Introduzione
Il punto di partenza di questo lavoro è determinare quale sia il perimetro di
riferimento nel quale poter dare un’agevole definizione di “architettura di business”.
Si stabilisce dunque che quando si parla di confine d’impresa e di struttura di settore
si parte dall’assunto principale che questo sia racchiuso in un meccanismo dinamico
evolutivo.
Per questa ragione l’ambiente in cui operano le imprese deve ritenersi soggetto a
continui mutamenti che si ritrovano spesso a combaciare con delle modifiche della
struttura organizzativa interna alle singole imprese.
Per questa caratteristica dominante dell’ambiente di un qualsiasi settore, si può
dedurre che un perimetro definitorio dell’architettura di business potrebbe non
esistere in senso univoco, o meglio potrebbero esisterne infiniti quanti sono gli agenti
economici che ne determinano i mutamenti.
Si tratta quindi di capire quali siano le variabili che determinano la progressiva
evoluzione di un settore, a cosa vada ricondotta la sua concentrazione e la sua
stabilità, quali dinamiche agiscono nel caratterizzare la mobilità delle forze in gioco e
infine come queste variabili influenzino l’azione del management.
Questo approccio suggerisce che ogni settore potrebbe adottare una, o diverse
architetture di business a seconda dei differenti modi in cui sono distribuiti i ruoli tra
l’insieme di imprese che operano e interagiscono tra loro.
Una volta che in un settore emerge e si stabilizza un’architettura, è difficile deviare
da questa, per ragioni ricollegabili all’interoperabilità, alle regolamentazioni e alle
informazioni da dare al mercato.
All’interno di questo perimetro l’architettura di business è dunque definita come una
descrizione degli agenti economici all’interno di un sistema economico (in termini di
comportamento economico e di capacità che supportano tutto il raggio di
comportamenti possibili) e delle relazioni che intercorrono all’interno di questi agenti
in termini di un minimo insieme di regole che governano la loro disposizione e
organizzazione. (ESD Architecture Committe 2004, p.26)
L’architettura di business provvede quindi a determinare il contorno e la cornice
all’interno della quale gli attori coinvolti interagiscono, cioè definisce la forma che
emerge di un particolare settore e circoscrive la divisione del lavoro tra una serie di
imprese cospecializzate.
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Una volta delineata questa cornice, il lavoro comincerà con un capitolo dedicato ad
una review teorica che descriverà i contenuti e i riferimenti bibliografici di riferimento.
Attraverso la definizione della corretta architettura di business, si verificherà con vari
contributi nella letteratura, come le singole imprese puntino a realizzare un
“architectural advantage”, che si concretizza mediante una diretta influenza
sull’architettura dell’intero settore di appartenenza, specialmente quando questa non
è stabile o sufficientemente delineata.
Il vantaggio competitivo raggiunto permette all’impresa “vincente” di mantenere
un’architettura disegnata sulla sua effettiva capacità di generare efficienza e sulla
concreta possibilità di sfruttare al meglio le proprie risorse e competenze.
Sulla scia del vantaggio acquisito i “followers” tenteranno di ottenere gli stessi
benefici replicando la struttura che ha ottenuto i risultati positivi, rendendo ancora più
agevole e confortevole la posizione dell’impresa “leader”, ovvero quella che ha
creato l’architectural advantage.
A questo punto emerge un altro quesito fondamentale ovvero, quando occorre
apportare modifiche all’architettura di business?
Attraverso un’innovazione, considerata nel senso più ampio del termine, si innescano
i meccanismi che portano l’impresa a ridefinire le relazioni che compongono la sua
architettura di business.
L’innovazione porta sempre a modifiche della struttura dei network che compongono
la catena del valore, e grazie a questo “shock” l’impresa innovator punta a
raggiungere il vantaggio competitivo sopra citato.
Le opportunità per il cambiamento emergono quando ci troviamo in presenza di un
nuovo settore, oppure quando a causa di una nuova tecnologia o di una sostanziale
discontinuità tecnologica, istituzionale o della domanda di mercato, si ha la possibilità
di una riorganizzazione della produzione.
Se l’innovazione diventa il trigger determinante per la ridefinizione del perimetro di
attività e dell’architettura di business, allora lo studio si focalizzerà sul metodo e sulle
variabili determinanti che condizionano l’impresa nel trarre i maggiori benefici
dall’innovazione stessa.
Servendosi dell’analisi di Jacobides (2006), saranno identificate da un lato le scelte
per determinare l’architettura di business, le quali rispondono alle domande: 1) who
can do what? Ovvero stabilire il metodo di creazione del valore nel business e la
divisione del lavoro tra i diversi agenti economici che formano la catena del valore. 2)
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who gets what? Cioè la forma tramite cui le imprese definiscono l’appropriazione del
valore creato e la divisione del surplus o dei ricavi.
Sempre nel primo capitolo si analizzeranno le variabili chiave che inducono le
imprese a raggiungere un vantaggio dalla loro architettura di business.
Queste sono essenzialmente la “complementarietà” e la “mobilità” degli asset.
Entrambe concorrono a determinare quella che Teece (1986) chiama la co-
specializzazione degli attori, ovvero il coinvolgimento di diversi soggetti appartenenti
alla stessa supply chain nella produzione di un determinato output.
Per la complementarietà, che si identifica attraverso la presenza di un vantaggio
ottenuto utilizzando due asset congiuntamente, maggiore rispetto alla somma dei
due asset utilizzati separatamente, le scelte del management dovrebbero orientarsi
verso una pronta integrazione di questi asset.
