2
funzionale e strumentale dell’apparato amministrativo italiano del
tempo.
L’insieme delle politiche fiscali e monetarie necessariamente
espansive adottate dai ministeri bellici comportò, quindi, per la sua
copertura finanziaria, l’intensificazione dell’utilizzo dello strumento
monetario e, soprattutto, debitorio fino a livelli del tutto sconosciuti
all’esperienza storica dei contemporanei, traducendosi in
un’esplosione dell’inflazione e del Debito Pubblico che rappresentò
l’eredità più pesante lasciata dalla guerra alle economie dei paesi che
avevano partecipato alla conflagrazione bellica.
Il ritorno ad una configurazione del livello dei prezzi che fosse
compatibile con il ristabilimento della parità esterna della lira
anteriore allo scoppio della guerra fu reso impossibile dal permanere
di un livello della spesa statale legato alla soddisfazione degli impegni
assunti durante il conflitto ancora troppo alto per permettere una
consistente riduzione dei flussi d’indebitamento necessari
all’operatore pubblico per finanziare, tra l’altro, anche le importazioni
dall’estero (soprattutto di generi alimentari) i cui costi subirono un
pesante aggravio a causa della pesante svalutazione della lira che, tra
la firma dell’armistizio e la fine del 1920, vide ridursi rispettivamente
di tre e quattro volte il proprio rapporto con la sterlina inglese ed il
dollaro statunitense.
Inoltre, l’impossibilità di riportare immediatamente sotto controllo le
dinamiche della spesa pubblica impedirono di arrestare il processo che
più di tutti aveva caratterizzato l’espansione del Debito Pubblico
durante la guerra: l’emissione di titoli di Stato con scadenza inferiore
ad un anno.
Questi ultimi, ai quali tutti gli Stati belligeranti erano ricorsi in sempre
maggior copia da quando si era compreso che la guerra non sarebbe
stata così breve e che la sua prosecuzione avrebbe richiesto uno sforzo
finanziario ben superiore alle iniziali previsioni, aumentarono
3
progressivamente la propria incidenza sulla consistenza totale del
Debito Pubblico accorciandone notevolmente la scadenza media.
Proprio la riduzione della parte fluttuante del debito da ottenersi
mediante una sua conversione in Debito Patrimoniale costituì uno
degli obiettivi primari della politica finanziaria di tutti i governi
europei all’indomani della conclusione del conflitto, ma, per ciò che
riguarda l’Italia, le ricordate condizioni in cui si trovavano le finanze
pubbliche ed il permanere di un’elevata instabilità del livello dei
prezzi resero impraticabile la realizzazione di un tale progetto, come
dimostra la forte ripresa del collocamento dei B.O.T. all’indomani
dell’emissione del VI Prestito Nazionale.
L’operatore pubblico, del resto, per procurarsi le risorse finanziarie
necessarie ai propri bisogni, incentivò ulteriormente questa forte
espansione dell’indebitamento a breve termine anche attraverso una
politica dei tassi d’interesse che, favorendo la riduzione del
differenziale tra il Tasso Ufficiale di Sconto e i rendimenti dei titoli di
Stato in emissione, rendeva più conveniente la sottoscrizione di questi
ultimi da parte di coloro che, come le imprese, li acquistavano per
ottenere (direttamente o indirettamente) delle anticipazioni da parte
degli Istituti di Emissione, secondo un meccanismo quasi automatico
approntato durante la guerra.
Così facendo, non solo l’emissione dei B.O.T. si traduceva
implicitamente in una inflazione del credito che portava ad un
allargamento della Circolazione per conto dello Stato occultata
all’interno della Circolazione per conto del commercio, ma
trasformava progressivamente questo strumento finanziario in un
“surrogato” della cartamoneta che gli attori economici (principalmente
le imprese) utilizzavano sempre più frequentemente come un “mezzo
di cassa” per la normale attività produttiva, aggiungendo in tal modo
un altro ostacolo al contenimento delle sostenute dinamiche mostrate
dal livello dei prezzi ancora dopo la conclusione del conflitto.
