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Sono ormai passati diciassette anni dalla firma del Trattato di Maastricht, approvazione che ha
portato il processo di integrazione europea da una Comunità di Stati ad una Unione ancor più
sovranazionale. Fra le tante innovazioni che questa firma ha comportato, è significativo che le
più celebrate siano la nascita dell'euro e di una Politica estera e di sicurezza comune (PESC):
moneta e relazioni esterne sono due dei campi (se non “i due campi”) in cui maggiormente si
manifesta il carattere sovrano di uno Stato, e non potevano che essere visti, dai più accesi
europeisti, come un'importante tappa in una prospettiva di integrazione sempre più federale.
Spesso, d'altra parte, si ha l'impressione che l'unico legame possibile tra euro e PESC sia
quello dato dalla contemporaneità delle loro genesi. Certo, entrambi i campi sono settori
tradizionalmente considerati di high politics, ma al di là di questo, specie a livello
istituzionale, rimangono due temi separati. L'esempio migliore si manifesta in ambito
internazionale, dove la presenza di Banca centrale europea ed Eurogruppo (il Consiglio dei
ministri dell'area euro) genera confusione su quale sia la “voce dell'euro”. Questa
dissociazione è ancor più stridente se si considera che la nascita della moneta unica sia da
imputare a tutti gli effetti da motivazioni di politica estera: l'Unione economica e monetaria
(UEM), di cui l'euro è l'aspetto più significativo, è stata una sorta di “gabbia” in cui vincolare,
in maniera quasi inscindibile, i paesi europei nel cammino dell'integrazione.
Diversi fattori possono spiegare questo distacco. Il primo elemento è l'asimmetria tra
Unione europea (UE) ed eurolandia: dal momento che la PESC coinvolge tutti i membri della
prima mentre l'euro si riferisce ad una parte di essi, è inevitabile che le relative tematiche
siano trattate in sedi diverse e non abbiano sovrapposizioni. Una seconda considerazione
sorge dallo status istituzionale di cui gode la BCE, che ne sancisce un'indipendenza pressoché
assoluta e la vincola ad un controllo dei prezzi cui subordinare ogni altro scrupolo, incluse
Introduzione
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dunque tematiche internazionaliste. Terzo importante aspetto è la relativa giovinezza della
moneta unica, la quale ha visto le attenzioni delle istituzioni dirigersi verso il consolidamento
dell'euro sul versante economico interno, piuttosto che su altri aspetti. Infine, non vanno
dimenticate le oggettive lacune di UEM e PESD. Entrambe, anche se in misura diversa,
vedono la presenza di procedure intergovernative che ne limitano la capacità decisionale:
poiché questo si riflette anche sui temi in discussione, data la sensibilità generale sia alle
tematiche monetarie che a quelle di politica estera è comprensibile che queste due categorie
non vedano connessioni.
Eppure, l'affermazione dell'euro come moneta internazionale potrebbe rendere il tema
del rapporto euro-PESC una questione plausibile. Dopo undici anni dalla sua entrata in
vigore, la moneta unica ha esteso la sua presenza dai mercati (e dai portafogli) europei a quelli
di altri continenti, divenendo la seconda valuta internazionale dopo il dollaro statunitense. È
vero che la sua riuscita in questo senso era quasi obbligata, dal momento che si trattava di
sostituire le valute di ben dodici paesi, tutti pienamente sviluppati e comprendenti tre
economie facenti parte dell'allora G 7. Ciononostante, è anche vero che la sua affermazione si
è dovuta scontrare contro le perplessità degli operatori economici, comprensibilmente restii di
fronte a quello che era allora visto come un esperimento incerto, e comunque aggrappati ad
una realtà, quella del biglietto verde, che nonostante contraddizioni macroscopiche aveva (ed
ha) una posizione consolidata da decenni di primato economico e politico. Questo spiega, in
effetti, perché l'euro come moneta internazionale abbia una portata più regionale che globale,
concentrandosi in quelle aree che sono limitrofe all'eurozona o che hanno con i suoi paesi
membri profondi legami economici e politici.
Scopo di questo lavoro è cercare di fondare un legame tra moneta unica e politica estera.
