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scientifico della manodopera, instaurazione di rapporti di stima e collaborazione e
distribuzione uniforme del lavoro e delle responsabilità tra direzione e personale.
Il principio dell’ One Best Way, secondo cui dinnanzi a qualunque problema
organizzativo esiste un’unica soluzione , legittima il primato assoluto
dell’organizzazione d’impresa su ogni componente sociale che vi lavora: la
produzione migliora se il lavoratore smette di pensare a quello che deve realizzare ma
si concentra solo sui gesti sempre uguali del momento produttivo.
Mayo non muta l’architettura gerarchica dell’organizzazione tayloristica ma
riconosce grande importanza al fattore umano e alle motivazioni psicologiche e
sociali dei dipendenti. Secondo la scuola delle relazioni umane (fine anni ’30, inizi
anni ’40), creata dal fondatore della sociologia industriale, nel lavoratore prevale la
logica dei sentimenti e non quella degli incentivi economici, dato che molti aspetti
della condotta umana non possono essere spiegati razionalmente ma scaturiscono
dalla sfera emozionale. Una maggiore attenzione dell’azienda alle esigenze
psicologiche dei soggetti può essere più efficace per il rendimento lavorativo del
semplice aumento della remunerazione. La struttura non potrà più essere rigida ma
diventerà flessibile nel rispetto dei bisogni individuali dei lavoratori. In sintesi i
principi organizzativi sono: tutti i lavoratori devono prendere l’iniziativa, devono
essere motivati e responsabilizzati, devono partecipare alle decisioni. Mayo ha legato
la sua fortuna agli esperimenti effettuati alla Western Electric di Hawthorne nel
campo della ricerca motivazionale rilevando in un primo momento che con il
miglioramento dell’illuminazione aumenta la produzione e scoprendo
successivamente che tale aumento in realtà era dovuto alla creazione di gruppi
spontanei di lavoro in cui regnava la solidarietà operaia e quindi una maggiore
motivazione in contrasto con i metodi arbitrari dell’impostazione fordista- tayloristica
del lavoro in azienda, ossia la catena di montaggio. Esponenti principali della scuola
delle relazioni umane sono stati: Lewin e Moreno i quali sottolineano la superiorità
dello stile del comando democratico su quello autocratico, l’importanza del gruppo
ristretto nella vita delle organizzazioni, i bisogni sociali del lavoratore. Negli anni ’50
e ’60 si è poi sviluppata la corrente delle neo- relazioni umane i cui esponenti furono:
Maslow, Mc Gregor, Likert e Argyris. Parallelamente alla corrente delle neo relazioni
umane si sviluppa un filone di studi detto ad orientamento diagnostico con Von
Bertalanffy e Crozier.
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Altri esperimenti di Mayo furono quelli legati allo studio dell’assenteismo in tre
aziende metalmeccaniche e alla fabbrica di aerei della California.
Il concetto umanistico proposto da Mayo si evolve e si estende, col modello
predisposto dal Tavistock Institute creato verso la fine degli anni ’40 dallo
psicanalista inglese Bion e ripreso in seguito da Rice , dall’individuo al gruppo. Un
insieme aggregato di persone diventa un gruppo quando nasce un’ interazione tra i
membri e quando si sviluppano relazioni e compiti comuni; il gruppo, in quanto
sistema, tende a soddisfare i bisogni di sicurezza, dipendenza e affetto e il suo
compito primario è la propria sopravvivenza. Anche il modello di leader quale
individuo eccezionale all’interno del gruppo acquisisce nuove caratteristiche ed
attitudini: egli deve promuovere la ricerca della verità (leader), essere all’unisono con
essa (mistico), e deve poterla comunicare efficacemente (artista).
Quasi parallelamente dal punto di vista cronologico e geografico avanzano i diversi
modelli organizzativi della leadership: si parte dall’impronta che ne dà la sociologia
francese del lavoro, con Tripier, Friedmann e Naville, che dà il via ad un nuovo
sistema di ricerche applicate intese a spostare l’attenzione dal lavoro all’occupazione,
dalla fabbrica al mondo esterno che la circonda: inizia l’ondata di ricerche sulla
sociologia urbana in particolare, esse si focalizzano sul punto “dalla città alla
fabbrica”, tentando di scovare il rapporto tra imprese e ambiente con un conseguente
avvicinamento della sociologia del lavoro all’economia del lavoro.