4
Proprio la persistente inflazione ereditata dalla guerra continuò a
determinare una notevole redistribuzione delle ricchezze e dei redditi
dalla quale furono danneggiati soprattutto i percettori di redditi e di
rendite nominalmente fissi, tra cui particolare rilevanza assumono, ai
fini del presente lavoro, i detentori di titoli di Stato irredimibili.
Costoro subirono una notevole riduzione del valore e degli interessi
reali del loro investimento non solo in termini assoluti, ma anche se
paragonati ai rendimenti che contemporaneamente l’operatore
pubblico assicurava ai sottoscrittori dei titoli a breve termine, rispetto
ai quali i titoli patrimoniali godevano di una minore liquidità che ne
rendeva la vendita più difficile e costosa in termini di rischio di
perdite in conto capitale.
Le conseguenze socioeconomiche di questo fenomeno si
manifestarono in una penalizzazione del livello di ricchezza e di
benessere economico che i ceti della media e piccola borghesia
professionale e commerciale, dipendente e, soprattutto, indipendente,
avevano creduto di aver raggiunto e consolidato sottoscrivendo le
cartelle del Debito Consolidato italiano durante e subito dopo la
guerra.
La delusione patita nel vedere continuamente (ed inaspettatamente)
diminuire il potere d’acquisto delle rendite percepite dai titoli pubblici
sottoscritti ebbe forse un ruolo non secondario nell’alienare al regime
liberale l’appoggio dei ceti medi italiani del tempo, mentre la
deflazione che fece seguito alla stabilizzazione valutaria realizzata dal
fascismo tra la fine del 1926 ed il 1927 ne ebbe uno probabilmente
altrettanto importante nel conquistarne il favore verso il nuovo regime
politico dopo che questo aveva già completato la trasformazione in
senso dittatoriale del sistema istituzionale italiano.
Illustrando sinteticamente il contenuto dell’opera, nei primi due
capitoli saranno esposte le modificazioni reali e finanziarie subìte
dall’economia italiana durante la guerra e l’evoluzione delle spese e
5
delle entrate statali nel primo dopoguerra, mentre il capitolo terzo sarà
dedicato alla descrizione delle dinamiche quantitative e redistributive
messe in atto dal processo di indebitamento dell’operatore pubblico
dalla fine della guerra alla vigilia del consolidamento del Debito
Fluttuante del novembre del 1926.
Dopo aver succintamente descritto, nel capitolo quarto, le vicende
relative al Debito Estero, nel capitolo quinto sarà avanzata un’ipotesi
sulla diffusione del Debito Pubblico all’interno del Paese con
particolare riguardo ai debiti irredimibili e a quelli a breve termine,
che sarà utilizzata nel capitolo sesto al fine di individuare, tra i
soggetti socioeconomici dell’Italia del tempo, i vincitori ed i vinti (nel
breve e nel lungo periodo) dei provvedimenti monetari e finanziari
varati dal regime fascista allo scopo di stabilizzare (rivalutandola
notevolmente) la lira.
6
CAPITOLO PRIMO
LE CONDIZIONI REALI E FINANZIARIE
DELL’ECONOMIA ITALIANA AL TERMINE
DELLA GUERRA.
§ 1.1- Alcuni dati sull’evoluzione dei principali aggregati
economici nazionali durante la guerra.
La partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra Mondiale sottopose il
sistema produttivo e finanziario del Paese ad uno sforzo ben superiore
alle reali capacità dell’economia italiana del tempo anche per la
superficiale previsione che politici, militari ed economisti fecero a
proposito della durata del conflitto che in molti, sia in Italia sia negli
altri paesi belligeranti, ritenevano non potesse superare i 18-24 mesi,
ma che in realtà si protrasse, come sappiamo, molto più a lungo.
Il perdurare della guerra oltre ogni limite rispetto alle ottimistiche
previsioni prevalenti nelle “radiose giornate di maggio” obbligò i
responsabili della politica economica del Paese ad intensificare
quantitativamente e qualitativamente l’adozione di un insieme di
decisioni e provvedimenti il cui effetto complessivo si risolse in un
sostanziale accrescimento della presenza dello Stato nell’economia;
tendenza, questa, comune anche agli altri paesi partecipanti al conflitto
e che, peraltro, l’Italia aveva recentemente già sperimentato, su scala
ridotta, con la guerra di Libia.