In particolare, prendendo atto della posizione dell'euro come moneta internazionale, si vuole
stabilire se questa internazionalizzazione della moneta unica può essere un utile appoggio per
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perseguire obiettivi che sono propri della PESC, o comunque legati alle relazioni esterne
dell'UE. In altre parole, si vuole cercare di stabilire se l'euro può essere uno strumento di
politica estera.
Per fare questo, nella prima parte verranno presentati, in tre capitoli, gli elementi teorici
necessari. Il primo capitolo è dedicato alle monete nazionali ed internazionali, evidenziandone
le implicazioni non solo economiche, ma anche sociali e soprattutto politiche. Il secondo
capitolo presenta l'evoluzione del sistema monetario internazionale dalla nascita, nel tardo
Ottocento, del gold standard per arrivare alla situazione attuale, mettendone in luce la
costanza delle fondamenta politiche. L'ultimo capitolo della prima parte riassume l'opera di
alcuni autori che si sono cimentati nello studio del rapporto tra monete internazionali e potere,
con particolare riferimento alla definizione del potere monetario internazionale.
La seconda parte, anch'essa in tre capitoli, applica quanto esposto alla moneta unica:
dopo aver esposto come l'euro sia stato un vero e proprio strumento di politica estera, nella
misura in cui lo scopo da raggiungere era una più stretta integrazione fra i paesi del vecchio
continente, ed una volta delineatane nello specifico l'internazionalizzazione, si cercherà,
partendo da questa posizione, di valutare le possibilità da esso offerte sia come stabilizzatore
del sistema monetario internazionale che come strumento di politica estera. Pur verificando
l'esistenza, ma anche l'incompatibilità, di questi due ruoli, la conclusione sarà che l'elemento
mancante per un loro pieno funzionamento è un governo unitario a fianco della moneta unica.
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Parte prima: monete, sistemi monetari e
potere monetario in ambito internazionale
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1.1 Monete nazionali e monete internazionali
In questo capitolo vengono esposti gli elementi volti a comprendere il ruolo di una moneta
all'interno sia di un contesto nazionale che in quello globale, cercando di mettere in luce non
solo il suo ruolo economico, ma anche il suo significato sociale e soprattutto politico.
1.1.1 Definizione e origini della moneta nazionale
Nonostante la sua pervasività nella vita di ogni giorno, la moneta risulta difficile da definire,
dal momento che può prendere le forme più svariate, e soddisfa non una ma ben tre funzioni.
In effetti la moneta può essere definita come qualsiasi cosa che, senza riguardo per le sue
caratteristiche fisiche o legali, svolge principalmente e per consuetudine le tre funzioni di
mezzo di scambio, unità di conto e riserva di valore (Cohen, 1971: 3). Il primo ruolo è
ricoperto da quel bene che, con le parole di William S. Jevons, in uno scambio “si intende
tenere solo per un breve periodo, fino a che non diventa parte di un secondo scambio”
(Jevons, 1875: 3). Gli individui vendono beni e servizi con lo scopo di ottenere altri beni e
servizi che non producono, e la presenza di un bene intermedio su cui tutti convergono rende
questo processo molto più semplice. In questo senso un'economia è monetaria, e si distingue
da una naturale in cui la moneta è assente, quando questo “bene eccezionale” è coinvolto in
ogni scambio (Jones, 1976:758). La seconda funzione, quella di unità di conto, è la
condizione sine qua non per il formarsi dei prezzi e per la possibilità di comparare beni tra
loro non omogenei. Tale ruolo si collega con naturalezza a quella di mezzo di scambio, dal
momento che è più semplice esprimere il valore di un prodotto con quel bene accettato
abitualmente nel corso di un pagamento. Infine, la funzione di riserva di valore rende gli
individui capaci di acquistare beni e servizi in un periodo successivo a quello in cui hanno
venduto i loro (Scitovsky, 1977: 12). Questo si traduce nella possibilità di conservare il
proprio potere d'acquisto in maniera molto più efficiente rispetto a beni e soprattutto servizi,
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data la loro deperibilità e l'incertezza del loro valore, dovuta alle oscillazioni del loro mercato.