La crisi occupazionale degli anni ’70 conduce poi ai fenomeni tipici di crisi: ricerca
contrattualistica, sciopero dei giovani, occupazione precaria, riduzione della durata
del lavoro, carenza dei sindacati di categoria e scarsa influenza socio-politica in
Francia. Si passa dallo studio del lavoro operaio a quello della sperimentazione e
delle riforme a livello delle condizioni di lavoro e dall’analisi dei flussi di
manodopera allo studio del rapporto formazione-impiego: infatti per effetto
dell’automazione di molti processi lavorativi risulta in flessione la domanda di
manodopera costituita dai “colletti blu”, mentre si registra una crescita progressiva
dei “colletti bianchi” a bassa ed alta qualificazione.
Si arriva al modello più avanzato di management dei due giganti industriali (USA e
Giappone). Il modello americano di rete si basa sulla service economy, ossia sul
tentativo di gestire la crescente interdipendenza sociale, introdotta in epoca fordista,
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tra chi produce e chi utilizza la conoscenza (operai e management nell’impresa,
produttore e utilizzatore sul mercato, imprese e fornitori negli approvvigionamenti,
ecc…) iniettando nel sistema economico dosi crescenti di servizi.In opposizione al
fordismo, i servizi vengono cioè a svolgere una funzione essenziale di collegamento
e di ricongiunzione tra chi produce e chi utilizza la conoscenza
Il modello giapponese propone una diversa soluzione allo stesso problema: esso
tenta di ridurre le distanze tra chi produce e chi utilizza conoscenza semplicemente
rinunciando alla concentrazione del sapere: esso non è più patrimonio di un nucleo
ristretto, ma diventa “sapere condiviso” in tutto il sistema aziendale, ai vari livelli, ed
esteso ad una rete selezionata di fornitori, distributori, clienti, consumatori in
rapporto diretto con l’impresa stessa.Tale modello nasce verso la fine degli anni ’40
grazie ad un allora sconosciuta azienda automobilistica, la Toyota, che per risolvere i
propri problemi di sopravvivenza passa da un’economia di scala tipica delle
produzione di grande serie ad un’economia di flessibilità basata su produzioni di
breve serie. Il modello Giapponese viene definito come produzione snella o qualità
totale: implica la produzione di lotti piccoli e diversificati, tempismo e flessibilità in
risposta alle richieste dei clienti (just in time), controllo della qualità e presuppone
una convergenza tra gli interessi dei collaboratori dell’azienda, degli azionisti e dei
clienti. Inoltre alla logica dei limiti del personale si sostituisce la logica delle
potenzialità umane con un’alta responsabilizzazione del personale. Il modello della
qualità totale troverà terreno fertile negli anni ’80 presso le aziende americane, sia
pubbliche che private, poiché il miglioramento della qualità implica una riduzione dei
costi ed un sicuro avvenire delle imprese e del loro personale. Il successo del modello
della qualità totale dipende soprattutto dall’impegno e dall’entusiasmo profusi dal
gruppo dirigente nell’area della qualità e nel perseguimento delle condizioni di lavoro
ideali per i lavoratori.
Si incentra poi il lavoro sullo studio di quelle teorie che, pur lontane nel tempo,
costituiscono ancora oggi le fondamenta della questione leadership: la teoria del
grande uomo e del big bang . Si parte dalla antica spiegazione in termini di
innatismo: leader si nasceva, non si diventava, una sorta di stirpe e di famiglia dei
leaders.Quella del leader era una vocazione. Questa appunto la cosiddetta teoria del
“grande uomo” della leadership. Essa non era capace di dare una spiegazione
plausabile all’esistenza di molti leaders, identificandoli semplicemente con
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caratteristiche quali carisma, genio e intelligenza, perciò fu sostituita da un’altra
teoria che riteneva i grandi avvenimenti facessero diventare leader uomini che
sarebbero altrimenti rimasti comuni (Lenin): Teoria del big bang. Anche questa
concezione si rivelò riduttiva.
La leadership è oggi un fattore necessario in ogni livello e in ogni organizzazione e le
aziende moderne devono essere in grado di organizzare e gestire il cambiamento e
motivare le risorse umane. E’ consigliabile per il leader pensare in termini di piccoli
risultati ( Weick) con azioni di micro leadership : conoscere il proprio lavoro,
coerenza tre dire e fare, favorire l’ascolto di collaboratori, creare un contesto di
scelta.
La scuola di Fayol affronta la definizione delle attività manageriali nelle imprese in
termini funzionali: funzioni tecniche ( produzione), commerciali (acquisti e vendite),
finanziarie (ricerche e gestioni dei capitali), di sicurezza, di contabilità (bilanci e
conti) e direttive (comandare, organizzare, coordinare, controllare).