Questo aumento delle funzioni economiche esercitate dallo Stato e dal
suo apparato fu uno dei risultati macroeconomici più rilevanti prodotti
dalla guerra e determinò un’esplosione dell’incidenza della
componente pubblica sui principali aggregati economici nazionali che
alterò profondamente l’originale distribuzione delle risorse e dei
7
redditi all’interno del sistema economico, provocando alcuni
importanti effetti che adesso andremo ad analizzare.
Per ciò che riguarda le risorse, lo sforzo produttivo richiesto
dall’impegno bellico fece dello Stato il principale e quasi esclusivo
cliente del sistema industriale italiano che divenne il terminale delle
commesse governative, dalle quali ottenne grandi profitti anche in
virtù della quasi totale mancanza dei controlli governativi sui prezzi
praticati dalle aziende fornitrici.
Grazie alla garanzia costituita dalla domanda pubblica molte imprese
non solo aumentarono più volte il proprio giro d’affari, ma
impegnarono gran parte dell’aumento (in alcuni casi vertiginoso) dei
loro profitti in progetti volti all’ampliamento dei propri impianti e
all’espansione verticale ed orizzontale delle proprie attività che non di
rado si rivelarono poi del tutto incompatibili con il ritorno ad
un’economia di pace, producendo perversi effetti riallocativi sia dal
punto di vista produttivo che da quello finanziario (emblematico è, a
tal proposito, il caso del gruppo industriale e finanziario Ansaldo -
Banca Italiana di Sconto).
Inoltre, la necessità di riorganizzare la vita economica e sociale della
Nazione in funzione delle esigenze belliche spinse il potere pubblico
ad avocare allo Stato, tramite la costituzione di monopoli e la
fissazione di prezzi politici per alcuni generi di prima necessità, alcuni
compiti normalmente assolti dalla libera azione delle forze di mercato.
Questi provvedimenti, motivati dalla necessità di eliminare il maggior
numero possibile di frizioni produttive e distributive tra fornitori
(imprese) e utilizzatore (Stato e suo apparato militare), e giustificati
dall’esigenza di mitigare le conseguenze della guerra per la
popolazione civile, si tradussero in un grave onere per le finanze
statali i cui effetti si protrassero ben oltre la conclusione delle ostilità a
causa dei ritardi con cui si svolse il processo di smobilitazione
dell’apparato militare e, soprattutto, burocratico costruito durante la
8
guerra, costituito da tutta una serie di uffici volti a rendere operativi
tali nuovi impegni assunti dallo Stato durante il conflitto; ritardi che
alimentarono una polemica sulla cd. “bardatura di guerra” che tenne
occupati politici ed economisti ancora per molti mesi dopo la
conclusione delle ostilità.
Per ciò che concerne i redditi, le emissioni di cartamoneta cui i
ministeri bellici ricorsero sempre più frequentemente soprattutto dopo
la rotta di Caporetto sia per finanziare direttamente le spese di guerra
che per favorire il collocamento dei cinque Prestiti Nazionali e la
sottoscrizione di altri titoli pubblici, e i bisogni enormemente
aumentati di materie prime e di generi alimentari d’importazione
necessari a sostenere un’economia interamente riconvertita alle
esigenze belliche insieme ad un esercito composto in gran parte di
lavoratori della terra richiamati alle armi, innescarono la miccia di
un’esplosione inflazionistica che, nel 1918, aveva moltiplicato per 2
volte e mezzo l’indice del costo della vita e per oltre 4 volte quello dei
prezzi all’ingrosso rispetto all’anteguerra
1
Gli effetti redistributivi di questa perturbazione reale e monetaria
furono ovviamente notevolissimi ed incisero profondamente sulla
struttura quantitativa (e qualitativa) dei principali aggregati economici
nazionali sia reali che monetari.
Ci occuperemo adesso dei primi, mentre dedicheremo ai secondi il
paragrafo successivo.