Si noti che quest'ultima funzione è condivisa dalla moneta con altri beni, ma è anche
vero che questi non ne condividono l'aspetto di mezzo di scambio o unità di conto. In questo
senso, ciò che distingue la moneta da altre attività è la sua liquidità, le cui caratteristiche sono
riassunte così da Tibor Scitovsky (1977: 14):
La principale caratteristica della liquidità è la funzione di mezzo di scambio: la
pronta ed immediata accettazione di un'“attività” come mezzo di pagamento da
più gente possibile e nella più vasta area geografica possibile. Un secondo
aspetto è la possibilità di predire il valore che un'“attività” avrà in futuro, nel
momento in cui sarà usata come mezzo di pagamento. Un terzo aspetto della
liquidità è la reversibilità: un valore in pagamento non è minore di quello che
era in accettazione. (...) Queste tre caratteristiche della liquidità sono soddisfate
nel modo migliore dal denaro contante o moneta legale, almeno entro le frontiere
della nazione in cui la moneta è emessa.
Anche se c'è una certa concordia nella letteratura su una definizione basata sulle
funzioni svolte dalla moneta, differenze emergono su quale sia tra i tre il ruolo prevalente, e
soprattutto sulle origini di questo “multifunzionale” strumento.
Sull'ultimo aspetto si sono sviluppate due scuole di pensiero. La prima scuola, definita
come metallismo, deriva dal pensiero economico ortodosso, per cui la moneta altro non
sarebbe che un ennesimo bene, per quanto molto particolare a causa della sua posizione
pervasiva nel sistema economico (Aglietta, 2000: 4). Karl Menger, cui ci si può rivolgere
come precursore di questa scuola, identifica l'origine della moneta nel differente grado di
1
“vendibilità” tra beni (1892: 242). Egli nota che (1892: 247-248):
(...) per certi articoli, esiste una più grande, più costante, e più efficiente
domanda che per altri beni meno desiderabili (...) e che la persona che desidera
1Saleableness nelle parole dell'autore.
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acquistare certi prodotti in cambio del proprio è in una posizione più favorevole
se possiede questi articoli. (...) In queste circostanze, quando tutti hanno portato
beni non altamente vendibili nel mercato, l'idea più immediata nella loro mente è
scambiarli non solo per ciò che hanno immediatamente bisogno ma, se questo
non può avvenire direttamente, per altri beni che (...) sono comunque più
vendibili dei propri. (...) Gli uomini sono stati così condotti, con crescente
coscienza dei loro interessi individuali, ciascuno dal suo interesse economico,
senza convenzione, senza obbligo legale, anzi, senza nemmeno riguardo
all'interesse comune, a scambiare beni destinati allo scambio (i propri), per altri
beni egualmente destinati allo scambio, ma più vendibili.
Dunque la moneta inizialmente si svilupperebbe come mezzo di scambio per evitare una
situazione di baratto. In un contesto simile una transazione potrebbe avvenire solamente
avendo alla base una doppia coincidenza di voleri, cioè una circostanza in cui un individuo,
desideroso di scambiare il proprio prodotto per un altro che non produce, dovrebbe trovare
un'altra persona in possesso di quest'ultimo e pronta a scambiarlo per il primo articolo.
Inoltre, entrambi dovrebbero volere le stesse quantità dei beni in offerta, accordandosi dunque
su un tasso di cambio reciprocamente accettabile, ed essere preparati a scambiarli nello stesso
momento (Crockett, 1973: 7). Il raggiungimento di una simile coincidenza può comportare
elevati costi di transazione, cioè quell'insieme di costi connessi alla ricerca, contrattazione,
incertezza ed attuazione degli scambi economici (Cohen, 1998: 13). Secondo il metallismo,
pertanto, la moneta sarebbe spontaneamente emersa per “lubrificare” i mercati riducendo
questi costi (Tcherneva, 2005: 10). È importate sottolineare come le teorie metalliste si
concentrino sulla moneta come mezzo di scambio, il cui valore discende dalle caratteristiche
intrinseche del bene in questione (in genere un metallo prezioso, da cui appunto
“metallismo”), e che trova origine nel settore privato, esclusivamente per facilitare le
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transazioni economiche (Tcherneva, 2005: 10). In questo senso, la carta moneta o un altro tipo
di attività accettata come tale altro non sarebbe che un'estensione di questo bene, in quanto
promessa di conversione futura.