Il rischio di questo approccio è quello di creare un tipo ideale di manager frutto di
una generalizzazione poco adatto a soddisfare le esigenze di dinamicità, adattabilità e
flessibilità proprie dei ruoli direzionali, poiché non esiste un set di competenze
manageriali applicabili universalmente. Altri autori sono Katz, Bartlett, Goshal e
Livingston.
Dunque più che ricercare le competenze individuali del manager , è importante
studiare le caratteristiche del vertice aziendale (management team) : gli studi di social
network analysis spiegano il comportamento individuale ed organizzativo attraverso
l’analisi della struttura delle relazioni degli attori nell’organizzazione.
Altri autori hanno messo in evidenza invece l’eterogeneità del gruppo direttivo, in
termini di età, tenore, background funzionale, settore di provenienza e educazione.
In effetti i gruppi direttivi caratterizzati da elevata eterogeneità hanno maggiore
creatività ma possono creare conflitti dovuti alle diverse prospettive cognitive
riducendo il consenso del gruppo. Secondo Antonacopolou e Fitgerald la
performance rappresenta solo una misura “grezza” delle competenze, che in realtà
ricomprendono anche le caratteristiche personali e relazionali, le attitudini e le
percezioni e le emozioni.
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La capacità di esercitare la leadership si può acquisire ? Per rispondere a questa
domanda si passa all’esplicazione di tre differenti filoni teorici: 1)la leadership come
tratti di personalità in cui autori come Kikpatrick e Locke, Stogdill, Kouzes, Jukl,
Terman, Galton e Poster individuano delle qualità necessarie (l’onestà; integrità
morale, ambizione, energia personale , intelligenza, conoscenza di sé, comando,
competenza, capacità di gestione); da questa ricerca l’attenzione si sposta sui
comportamenti che caratterizzano le azioni dei leaders ; 2) la leadership situazionale
di Blanchard secondo cui non esiste uno stile universale di leadership, poiché ogni
gruppo è unico, ma ve ne sono diversi a seconda delle situazioni che si devono
affrontare; un leader efficace è l’individuo meglio equipaggiato per aiutare il gruppo
a raggiungere i suoi obiettivi in un dato contesto considerando imprescindibile le
esigenze dei gruppi e delle persone : ciascun leader tenderà istintivamente ad
assumere un particolare stile di leadership o un misto di stili ( Ad esempio, in una
situazione di emergenza o quando qualcuno sta imparando qualcosa per la prima
volta, è meglio essere in grado di condurre e dirigere piuttosto che essere
eccessivamente supportivi.). Seguendo questo approccio Fiedler sostiene che
l’efficienza e la prestazione del gruppo sono date dall’interazione fra lo stile del
leader e di controllo situazionale inteso come la fiducia che il leader nutre nella
possibilità di riuscire a svolgere il proprio compito - la leadership situazionale è uno
dei diversi approcci “transazionali” alla leadership oltre alla teoria dei percorsi
obiettivo e la teoria leader partecipazione. Nel 1970 nasce la path goal theory scopo
della quale è quella di predire quale stile di leadership risulta più efficiente in una
determinata situazione, utilizzando le differenze individuali come variabile. Le cause
di fallimento della leadership transazionale sono da ricercare nell’incapacità del
leader di fornire premi commisurati alle aspettative dei subordinati non soltanto per le
sue lacune, ma anche perché le risorse sono limitate, il sistema di valutazione non
efficace o efficiente, ecc. ; 3) la leadership trasformazionale o “visionaria”
opera di Burns (1978) ipotizzò la necessità di una leadership unificante e
supportiva piuttosto che meramente funzionale in grado di ampliare ed elevare gli
interessi dei subordinati, suscitando consenso e consapevolezza sugli obiettivi e sulla
mission dell’impresa attraverso la capacità di ispirare gli altri, di generare fedeltà
all’azienda e rispetto degli ordini; capacità di vedere e gestire le differenze , di
influenzare i collaboratori per mezzo della fiducia che il leader riesce ad emanare
(leader carismatico), di stimolare le abilità intellettuali , di mostrare nuove modalità
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di vedere i vecchi problemi (visionario). Alla base della leadership trasformazionale
ci sono 4 fattori: influenza idealizzata o carisma; ispirazione; stimolazione
intellettuale; considerazione individualizzata. Vari autori, tra cui Quaglino, House,
Boar , Bryson, definiscono il concetto di leadership carismatica in base agli effetti
carismatici sui seguaci : fiducia, obbedienza, coinvolgimento emotivo, identificazione
con il leader, e sottolineano la tendenza creativa dei leader trasformazionali nel
costruire un nuovo mondo per i collaboratori dove gli obiettivi e i sentimenti dei
singoli riflettono gli obiettivi e i sentimenti del gruppo.