Secondo una stima sulla formazione e gli impieghi del Prodotto
interno lordo - P.I.L. - italiano dal 1890 al 1990, il contributo
percentuale fornito dalla PP.AA. al totale della ricchezza annualmente
prodotta in Italia passò dal 7,2% del 1913 al 21,3% del 1918, mentre,
dal lato degli utilizzi, i consumi pubblici, che nel 1913 assorbivano
1
ISTAT: “Il valore della lira”, 1996, op. cit., pag. 8.
9
appena il 9,3% di tale ricchezza, arrivarono ad impiegarne, nel 1918,
ben il 42,8%
2
(vedi Tab. 1 pag. 145 dell’Appendice Statistica).
A fare le spese di questo eccezionale aumento dei consumi da parte
del settore pubblico nel suo complesso non furono tanto i consumi
privati, che pure diminuirono come quota sul P.I.L. dal 78,3% del
1913 al 74% del 1918 (vedi Tab. 1 pag. 145 dell’App. Stat.), quanto
soprattutto gli investimenti fissi lordi, che videro diminuire la loro
incidenza sul P.I.L. dal 13,8% del 1913 al 6,4% del 1918
3
, più che
dimezzandosi così rispetto all’anteguerra quando il loro contributo era
stato ancora maggiore.
Questi risultati vengono ovviamente confermati, per ciò che concerne
l’evoluzione dei consumi pubblici e privati, se deflazioniamo i dati
delle stime sopracitate con una media degli indici del costo della vita e
dei prezzi all’ingrosso; deflazione da cui otteniamo, inoltre, a fronte di
una diminuzione in termini reali, nello stesso periodo, del P.I.L. del
5,7% ca., un aumento in valore assoluto, sempre in termini reali, dei
consumi pubblici di 4 volte e 1/3, e una diminuzione in valore
assoluto di quelli privati del 10,8% ca.
4
.
Gli investimenti fissi lordi, invece, deflazionati con l’omogeneo indice
dei prezzi all’ingrosso, si riducono in valore assoluto, nel 1918, al
35,6% della loro consistenza nel 1913
5
.
La fonte utilizzata fornisce anche una stima del P.I.L. a prezzi costanti
1938, secondo la quale i consumi pubblici salgono dal 7,9% del 1913
al 49,8% del 1918, mentre quelli privati scendono
contemporaneamente dall’80,3% al 59,1%
6
; queste cifre sono
sostanzialmente omogenee con quelle ottenute dalla ricostruzione del
P.I.L. elaborata nell’opera di G. Fuà e basate anch’esse su una stima a
2
Tab. 1.B pag. 22 e Tab. 2.B pag. 26 di N. Rossi, A. Sorgato e G. Toniolo: “I conti
economici…”, 1993, op. cit.; stime a prezzi correnti.
3
Calcoli effettuati sui dati della Tab. 1 pag. 145 dell’Appendice Statistica.
4
Idem come nota 3.
5
Idem come nota 3.
6
Tab. 2.A pag. 24 di N. Rossi, A. Sorgato e G. Toniolo, 1993, op. cit..
10
prezzi costanti 1938, secondo la quale i consumi pubblici passano
dall’8,2% del P.I.L. nel 1913 al 50,7% nel 1918 e quelli privati dal
76,4% al 56,4%
7
.
I dati dell’ISTAT, che pure sono alquanto diversi rispetto a quelli fin
qui utilizzati riguardo ai consumi pubblici e privati sia nelle grandezze
assolute che nel loro rapporto relativo
8
, risultano però abbastanza
simili a quelli della fonte finora utilizzata a proposito dell’entità e
dell’andamento degli investimenti fissi lordi, relativamente ai quali va
segnalato come la loro forte diminuzione in termini reali già
precedentemente sottolineata si accompagnò a variazioni delle scorte
che furono (con la sola eccezione del 1920) ininterrottamente negative
dal 1914 al 1921 anche per valori molto alti e, in alcuni casi, superiori
ai primi (vedi Tab. 1 pag. 145 dell’App. Stat.).