In netta contrapposizione si trovano le teorie cartaliste, le cui radici si possono tracciare
da Adam Smith a John Maynard Keynes (Wray, 1998: 18). Per queste tesi, la moneta non
potrebbe essere studiata se non in rapporto ai poteri dello Stato, i quali ne determinerebbero la
forma stabilendo un'unità di conto in cui esprimere gli obblighi derivanti dal dovere di
solvenza di debiti sociali, in particolare sotto forma di tasse o altre compensazioni (come
multe o altre sanzioni penali) nei confronti dello Stato stesso (Tcherneva, 2005: 2). Ci si può
rivolgere a Charles A. E. Goodhart (1998: 416) per comprendere il motivo di tale legame:
(...) senza moneta, sarebbe difficile imporre tasse su qualcosa che non siano la
produzione, il trasporto e il commercio di beni, dal momento che solo i beni (o
ore di lavoro) possono essere consegnati. Una volta che la moneta esiste, tasse su
persone, redditi e consumi, così come sulla produzione di servizi, diventano
semplici da imporre.
Nella sua forma più generale l'approccio cartalista può essere presentato con il pensiero di
George Friedrich Knapp, per cui i debiti sarebbero espressi in unità di valore ed estinti con
mezzi di pagamento, “un oggetto mobile che ha la proprietà legale di essere portatore di
unità di valore” (come citato da Wray, 1998: 24). Questi mezzi nel corso del tempo avrebbero
preso varie forme (in genere metalli preziosi), senza però rimanere costanti. Sarebbe dunque
un decreto, espressione di potere politico, a dare ad un oggetto con determinate caratteristiche
un certo valore in una certa unità, e sempre un provvedimento pubblico permetterebbe la
transizione da un certo materiale ad un altro con un certo tasso di conversione. Non solo:
sarebbe proprio lo Stato a giocare il ruolo principale nell'affermazione di una certa moneta nei
territori sotto la sua autorità, dichiarando ciò che le proprie autorità pubbliche accetterebbero
12
come pagamento. La realizzazione della presenza di una sola moneta per Stato avverrebbe
dunque a prescindere dal materiale di cui essa è costituita (Bell, 2001: 154-155). La sua natura
sarebbe dunque “cartacea” (da cui il nome dell'approccio) in quanto si tratterebbe di un
biglietto o gettone simbolico usato come strumento di pagamento o misura di valore, e la sua
nascita avrebbe luogo come unità di conto stabilita dallo Stato. Solo in conseguenza di questa
genesi diventerebbe anche mezzo di scambio e riserva di valore per le transazioni economiche
fra privati. Come questo avviene è descritto ancora da Goodhart (2003: 186):
La moneta nasce prima come un mezzo per estinguere debiti, e solo
successivamente (quando le funzioni della moneta diventano così accettate e
ratificate come unità di conto e mezzo di pagamento) viene ampiamente adottato
nelle transazioni di mercato.
È importante sottolineare il fatto che, in quest'ottica, non sarebbe il governo ad avere
bisogno del denaro del pubblico per finanziare le proprie necessità, ma il pubblico a
desiderare la moneta dello Stato per pagare le tasse, il che permetterebbe allo Stato di
comprare qualsiasi cosa semplicemente offrendo la propria moneta (Wray, 1998: 18).
Insomma, Stato e moneta sono due fenomeni inscindibili, dal momento che la seconda non
potrebbe esistere senza il primo.
Di sicuro l'approccio cartalista è più convincente per analizzare l'epoca più recente dei
paesi maggiormente sviluppati, in cui il ruolo centrale dello Stato nella gestione degli affari
monetari è indiscutibile: questi hanno infatti visto l'affermazione della moneta fiduciaria, la
quale non può esistere senza un'autorità politica che vi dia valore. Inoltre, da questo secondo
approccio risulta chiaro come la moneta sia un fattore non solo economico, ma anche sociale
e politico. La sua necessità sotto questi tre punti di vista la rendono un vero e proprio bene
pubblico, come spiega Paul De Grauwe (1997: 16):
[La moneta] costituisce qualcosa di molto simile ad un bene collettivo. Ciò
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significa che i vantaggi della moneta derivano esclusivamente, per il singolo
individuo, dal fatto che altri la usano. Al contrario di altri prodotti (...) la moneta
non ha alcuna utilità qualora venga usata da una sola persona.: affinché abbia
valore per un individuo è necessario che anche altri la utilizzino, e tanto più
ampio è il gruppo di persone che utilizzano la stessa moneta tanto maggiore sarà
l'utilità per l'individuo.
