quali le anticipazioni, gli sconti ed i riporti.
11
Tale tendenza era inoltre rafforzata da un diffuso ricorso al credito agevolato la cui concessione era
subordinata alla semplice verifica della presenza di alcuni requisiti formali.
8
poca concorrenza e da scarsa attenzione al profitto come obiettivo gestionale
poiché, buona parte del sistema, aveva un assetto proprietario il cui
riferimento era l’azionista pubblico, meno attento alla remunerazione del
capitale investito ma piuttosto, ispirato dalla concezione dell’intermediazione
bancaria come servizio di interesse pubblico12.
Anche le banche minori (pur non potendo vantare un’adeguata asimmetria
dimensionale rispetto alle imprese), perseguivano l’obiettivo di crescita
dimensionale incrementando il fenomeno dei fidi multipli, con l’aggravante di
concedere prestiti per un ammontare spesso contenuto rispetto alle effettive
esigenze delle imprese richiedenti.
La condivisione del medesimo cliente era alimentata dalla più agevole revoca
degli affidamenti, dal minor coinvolgimento nella gestione aziendale, da una
presunta maggiore affidabilità nei casi di valutazioni plurime del merito
creditizio e dall’illusione, comune a ciascuna banca, di riuscire, attraverso
l’opportunità di ripartizione dei rischi, a limitare eventuali proprie perdite su
crediti; nella realtà invece, la prassi dei fidi multipli conduceva a livelli di
rischio crescenti.
In presenza di pluriaffidamento ciascuna banca tollerava livelli di
indebitamento dell’impresa pluriaffidata estremamente elevati poiché la
12
Cfr., BROGI M., L’evoluzione del rapporto banca-impresa in Italia. Dal pluriaffidamento alla banca
moderna, Milano, 1997, pagg.15-44.
9
propria parte di capitale erogato era limitata, al punto di attenuare l’impatto di
un’eventuale perdita13. Parallelamente però, il mancato controllo da parte
delle banche creditrici (che si ritenevano deresponsabilizzate), consentiva
all’impresa un indiscriminato ricorso al credito; da ciò derivava un aumento
del rischio di insolvenza dell’impresa finanziata, aggravando le situazioni
dell’affidata e degli affidanti.
Il contenuto informativo di cui disponevano le banche si riduceva
proporzionalmente al numero delle banche pluriaffidanti e questo determinava
un’accentuazione delle asimmetrie informative e un parallelo aumento nei
costi delle analisi di affidabilità. Il tutto finiva per gravare sul sistema
creditizio e, più precisamente, sui tassi di interesse praticati, il che ricadeva
soprattutto sulle piccole e medie imprese che vantavano un potere contrattuale
minore.
Questo ricorso indiscriminato al debito da parte delle imprese consentiva
inoltre agli imprenditori di accumulare grandi ricchezze da destinare spesso
all’investimento in titoli pubblici14, spesso dati in pegno a garanzia di prestiti
accordati all’impresa (sminuendo ulteriormente l’importanza dell’istruttoria di
fido).
In definitiva dunque, l’eccessiva offerta di credito a breve favorì politiche di
13
Laddove, se il rapporto creditizio fosse unico, l’intermediario sarebbe maggiormente incentivato a
disciplinare l’azienda nel suo livello di indebitamento.
14
Titoli pubblici ad alto rendimento, senza rischio e con regime fiscale favorevole.
10
crescita imprudenti, sfociate in inefficienze bancarie e in situazioni di crisi per
rilevanti gruppi industriali15.
1.3 L’investimento a titolo di rischio e il merchant banking
A partire dal 1985 è stata gradualmente realizzata la riforma dell’ordinamento
bancario, sintetizzata e formalizzata nel 1993 con l’emanazione del Testo
Unico Bancario.
In tal modo si superava il modello giuridico obsoleto della banca pubblica e si
gettavano le basi di un nuovo rapporto banca-impresa.
Il modello di gruppo polifunzionale16 è diventato la nuova veste dell’istituto
di credito che, abbandonata l’articolazione funzionale per categorie giuridiche
di aziende di credito, si è orientato verso la crescita dimensionale, la
concentrazione e la diversificazione dell’attività bancaria.
La rimozione dei vincoli di specializzazione ha reso anche possibile
l’adozione del modello di banca universale, alternativo a quello di gruppo
polifunzionale.
Tali cambiamenti hanno contribuito alla ridistribuzione del potere contrattuale
tra banche e clientela, ad una più ampia offerta di servizi e credito alle
imprese e, di conseguenza, ad una più profonda relazione tra banca e
15
Cfr., MONTI E., MESSINA C., La Finanza per l’impresa , Torino, 1996, pagg. 4-6.