Tale modello di leadership che soddisfa bisogni di livello più elevato è scarsamente
diffuso nel tessuto produttivo italiano e trova ampia diffusione negli Stati Uniti,
nonostante le aziende stiano cambiando e stiano promuovendo un modello che
premia l’iniziativa personale e la qualità individuale.
Ecco un elenco delle caratteristiche psicologiche e delle abilità di una leadership
efficace: conoscere il lavoro o il campo di intervento (abilità tecniche), delegare
,guidare, pianificare (abilità gestionali); usare modelli astratti e saper generalizzare,
analizzare eventi complessi e ipercomplessi, individuare problemi e soluzioni,capire
atteggiamenti, motivazioni e comportamenti dei gruppi e dei singoli, mantenere
relazioni positive con gli altri, cooperare e persuadere, essere abili nei rapporti
interpersonali, avere un’elevata tolleranza dello stress e fiducia in se stessi,
autocontrollo, stabilità emotiva ,atteggiamento aperto, integrità morale.
Queste caratteristiche di personalità permettono di imprimere un’azione trasformativa
sull’ambiente e di interagire efficacemente con esso attraverso la negoziazione, la
costruzione di rapporti interindividuali e intergruppi e lo sviluppo del personale
subordinato.
L’assunzione di decisioni prevede sia la stesura del profilo del ruolo da ricoprire in
termini di competenze, di capacità e di motivazione sia l’allestimento degli strumenti
(ovvero test di livello, inventari di personalità, ma anche interviste e colloqui) per la
misurazione delle abilità intellettuali: problem solving (soluzione collaborativa dei
problemi secondo diverse prospettive) , analisi e sintesi; abilità relazionali:
negoziazione, persuasione, comunicazione; abilità gestionali: organizzazione,
programmazione, decisione, controllo; abilità innovative: creatività, apertura al
cambiamento; abilità emozionali: tolleranza allo stress, equilibrio emotivo.
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Uno dei criteri di classificazione, elaborato dal Tavistock institute fa riferimento al
grado di mobilità richiesta: il telelavoro mobile, (massimo livello di mobilità), in
quanto il lavoratore non ha una sede fissa di lavoro ma svolge la sua attività
spostandosi da un luogo all’altro; le strutture distribuite, (grado intermedio di
mobilità) in cui un’azienda trasferisce le proprie attività in locali attrezzati, situati in
aree prossime alle residenze dei dipendenti; i centri di telelavoro, (grado intermedio
di mobilità)che sono strutture multisocietarie/aziendali attrezzate dove i lavoratori
forniscono le loro prestazioni; il telelavoro a domicilio( livello minimo di mobilità)
in cui lo svolgimento dell’attività lavorativa avviene presso l’abitazione del
lavoratore. Il telelavoro si afferma grazie all’esaurirsi di un certo tipo di società rigida
divisa per funzioni (Taylor e Ford) soprattutto negli USA con 8 milioni di
telelavoratori ufficiali. Per una sua più ampia diffusione si necessita di una
formazione e di un’ educazione scolastica che insegni l’uso dei mezzi tecnologici.
Pochi sono gli studi che hanno messo in relazione genere e comportamento
organizzativo. La letteratura organizzativa ha fatto un uso assai limitato del concetto
di genere, e spesso è stato confuso con sesso. Il pensiero della differenza sessuale ha
mostrato che finché le donne devono adeguarsi ad un astratto modello neutro, che in
realtà è un modello maschile, negano la propria soggettività. Infatti, invertendo i
ruoli, un uomo non sarebbe mai adeguato se dovesse adattarsi ad un paradigma
femminile. . Per le dirigenti, la sfida è quindi complessa e nel nostro paese le donne
raggiungono con molta difficoltà i vertici delle organizzazioni aziendali: conquistare
spazio in un ruolo tradizionalmente maschile (stereotipi quali forza, carisma e
autorità )può comportare ancora oggi una parziale rinuncia alla proprio modo di
sentire le cose
Handy, il guru inglese di management, delinea una quadripartizione idealtipica degli
stili di management (Gods of Management) attingendo dalla mitologia greca: Giove
(carisma) identifica imprenditorialità innovativa e dinamica con un basso livello di
formalità e non burocratica; Apollo ( ordine e burocrazia) rappresenta
un’organizzazione ordinata e strutturata con una precisa e gerarchica definizione dei
compiti; Atena (operatività), rappresenta il raggiungimento degli obiettivi attraverso
il problem-solving e la capacità di lavorare in team; Dioniso (auto-motivazione e
individualismo) rappresenta la valorizzazione delle competenze individuali piuttosto
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che l’azienda e le funzioni di guida appartengono ad individui che si distinguono
naturalmente per le proprie doti.