1.1.2 Moneta e mercato, società e Stato
Messa in luce la natura di bene collettivo della moneta, è possibile ricorrere a mercato, società
e Stato come a tre “lenti” attraverso cui esaminarla e coglierne tre particolari aspetti.
Studiando la moneta attraverso il mercato si evidenziano le forme che essa può avere nelle
economie moderne. La moneta come elemento della società permette di illustrare il ruolo che
la fiducia gioca nel suo “funzionamento”. Infine, uno studio del rapporto tra moneta e Stato
chiarisce il suo valore politico e la sua utilità come strumento di potere.
Analizzando la moneta come strumento di mercato, vengono in evidenza le varie forme
che essa può assumere. In base alla definizione multifunzionale offerta in precedenza, è
possibile individuare nelle varie società della storia un'infinità di forme di moneta (Spinelli,
1999: 19-20). D'altro canto, il fatto che tali funzioni siano svolte al meglio da elementi
contraddistinti dalla caratteristica della liquidità spiega la convergenza su due oggetti in
particolare: i metalli preziosi e la cartamoneta. In effetti, una tendenza generale è stata quella
di ricorrere a dei metalli preziosi (in genere oro o argento), a causa delle loro caratteristiche
intrinseche (quali duttilità, divisibilità e ricomponibilità, etc..) che li rendevano adatti a
svolgere la funzione di mezzo di scambio (Bell, 2001: 152). L'invenzione della cartamoneta
ha poi amplificato questi vantaggi, trasformando la circolazione di metalli preziosi nello
spostamento di “promesse” di metalli preziosi, in forma di biglietti stampati la cui emissione è
14
passata da attori bancari allo Stato. In questo senso, è utile ricorrere all'approccio cartalista
che identifica la moneta come credito, come afferma Stephanie Bell (2001: 150):
[La moneta] rappresenta una relazione di debito, promessa o obbligazione (...) e
rappresenta un'attività per il creditore ed una passività per il debitore.
Considerando la moneta come forma di credito (o debito a seconda dei punti di vista), la
sua creazione sarebbe possibile per chiunque: il problema è piuttosto renderla accettabile
(Minsky come citato in Tcherneva, 2005: 12). In altri termini, differenti tipi di monete hanno
diversi gradi di accettabilità alla luce della loro credibilità in quanto forma di credito. Questo
suggerisce un'organizzazione in cui le forme più e meno accettabili si trovano rispettivamente
in cima ed alla base di una piramide in cui le promesse che rappresentano sono organizzate in
ordine gerarchico (Tcherneva, 2005: 12). Cosa determina la “promessa ultima”? Bisogna
considerare che, per estinguere i debiti, tutti gli agenti economici, eccetto lo Stato, sono tenuti
su richiesta a convertire le proprie passività in attività al di fuori della relazione di debito.
Siccome lo Stato è l'unico che può estinguere i debiti con la propria moneta, questa si situa
all'apice della piramide (Tcherneva, 2005: 12). Una versione semplificata di tale piramide può
essere immaginata con quattro scalini, corrispondenti alle attività emesse dalle famiglie,
imprese, banche e alla moneta dello Stato (Bell, 2001: 159). Queste ultime due forme sono
considerate da Knapp la moneta decisiva del sistema: da una parte abbiamo la moneta dello
Stato in quanto tale, dall'altra abbiamo attività bancarie il cui sostegno risiede sia nei propri
depositi che nel coinvolgimento delle autorità pubbliche nelle loro attività, per motivi spiegati
in seguito. In definitiva è possibile considerare, in maniera peraltro coerente con le analisi
macroeconomiche, l'offerta di moneta come costituita dalla moneta emessa dallo Stato e
quella emessa dalle istituzioni bancarie, dato che la loro ampia accettabilità le
contraddistingue con la caratteristica di liquidità decisiva per l'identificazione di moneta vera
e propria.