La progressiva decumulazione delle scorte illustra sinteticamente
come le esigenze dell’impegno bellico abbiano richiesto al sistema
economico italiano del tempo uno sforzo molto superiore alle sue reali
possibilità produttive, di cui è testimonianza ancor più emblematica la
crescita dei consumi totali come quota sul P.I.L., saliti da un valore
dell’87,6% nel 1913 ad uno del 116,7% nel 1918
9
.
Alle insufficienti risorse interne dovettero quindi aggiungersi quelle
provenienti dall’estero (soprattutto dagli altri paesi aderenti all’Intesa)
che furono destinati in gran parte non più, come era avvenuto
dall’Unità d’Italia in poi (e, soprattutto, dalla metà dell’ultimo
decennio dell’ottocento), ad aumentare lo stock di capitale interno,
7
Tav. XII.4.1.A pagg. 432-33 di P. Ercolani, 1978, op. cit..
8
ISTAT: “Sommario di statistiche storiche…”, 1958, Tav. 116 pag. 218, op. cit.. In base ai
dati di quest’ultima fonte, tale rapporto sale dal 6,2% del 1913 al 25,1% del 1918, mentre,
dai dati riportati nella Tab. 1 pag. 145 dell’App. Stat., esso sale nello stesso lasso di tempo
dall’11,9% al 57,8%.
9
Calcoli effettuati sui dati della Tab. 1 pag. 145 dell’App. Stat.. Secondo le cifre ISTAT,
1958, op. cit., i consumi totali rapportati al Reddito Nazionale Lordo - R.N.L. – (desunto
dalla Tav. 36 pag. 247-48 di ISTAT: “Indagine statistica sullo sviluppo del reddito
nazionale dell’Italia…”, 1957, op. cit.) aumentarono dall’81,4% al 117%.
11
com’è confermato dal vero e proprio tracollo degli investimenti
appena ricordato, bensì ad accrescere il volume delle risorse da
destinare ad una immediata utilizzazione.
Un’ulteriore conferma contabile di questa formidabile variazione nella
destinazione degli impieghi da fini produttivi a fini di consumo
immediato operata dalla guerra è costituita dall’evoluzione del
risparmio interno lordo (costituito dalla somma del risparmio e degli
ammortamenti) che, secondo i dati ISTAT
10
, da un valore positivo di
L. 4.082 MLN nel 1913 scende ad uno negativo di L. 8.546 MLN nel
1918 interamente dovuto, visto che gli ammortamenti deflazionati con
l'indice dei prezzi all’ingrosso presentano, nell’ultimo anno di guerra,
solo una lieve diminuzione in termini reali (il 7,2% ca.) rispetto alla
loro consistenza nel 1913, al crollo del risparmio che, positivo nel
1913 per L. 2.495 MLN (e nel 1914 per L. 1.318 MLN), risulta
ininterrottamente negativo dal 1915 al 1921 con cifre che vanno da –
L. 1.687 MLN (1915) a –L. 14.624 MLN (1918) (vedi Tab. 1 pag. 145
dell’App. Stat.); crollo che intaccò profondamente lo stock di
risparmio accumulato negli anni precedenti.
E’ ovvio che, per sostenere la pressione di una domanda interna così
fortemente aumentata lo squilibrio della bilancia dei pagamenti,
caratteristico per un paese come l’Italia ancora industrialmente
arretrato rispetto alle altre Nazioni in armi e povero di materie prime,
giunse a toccare delle vette sino ad allora sconosciute sia in termini
assoluti che relativi.
In rapporto al P.I.L., per esempio, il deficit dei conti con l’estero sale
dal 4,6% del 1913 al 14,9% del 1918
11
, mentre, se focalizziamo la
nostra attenzione sulla parte corrente della bilancia utilizzando le cifre
10
ISTAT: “Sommario di statistiche…” 1958, op. cit., Tav. 118 pag. 221.
11
Calcoli effettuati sui dati della Tab. 1 pag. 145 dell’App. Stat..
12
presentate da G. M. Rey vediamo che, rispetto al R.N.L., il disavanzo
commerciale s’innalza, come dimostra la seguente tabella, da una
quota del 5,5% nel 1913 ad una del 24,4% nel 1918:
Tab. 1.1.1: Bilancia commerciale
12
(milioni di lire)
Anni Importazioni Esportazioni Saldo Su R.N.L.