16
Il gruppo polifunzionale è stato introdotto con l’emanazione, nel 1990, della legge Amato-Carli n.218.
11
impresa17.
Il processo di securitation18, sviluppatosi nei mercati anglosassoni all’inizio
degli anni ottanta, andava affermandosi come tecnica finanziaria innovativa
attraverso la quale i flussi di cassa derivati da impieghi creditizi, mutui e altre
voci dell’attivo costituivano supporto finanziario e garanzia sui titoli emessi
sul mercato e rappresentativi di tali crediti.
Con l’emanazione del Testo Unico, alla banca è stata formalmente
riconosciuta la possibilità di ampliare la propria offerta potendo ora fornire
alla clientela, indifferentemente, un prestito a titolo di debito (com’era stato
finora), ovvero a titolo di rischio. La banca può quindi partecipare al capitale
di un’azienda non finanziaria, anche se la sua dovrà essere solo una quota
partecipativa di minoranza.
Il nuovo ruolo del quale risultavano investite le banche non poteva però
prescindere da un adeguato funzionamento del sistema mobiliare che
garantisse trasparenza e soprattutto liquidità dei titoli acquisiti in funzione di
prestito; né tantomeno poteva prescindersi da un rinnovato rapporto banca-
impresa più vicino all’auspicato modello di hausbank, in base al quale la
banca è partner, oltre che interlocutore e consulente finanziario di fiducia,
dell’impresa cliente.
17
Cfr., MONTI E., MESSINA C., Op. cit., pagg. 2-4.
18
Traducendo in italiano il termine, si intende cartolarizzazione o titolarizzazione.
12
Se si considera che il contesto in cui ci si doveva muovere era (ed è tuttora) in
lenta evoluzione, la prassi del finanziamento a titolo di debito risultava
difficilmente soppiantabile, soprattutto con riguardo al settore delle PMI il
quale scontava il divario che separava il proprio mercato mobiliare da quello
ufficiale19.
Del resto, risultava difficile abbandonare una situazione che, benché sub-
ottimale, si era protratta per tanto tempo, garantendo certezza al sussidio
finanziario delle imprese. Un elemento, fonte di continue discussioni, che
giocava spesso a favore del ricorso al debito, era l’enfasi che veniva data alla
leva finanziaria20 sia da parte delle imprese, sia da parte delle banche; nella
concessione cioè di un finanziamento a breve, si poneva il divario tra la
redditività e la solidità della struttura finanziaria dell’impresa.
Trattandosi di un’ottica di breve termine (tra l’altro imposta dalla Legge
bancaria del ‘36), la banca era indotta a preferire una redditività immediata
dell’azienda perché frutto di interessi attivi parimenti immediati sul prestito
19
Si ricordi, al riguardo, l’entusiasmo che accompagna l’istituzione del ME.T.IM. ma, allo stesso tempo, la
sua mancata concreta attuazione.
20
Si consideri una struttura finanziaria sintetica dell’azienda da affidare:
|RICAVI OPERATIVI – COSTI OPERATIVI = RISULTATO OPERATIVO
|RISULTATO OPERATIVO – ONERI FINANZIARI = REDDITO(o UTILE) NETTO
Posto che:
CI(capitale investito) = P(patrimonio) + D(debiti)
RO(risultato operativo) = roi(tasso di redditività operativa) * CI
OF(oneri finanziari) = ip(tasso di indebitamento) * D
Sarà:
UN(utile netto) = roi * CI – ip * D = roi * CI – ip * (CI – P) = roi * CI – ip * CI + ip * P
UN/P = roe(tasso di redditività del patrimonio) = roi * CI/P – ip * CI/P + ip =
13
concesso; dal canto suo l’azienda tendeva ad aumentare il proprio
indebitamento, non avendo avuto per lungo tempo valida alternativa di
finanziamento.
La specializzazione nel credito a breve, imposta alle banche dalla Legge
bancaria del 1936, implicava fondamentalmente un’analisi di solvibilità a
breve basata in prevalenza su dati passati espressi a valore di libro. Con
l’investimento in partecipazioni azionarie però, l’orizzonte temporale entro il
quale svolgere l’analisi si ampliava, dovendosi considerare le prospettive
future dell’azienda cliente21. La banca doveva essere in grado di apprezzare
aspetti quali, le capacità manageriali e le prospettive del settore in cui operava
l’impresa cliente. Il valore del capitale investito dipendeva essenzialmente
dalla capacità dell’azienda di produrre flussi22.