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Se si intende la moneta come una forma di credito, se ne deduce che essa è un rapporto
sociale, dal momento che coinvolge per definizione un debitore ed un creditore. Michael
Aglietta (2002: 5-8) spiega così:
(...) la divisione delle attività umane è il prerequisito per la sopravvivenza di
qualunque gruppo collettivo che può essere chiamato società. (...) Da una parte,
nessuna attività è svolta dal nulla. Ogni attività umana ha bisogno di trarre delle
risorse dalla società. Crea debiti verso la società. Dall'altra, il prodotto delle
attività umane è una potenziale pretesa della società. (...) La moneta è un
operatore sociale che trasforma la diversità delle attività umane in quantità
omogenee espresse [nella stessa] unità di conto. (...) pertanto la moneta è il
cemento della società. Collega assieme attività che sono separate dalle necessità
della produzione. Il sistema di emissione di debiti e pagamento tiene unita la
società ed è così un cruciale meccanismo di coesione sociale.
In questo senso, la moneta è un rapporto sociale basato su una doppia fiducia: in primo
luogo che essa sia accettata da tutti i membri della comunità, in secondo luogo che essa sia
accettata per quello che vale. Riguardo al primo punto, ancora Aglietta spiega (2002: 9):
Gli individui non si fidano l'uno dell'altro se non condividono la credenza di
provenire dalla stessa comunità [su cui una relazione sociale si basa]. (...) Tale
comunità, in relazione alla moneta, è il sistema di pagamento. Un individuo
accetta della moneta solo se ritiene che questa in futuro sarà accettata da altri.
Sul secondo punto, ci si può invece rivolgere di nuovo a De Grauwe (1997: 16-17):
La disponibilità a detenere attività in moneta si basa sulla fiducia del detentore
che queste attività non perderanno il loro valore. Gli agenti economici, per
accettare una certa moneta, devono confidare nel fatto che l'emittente non faccia
nulla per ridurne il valore (...). Per l'emittente nasce dunque il problema
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fondamentale di come convincere il detentore della propria credibilità.
La necessità di questa doppia fiducia si basa sul fatto che le transazioni monetarie
richiedono informazioni differenti dal baratto. Quest'ultimo, infatti, per prendere luogo si basa
su informazioni specifiche, legate ad attori, termini, tempi e modalità in cui lo scambio
avviene (Dodd, 1994: xxii). Non così uno scambio che avviene con la moneta: questa infatti è
portatrice di informazioni “astratte”, come la possibilità del suo riutilizzo nel futuro, la sua
attrattiva presso altri membri della società, e la validità e la stabilità del suo valore facciale. In
quanto astratti, tuttavia, questi elementi non possono che basarsi sulla fiducia (Dodd, 1994:
xxiv): a tutti gli effetti, la moneta vale unicamente per quello che le persone pensano che sia, e
cercare di stabilirne il valore futuro significa immaginare il valore che gli altri ne daranno in
futuro (Kirshner, 2003: 643).
La natura di bene pubblico della moneta e la necessità di fiducia chiariscono in parte lo
stretto legame Stato-moneta all'interno di un confine nazionale. Un primo coinvolgimento,
almeno in ordine storico, riguarda la coniazione dei metalli. Questa esigenza rispondeva alla
necessità di ispirare fiducia negli utenti di una valuta ed allargarne l'ampiezza, certificandone
la bontà di una moneta e facilitando dunque il commercio. Adam Smith (come citato in
Spinelli, 1999: 34) afferma:
Per prevenir gli abusi, facilitare gli scambi e incoraggiare così ogni genere di
attività e di commerci si trovò necessario (...) imprimere un marchio ufficiale su
una determinata quantità di particolari metalli usati comunemente (...). Di qui
l'origine della moneta coniata e di quelle pubbliche istituzioni chiamate zecche
(...).