1913 3646 2497 - 1149 5,5%
1918 16039 3305 -12734 24,4%
A questa crescita contribuì, oltre all’aumento dei prezzi delle merci
agricole ed industriali verificatosi sui mercati internazionali
specialmente nei primi tre anni di guerra e alla svalutazione della lira
durata fino al luglio 1918, che alzarono (e molto) il costo delle
importazioni, anche la diminuzione delle esportazioni che interessò
sia il settore primario che quello secondario.
Quest’ultimo scontò il calo della produzione interna dovuto alla
minore disponibilità di materie prime e semilavorati completamente
assorbiti dai bisogni dell’industria di guerra, mentre il primo, oltre a
pagare gli effetti di una contrazione produttiva causata dalla riduzione
degli addetti arruolati nell’Esercito e della superficie coltivata nelle
zone vicine al teatro di guerra, dovette subire anche decisioni
governative che già a partire dal primo anno di guerra, allo scopo di
assicurare gli approvigionamenti alimentari alla popolazione,
introdussero divieti alla vendita di prodotti italiani agli Imperi Centrali
che erano stati, fino al 1914, due tra i primi sei clienti degli esportatori
della penisola
13
.
Come risultato si ebbe, così, che l’indice di copertura delle
importazioni con le esportazioni, che era del 68,5% nel 1913, dopo il
rialzo al 75,1% nel 1914 dovuto ai temporanei benefici arrecati
all’economia italiana dallo stato di neutralità sotto la forma di una
12
Tav. 5.08 pag. 215 e Tav. 6.06 pag. 227 di G. M. Rey, 1991, op. cit..
13
G. C. Falco: “La bilancia dei pagamenti…”, 1995, op. cit., pag. 15.
13
maggiore domanda esercitata da parte dei Paesi già in guerra, cadde
anno dopo anno fino a raggiungere, nel 1918, il 20,6%
14
.
Questo sommario riassunto delle variazioni subite dai principali
aggregati reali dell’economia italiana a seguito della guerra ci dà
un’idea di quanto essa uscisse dal conflitto profondamente cambiata
rispetto a come vi era entrata. Le ulteriori mutazioni verificatesi nella
componente finanziaria e monetaria saranno oggetto del paragrafo
seguente; per la parte reale, va ricordato in conclusione che, con la
cessazione delle ostilità, la fine della cd. “mobilitazione industriale”
pose il problema della necessaria riconversione produttiva e
distributiva del sistema economico nel suo complesso cui ostarono,
nei mesi e negli anni successivi, molteplici frizioni di natura sia
economica che sociale e politica, che ne ritardarono notevolmente la
conclusione aggravando così ancora di più i già alti costi che la guerra
aveva fatto pagare all’intero Paese.
§ 1.2- Il finanziamento della guerra.
L’impreparazione con la quale l’Italia s’imbarcò nella guerra riguardò
naturalmente, oltre la struttura reale e produttiva del sistema
economico, anche la sua parte finanziaria e monetaria su cui ricadde
l’onere di procurare i mezzi di pagamento necessari a sostenere
l’ingente impegno profuso nel conflitto da tutti i gangli economici
della Nazione.
La sottovalutazione del prezzo che il Paese avrebbe dovuto pagare per
partecipare alla conflagrazione mondiale ritenuta, ovunque e da tutti,
di breve durata e non molto dissimile alle guerre precedenti quanto a
utilizzazione di uomini e risorse, spinse i responsabili della politica
economica italiana a finanziare, già nel primo anno di guerra
(corrispondente all’esercizio finanziario 1915-16), le spese iscritte a
14
Elaborazioni dalle cifre della Tav. 6.06 pag. 227 di G. M. Rey, 1991, op. cit..
14
tal proposito in bilancio per ben l’80% con l’indebitamento,
equamente suddiviso tra breve e lungo termine
15
.
Secondo i dati della “Ragioneria Generale dello Stato” (R.G.S.)
16
, il
bilancio di competenza dell’esercizio 1915-16 prevedeva che i L.