Il risultato positivo del cambiamento organizzativo è dunque esito di una sinergia
efficace tra managerialità ( gestire ) e leadership (guidare).
Passiamo alla classificazione degli stili di leadership: autoritario, quando il leader
decide tutto in base al suo potere (dittature, forze armate); carismatico che si fonda
sulla forza dell’esempio (Che Guevara, e De Grulle); democratico in cui le decisioni
sono prese a maggioranza e il potere è concesso dal gruppo ; partecipativo in cui le
decisioni sono prese in autonomia dal leader dopo aver sentito tutti; tecno-
burocratico basato su regole e procedure prefissate; permissivo lasciato ad una
maggiore informalità e discrezionalità.
Dal punto di vista aziendale i collaboratori sono diversificati in base alla loro maturità
tecnica (poter fare- competenza professionale) e alla loro maturità psicologica (voler
fare-impegno nello svolgere il lavoro); con una persona con alta maturità tecnica ed
alta maturità psicologica non è indicato lo stile autoritario, ma quello partecipativo-
permissivo (empowerment) che favorisca la loro responsabilizzazione ; con i neo-
assunti ( scarsa maturità tecnica ed alta maturità psicologica) è indicato uno stile
direttivo finalizzato alla formazione. Per quei collaboratori competenti, ma con scarsa
volontà di fare bisogna adottare uno stile motivante e di sostegno; per coloro che non
possono e non vogliono lo stile di leadership più indicato è quello materno. Un
individuo o un gruppo è maturo quando possiede la capacità di stabilire obiettivi di
lavoro personali ambiziosi ma nello stesso tempo è in grado di raggiungerli.
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In conclusione si può dire che non esista uno stile di leadership vincente in termini
assoluti.
Assodato che il successo della leadership non dipende da chi si è, si potrebbe pensare
che esso dipenda dal modo in cui queste persone si comportano (stili adottati):
1. LEADER AUTORITARIO: mira alla dipendenza assoluta dei suoi membri da
se stesso, instaura utilizza sanzioni e punizioni esemplari, instaura una rete di
decisioni centralizzata, prende le decisioni riguardanti il gruppo, senza
consultare nessuno e senza dare spiegazioni, ripone scarsa fiducia negli altri.
2. LEADER DEMOCRATICO : instaura una rete comunicativa aperta, affinché
tutti partecipino alla vita di gruppo in maniera attiva; cerca di “convincere”,
piuttosto che imporsi , cerca di diventare uno del gruppo e ripone fiducia negli
altri.
3. LEADER “LASCIA FARE”: sono dei “leader-non-leader”; la loro presenza o
la loro assenza non determinano differenze significative, nei gruppi da loro
“guidati” , regna l’anarchia ed il disordine.
All’interno di un gruppo emergono sempre uno specialista nel compito ed uno
specialista socio-emotivo. Si potrebbe identificare il leader orientato al compito come
un leader più autoritario ed il leader orientato alla relazione come uno di stampo più
democratico. La libertà di cui disporranno i membri, va da un livello minimo, nella
leadership autoritaria, ad uno massimo, in quella democratica. La leadership più
efficace è quella che consente una combinazione tra orientamento al compito e
orientamento alla relazione.
In molti casi gran parte dell’attenzione del management è rivolta a obiettivi
quantitativi, come la massimizzazione dei profitti, il ritorno degli investimenti e il
valore delle azioni; questi criteri certamente importanti sono insufficienti a creare
un’organizzazione che tragga il meglio dalle persone. Per fare questo è necessario
specificare valori e credenze che determinano un giusto comportamento all’interno
delle organizzazioni, così da poter far coincidere i significati individuali con quelli
organizzativi. E’ questa la via attraverso la quale la leadership può promuovere la
ricerca del nuovo, rispettando il passato affinché il personale, più conscio delle
proprie capacità e più in sintonia con la cultura aziendale, possa garantire un futuro
di successo.