Un altro fattore che ha portato al coinvolgimento dello Stato si collega alla moneta
bancaria, ed al suo importante ruolo come “moneta decisiva” secondo Knapp. Si tratta del
rischio corso dagli emittenti privati di moneta, i quali sono stati spesso spinti a prestiti a volte
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azzardati. Questo ha spesso generato crisi di fiducia nel pubblico, cioè scetticismo nella
riconversione delle proprie attività, ed una conseguente corsa agli sportelli per accaparrarsi gli
ultimi depositi (De Grauwe, 1997: 19-23). La mancata conversione in moneta legale anche
solo da parte di una sola banca innescava crisi di fiducia in tutto il sistema bancario, e ciò ha
portato ad un aumento della pressione nei confronti dello Stato per un maggiore controllo
dell'offerta di moneta. Tale controllo si è tradotto in due strumenti principali. Da una parte si è
assistito alla determinazione dell'offerta di moneta totale del sistema, attraverso il monopolio
della moneta legale e la disciplina dei depositi bancari. Dall'altra, lo Stato ha assunto, in caso i
necessità, il ruolo di prestatore di ultima istanza, che comporta l'assicurazione di credito
attraverso la fornitura di liquidità per impedire ad una crisi bancaria di espandersi (Fischer,
1999: 86).
La pervasività dello Stato negli affari monetari diventa tuttavia più chiara se si colgono i
vantaggi che il controllo di una moneta offre alle autorità pubbliche. In questo senso la “lente
Stato” mostra la moneta come strumento di potere. Un primo fattore è costituito dal
signoraggio che, nella sua accezione storica, designava il profitto legato al privilegio regale di
battere valuta, e consisteva nella differenza tra il valore intrinseco della moneta, determinato
dal valore effettivo del metallo componente le monete, ed il loro valore facciale, fissato
arbitrariamente dal sovrano: tale trattenuta doveva sia compensare le spese incorse nel conio
delle monete, sia costituire una forma di introito per le autorità (Corbin, 2003: 1). Assieme
alle già menzionate razionalizzazione ed estensione dei prelievi fiscali, lo sfruttamento del
signoraggio costituisce una prima spinta verso tale accentramento fin da tempi remoti. John
Stuart Mill (come citato in Spinelli, 1999: 39) afferma:
I governi scoprirono essere nel proprio interesse prendere la coniazione nelle
proprie mani. (...) la loro garanzia sembrava la sola alla quale il mercato fosse
disposto ad affidarsi, ma questo era spesso poco meritato; [visto] l'artificio
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imprudente e superficiale del ridurre il contenuto metallico delle monete.
In forma moderna, il signoraggio si riferisce al guadagno di una banca centrale in
quanto monopolista dell'emissione di valuta legale: in cambio delle passività non remunerate
che rappresentano la base monetaria, essa acquisisce delle attività che producono interessi a
tassi di mercato (Corbin, 2003: 1).
Da questa prerogativa ad altri privilegi fiscali il passo è relativamente breve.
L'imposizione di una valuta a corso legale, infatti, offre alle autorità pubbliche la possibilità di
finanziare la propria spesa in termini di risorse reali ai danni del settore privato, il cui potere
d'acquisto è ridotto dalla conseguente inflazione (Cohen,1998: 39).
Un'altra utilità che la moneta offre è legata al suo potenziale impatto sull'economia
reale, che permette, almeno in teoria, di influenzare e perfino di gestire il ritmo dell'attività
economica (Cohen, 1998: 42). Sono due gli strumenti offerti alle autorità per questo scopo. Il
primo è l'offerta di moneta stessa, che può essere manipolata per influenzare il livello di spesa
interno: questo può avvenire in maniera diretta, concedendo più moneta agli individui per le
loro spese, o indiretta, attraverso la variazione dei tassi di interesse e la conseguente
espansione del credito. Il secondo strumento è invece il tasso di cambio verso le altre valute
nazionali, che può essere manipolato per variare la spesa nel sistema economico stesso:
questo avviene attraverso l'espansione o la contrazione di esportazioni od importazioni,
determinate dalla variazione del prezzo relativo dei propri beni rispetto a quelli internazionali.
I privilegi economici non sono comunque gli unici. Considerando la moneta come un
fattore sociale, essa può essere regolarmente usata per costruire specifiche identità politiche e
legami sociali, operando come un simbolo locale o di potere (Kaelberer, 2004: 161-162).
Questo può avvenire attraverso le immagini impresse su di essa, le quali offrono alle autorità
pubbliche la possibilità di propagare la loro visione della nazione arrivando ai propri cittadini
nella vita quotidiana ed a tutti i livelli sociali, anche a quelli analfabeti (Helleiner, 2001: 4-6).