5.156 MLN di maggiori spese correnti previste sull’esercizio
precedente fossero coperte per il 97,8% (L. 5.044 MLN) con
l’aumento dell’indebitamento netto, percentuale che nel consuntivo
del bilancio di cassa si ridusse all’89,9% (L. 4.874 MLN su L. 5.424
MLN). Nonostante che già allora le uscite statali fossero previste, in
tutte le fonti disponibili, ad un livello doppio dell’esercizio
precedente, a sua volta già oberato di spese raddoppiate a confronto
con l’esercizio 1913-14, nessuno manifestava particolari
preoccupazioni in merito al pagamento degli interessi sul debito così
contratto perché l’opinione generale largamente diffusa tra politici ed
economisti (condivisa, fra gli altri, anche da L. Einaudi
17
) riteneva che
al problema si potesse ovviare con qualche immediato aumento delle
imposte, nell’attesa che tutto il debito potesse essere assorbito
dall’immancabile crescita del reddito che si sarebbe sicuramente
verificata all’indomani della cessazione delle ostilità, da tutti creduta
abbastanza prossima.
Come sappiamo, la guerra si trascinò molto più a lungo e con essa
aumentarono a dismisura le risorse finanziarie necessarie al suo
proseguimento, ma ciononostante le entrate fiscali previste e riscosse
durante gli esercizi finanziari di guerra ridussero notevolmente la
propria quota di partecipazione alla copertura delle spese rispetto
all’anteguerra, perché i responsabili della politica economica italiana
succedutisi nei ministeri bellici fecero propria la linea di politica
finanziaria annunciata , l’8 dicembre del 1914, dal Ministro del Tesoro
15
G. Toniolo: “La Banca d’Italia e l’economia di guerra…”, 1989, op. cit., pag. 34.
16
Ministero del Tesoro: “Il bilancio dello Stato italiano dal 1862 al 1967”, Roma, 1969,
esposti alla Tab. 1 pag. 21 di D. Fausto, 1993, op. cit..
17
L. Einaudi: “Il bilancio italiano: quali difficoltà esso ha superato in passato, come è
divenuto migliore…”, 1915, op. cit., pagg. 21-28.
15
del Governo Salandra, P. Carcano, e confermata dallo stesso al
momento dell’insediamento del Governo Boselli (18-6-1916), in base
alla quale il governo avrebbe finanziato lo sforzo bellico ricorrendo
all’indebitamento e lasciando un ruolo assai marginale al prelievo
fiscale, cui spettava il solo compito di ripagare gli interessi sul debito
emesso
18
; scelta, questa, che, seppur simile a quella di altri paesi
impegnati nel conflitto, veniva incontro agli interessi e alle richieste di
importanti correnti di opinione legate ad ambienti finanziari ed
industriali ben rappresentati, tra l’altro, a livello politico e
governativo.
L’onere di finanziare la guerra ricadde quindi, oltre che sullo
strumento monetario sulle cui variazioni ed effetti inflazionistici e
redistributivi (già accennati nel paragrafo precedente) torneremo più
avanti, sullo strumento debitorio tramite il ricorso a crediti sia interni
che esteri, con l’importanza di questi ultimi che crebbe senza sosta
man mano che i tempi delle ostilità si allungavano oltre ogni iniziale
previsione.
All’interno, l’indebitamento prese la forma dell’emissione di titoli del
Debito Pubblico sia a lungo (Debito Patrimoniale) che a breve
termine (Debito Fluttuante).
Tra i primi, particolare importanza rivestirono i cinque Prestiti
Nazionali emessi tra la fine del 1914 e la fine del 1917. I primi tre,
appartenenti alla specie dei debiti redimibili, furono lanciati tutti entro
il 1915 e, nonostante le difficoltà finanziarie che contraddistinsero il
periodo precedente all’emissione del primo (l’incertezza seguita allo
scoppio della guerra il 28-7-1914 provocò, ai primi di agosto, una
corsa agli sportelli bancari e postali italiani cui il governo rispose con
18
Pag. 41 e seguenti di D. Fausto, 1993, op. cit..