La scarsa maturità del nostro mercato mobiliare determinava però un rischio
di immobilizzo; poiché la remunerazione attesa dalla banca investitrice
dipendeva dai dividendi distribuiti ma soprattutto, nella prassi italiana, dal
capital gain eventualmente realizzato, diventava fondamentale la capacità di
collocamento della partecipazione sul mercato.
Ulteriore ostacolo alla possibilità di smobilizzo della partecipazione acquisita,
= ip + (roi-ip) * CI/P che rappresenta appunto la formula di leva finanziaria.
21
L’analisi di lungo periodo era strettamente necessaria per la valutazione dei rischi connessi all’operazione
di investimento quali, la variabilità della remunerazione del capitale investito e la valutazione del rischio di
perdita del capitale investito in cui hanno rispettivamente rilevanza le politiche di distribuzione dei dividendi
e il tasso di insolvenza rilevato nel settore di appartenenza dell’impresa.
22
Il valore di mercato di un’azienda è infatti dato dal valore attuale dei flussi monetari incrementali attesi
14
era dato dal limite posto dalla norma in relazione al tipo di partecipazione che
la banca poteva acquisire e, di conseguenza, collocare; si trattava, come detto,
di una partecipazione di minoranza che, pur considerando come alternativo
canale di dismissione al mercato mobiliare la cessione ad altri soggetti
industriali, veniva a costituire un investimento meno appetibile23.
E’ anche alla dubbia economicità dell’assunzione di partecipazioni di
minoranza24 che si ricollega la deludente esperienza delle società di
intermediazione finanziaria, di emanazione bancaria, specializzate nel
merchant banking ed introdotte dalla circolare del CICR (Comitato per il
Credito e il Risparmio) del 6 febbraio 198725.
La favorevole congiuntura nazionale, iniziata nel 1986, che vedeva il
benessere individuale accresciuto in termini di salari reali e di risparmio, ed i
grossi gruppi industriali orientati alla dimensione multinazionale grazie ai
capitali raccolti sul mercato borsistico, incoraggiava l’attuazione del merchant
banking teso ad ampliare, in modo qualificato, il listino di Borsa.
Con l’autorizzazione della Banca d’Italia, alle banche e agli Istituti di credito
era data possibilità di costituire società finanziarie di partecipazione insieme
dall’investitore.
23
I soggetti industriali pongono attenzione all’acquisto di partecipazioni che possano garantirgli il controllo
dell’impresa partecipata.
24
Le altre cause del mancato sviluppo del merchant banking sono da ricercarsi nella carente cultura
imp renditoriale e nelle inefficienze del mercato mobiliare che determinano problemi di smobilizzo delle
partecipazioni.
25
Cfr., BROGI M:, Op. cit., pagg.71-98.
15
ad imprese, associazioni imprenditoriali, società di intermediazione
finanziaria, per propugnare la diffusione delle attività di intermediazione e di
consulenza finanziaria26 (corporate finance).
L’intento di base era migliorare la struttura finanziaria delle imprese, il che
necessitava di un rafforzamento del capitale di rischio, altrimenti vincolo allo
sviluppo di imprese vitali, soprattutto medio-piccole, essendo l’attività
mobiliare nazionale ancora troppo ristretta27.
I soggetti che offrivano capitale di rischio alle imprese erano gli investitori
istituzionali (tra cui le banche), le società private di venture capital e i singoli
investitori privati. Le modalità con le quali tali operatori esplicavano la loro
attività erano, appunto, la costituzione di una società di investimento
(merchant bank o venture capital), ovvero di una società di gestione dei fondi
chiusi, orientate con maggiore interesse verso quelle imprese medio-piccole
non ancora quotate ed operanti in settori innovativi con ottime prospettive
future28.
L’investimento tipico del merchant banking doveva essere finanziario e non
gestionale, cioè a carattere temporaneo29, ed inoltre le partecipazioni,
26
Le attività di intermediazione hanno come scopo principale garantire, in cambio di una commissione, il
collocamento di titoli sul mercato o acquisire le nuove emissioni per poi cederle, vantaggiosamente ed in
tempi brevi, ad altri investitori; le attività di consulenza finanziaria sono offerte alle imprese con riguardo
alla forma tecnica, alle condizioni e all’ammontare delle nuove emissioni di titoli, alle operazioni di
acquisizione di società, all’accesso ai mercati di capitali internazionali.
27
Cfr., ROSA C., SCHIAVO A:; La sfida italiana del merchant banking, Novara, 1987, pagg.27-63.
28
Cfr., GUACCERO A., URBANI A., Banca e finanza tra impresa e consumatori, Urbino, 1999, pagg. 125-
139.
29
Non sembrava opportuno un intervento durevole nel capitale delle imprese in quanto avrebbe potuto