Discorso diverso per la mobilità che diviene funzione chiave della competitività, ed è
intesa come la possibilità di replicare agevolmente un determinato asset nel settore.
In altre parole, il vantaggio di un’architettura di business si ottiene creando un
“bottleneck”, un ingorgo che non permette ai potenziali entranti di incombere nel
settore.
Questo vantaggio è raggiungibile mantenendo una forte competizione per quegli
asset che sono complementari al prodotto dell’innovatore, e una bassa mobilità nel
proprio core business.
Riuscendo ad agire su entrambe queste dimensioni, le imprese delineano
un’architettura di business perfettamente allineata ai propri bisogni e alla propria
capacità di produrre efficienza.
Tuttavia, secondo gli studi di Jacobides (2006), emerge un trade off per il
management, che si individua nella scelta tra perseguire un architectural advantage
basata sul “contracting” oppure proseguire verso una “integration”. In altre parole, il
management si troverà a decidere se restare in un contesto flessibile in cui
continuare ad interagire con gli altri agenti economici, oppure integrare al proprio
interno gli attori che sostano a monte o a valle della catena del valore, con il rischio
di perdere flessibilità operativa e la capacità di innovare, sia pur riducendo
sensibilmente i costi di transazione.
Partendo dalla definizione sopra citata di architettura di business, il focus si sposterà
sulla seconda parte del lavoro, ovvero una descrizione e un’attenta analisi
dell’industria discografica andando in primo luogo e delinearne i connotati generali,
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evidenziandone i dati sulla performance di settore e sulla concentrazione, in modo da
tracciarne i confini in una chiave storico evolutiva.
A questo punto saranno evidenti le dinamiche che hanno consentito le modifiche
della struttura del settore e le cause che le hanno determinate.
Tra le innovazioni tecniche e tecnologiche considerate come trigger del continuo
adattamento dell’ambiente discografico, si considera principalmente lo strumento di
internet nella distribuzione digitale della musica, e successivamente l’architettura
peer to peer per la condivisione della musica online sottoforma di file mp3.
Verificando come l’avvento di questo strumento abbia condizionato le barriere e la
mobilità del settore, si proseguirà quindi verso l’ultima parte del lavoro, andando ad
analizzare il tradizionale strumento di Porter della catena del valore, per poi
determinare attraverso le variabili di complementarietà e mobilità degli asset, quali
siano le strategie attuate delle quattro maggiori imprese operanti nel settore per
affrontare questo fenomeno e come questo abbia effettivamente modificato la
creazione, la cattura e la protezione del valore da parte delle imprese.
Dove si siano spostati i profit pool e come è andata modificandosi la ripartizione del
valore generato lungo la filiera dell’industria musicale.
Attraverso il modello di Porter della value chain, si dovrà essere in grado di
comprendere quali siano i livelli di business in cui le imprese operanti in questo
settore sono in grado di generare, catturare e infine proteggere valore.
Si cercherà di caratterizzare nello specifico ognuna delle fasi che compongono la
filiera del settore musicale, nonché di descrivere come siano ripartiti i ricavi e quali
siano gli agenti che entrano in gioco in ognuna di queste.
Dopo aver delineato questa analisi del settore si andrà infine a vedere come le
stesse fasi, gli stessi attori in gioco e gli stessi agenti economici abbiano subito
l’avvento della nuova tecnologia, come stiano affrontando l’era denominata come
“rivoluzione digitale del mercato discografico” e come le stesse fasi della supply
chain si siano modificate nel corso di questi eventi.
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Capitolo 1
Dalla cospecializzazione degli asset, all’architettura di business
La prima direzione che sarà intrapresa da questo lavoro sarà di spiegare come le
imprese riescono a trarre beneficio dalle innovazioni tecnologiche adoperandosi nella
manipolazione dell’architettura di business.
Essenzialmente, la letteratura ci rivela che le imprese riescono a perseguire e a
raggiungere questi vantaggi attraverso un’attenta gestione delle relazioni all’interno
del settore, così da creare un “bottleneck” che assicura una posizione di dominio
dell’impresa nel proprio core business e impedisce a potenziali entranti di incombere
nel settore.
Prima di percorrere questo sentiero, è opportuno focalizzare il pensiero sul lavoro
svolto da Teece (1986), il quale identifica i fattori di mobilità e di complementarietà
degli asset, come le variabili principali per definire le componenti della
cospecializzazione tra imprese appartenenti allo stesso settore.
Si ricorda che la cospecializzazione degli attori è considerata come il coinvolgimento
di diversi soggetti operanti nello stesso processo produttivo, finalizzato alla
produzione di un determinato output e che l’architettura di business è realizzata allo
scopo di dare una forma ed un equilibrio ad un settore nel quale operano un insieme
di imprese cospecializzate.
Detto questo le nozioni di complementarietà e di mobilità degli asset sono trattati
come aspetti indipendenti della cospecializzazione in quanto catturano distinti effetti
economici.
La complementarietà influenza la dimensione del valore raccolto e catturato, mentre
la mobilità determina il potere contrattuale dei possessori di determinati asset e, di
conseguenza, la divisione del valore tra i vari agenti economici.
A questo punto, un’impresa vorrebbe garantire una sostanziale mobilità per quegli
asset che sono complementari al proprio business, comportando una competizione
più feroce e un entry mode più agevole proprio nei segmenti in cui operano gli stessi
fornitori di quei determinati asset.
In questo senso, si afferma che un’impresa innovator può avere un ventaglio di
scelte molto più ampio nel modellare e gestire l’intera architettura del settore, in
quanto raggiungerebbe gli stessi asset complementari alla propria innovazione più
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