2
riflettere su argomenti ai quali si è convinti di non poter fornire soluzioni
certe. Una prima risposta credo si possa estrarre, forse in modo azzardato,
dall’insegnamento platonico e dalla natura aporetica dei suoi dialoghi.
Nello specifico facciamo riferimento diretto ad una delle opere giovanili
dell’autore, l’Eutifrone3. In questo caso l’indagine verte sulla definizione
corretta del “santo”, che è necessario elaborare affinché sia possibile
motivare in modo saldo ed efficace l’azione che il sacerdote sta per
compiere. Si tratta dunque, come si diceva a inizio paragrafo, di capire
quali sono le ragioni in base alle quali si è convinti della moralità della
propria azione. Eutifrone sta infatti per accusare il proprio padre di
omicidio, perché egli ha lasciato morire di stenti un proprio colono
colpevole a sua volta di avere ucciso uno schiavo. Eutifrone è
assolutamente convinto di compiere un’azione giusta, santa, nonostante la
sua scelta sia effettivamente controcorrente rispetto ai valori tradizionali
della società ateniese. In realtà il dialogo mostra poco dopo in modo chiaro
che quella che può essere scambiata come personalità anticonformista è
di fatto del tutto dipendente dai valori consueti e socialmente accettati;
egli agisce più per paura di risultare in qualche modo complice d’omicidio,
piuttosto che per profonda giustizia verso le classi meno agiate della
società ateniese. Già questo permette di avanzare una sorta di
parallelismo che conduce a riflettere sul modo in cui spesso vengono
assunte decisioni morali anche al giorno d’oggi: più per conformismo a
tradizioni culturali e contesti socio-educativi che per critica riflessione su
di esse.
Al di là della figura di Eutifrone, ciò che mi interessa sottolineare è
che l’azione morale che egli sta per compiere necessita di spiegazioni che
permettano a Socrate di comprendere il motivo per il quale quella
particolare azione è davvero giusta. Non è da dimenticare infatti che lo
stesso Socrate è accusato pubblicamente da Meleto di corrompere i
giovani con il proprio insegnamento. È dunque di fondamentale
importanza per quest’ultimo poter disporre di una concreta e precisa
definizione del santo, in modo da difendersi meglio dalle accuse che gli
3
Platone, Eutifrone,a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2001.
3
vengono rivolte. Per questo Socrate si fa discepolo e ascoltatore del
sacerdote Eutifrone: al fine di poter giungere insieme a lui alla salda
conoscenza del giusto.
Si tratta dunque di rispondere in modo esauriente all’interrogativo
etico per eccellenza: che cosa è giusto?
Il dialogo prosegue nel modo cui Platone ci ha abituati, con una serie
di definizioni portate dall’interrogato a Socrate e con le relative
dimostrazioni d’inadeguatezza da parte di quest’ultimo, per poi
concludersi in modo del tutto aporetico, senza una risposta essenziale alla
domanda iniziale che possa rivelarsi concretamente valida. L’ironia che
pervade l’intero dialogo lascia spazio all’amarezza di non essere giunti a
conclusioni utili, ma anche alla soddisfazione di avere svelato
l’infondatezza di posizioni sostenute con non sufficiente acume critico.
Perché il dialogo tra Socrate ed Eutifrone rimane importante e
filosoficamente significativo, nonostante le sue conclusioni non si siano
mostrate in grado di fornire le soluzioni che si cercavano?
La risposta a questa domanda serve a capire il senso delle pagine che
seguono, serve a capire perché si è portato avanti un lavoro seppure con la
consapevolezza di non poter dare definizioni o suggerire soluzioni
definitive che possano guidare gli uomini nella loro condotta morale.
Il dialogo platonico necessita di essere ripetuto, si inserisce nella
dimensione dell’oralità dialettica all’interno della quale può trovare senso e
collocazione4. Non è solo il discepolo di Socrate a dover ripetere
quell’indagine, ma il lettore in generale: egli, attraverso la lettura del
dialogo, può iniziare a riflettere e indagare sull’oggetto in questione
cercando di giungere ad una risposta metodologicamente corretta ed
efficace. Affrontare i problemi è già un grande passo, analizzarli con senso
di responsabilità e interesse permette inoltre di coltivare una maggiore
consapevolezza di sé stessi e delle proprie decisioni morali. Nonostante
non sia possibile identificare un’unica soluzione o una definizione certa
che rimanga costante e che possa servire da guida per l’azione, la
riflessione, lo studio e l’indagine rimangono elementi necessari per
4
Ibidem, pag. 47. Si veda inoltre: M. Erler, Il senso delle aporie nei dialoghi di Platone, Vita e Pensiero,
Milano 1991.
4
giungere ad una elaborazione filosofica che sia quanto meno approfondita
e razionalmente motivata. Credo che questo sia anche l’insegnamento
platonico, che privilegiava la dimensione della ricerca piuttosto che il
raggiungimento effettivo di un obiettivo. Certo, qualora fosse possibile
arrivare ad una risposta agli interrogativi degli esseri umani, ciò sarebbe
del tutto positivo, un grande traguardo per l’uomo e per il suo esprimersi
in società, ma al di là di tutto questo, è fondamentale che gli uomini
continuino ad interrogarsi criticamente su ciò che fanno e sul perché lo
fanno.
Dunque queste pagine possono avere un senso nel momento in cui le
si inquadra secondo quest’ottica, che privilegia il cammino e il percorso
riflessivo che ognuno di noi è chiamato a compiere se vuole cercare di
avvicinarsi alle risposte che, da sempre, sono oggetto di ricerca, nella
convinzione che la riflessione responsabile abbia senso e importanza di
per se stessa.
Si è scelto in questa occasione di concentrarsi su un ambito
circoscritto, che si rivela sempre più attuale e al centro di dibattiti privati e
pubblici. Si è cercato infatti di riflettere sugli interrogativi etici sollevati dal
progresso scientifico che ha condotto a nuove situazioni e a nuovi contesti
con i quali si è chiamati a confronto. È questo l’ambito proprio della
bioetica, campo dell’etica applicata che fa riferimento alle nuove condizioni
nelle quali si verificano il nascere, il morire e il prendersi cura degli esseri
umani5, alla luce delle nuove possibilità tecnico-scientifiche e prendendo
in considerazione relativi risvolti etici e loro conseguenze. Nello specifico,
si è scelto di concentrare l’attenzione sui due paradigmi dominanti nella
riflessione sui problemi bioetici: quello laico basato sulla nozione di
qualità della vita, e quello cattolico fondato sul principio di sacralità della
vita. Si è tentato di esaminarne le caratteristiche e di portare una serie di
riflessioni e riferimenti che possano favorire la loro analisi critica e
l’indagine di limiti e punti di forza di entrambe le posizioni.
La riflessione teorica che si tenta di avanzare si sviluppa a partire da
una serie di considerazioni riguardanti la particolare caratterizzazione
5
Si veda in proposito: W. T. Reich (a cura di), Encyclopedia of Bioethics, The Free Press, New York 1978, I,
pag. XIX.
5
della società in cui viviamo: individui con credenze, tradizioni e valori
diversi si trovano infatti a convivere e a confrontarsi.
Si è scelto innanzitutto di impostare l’analisi a partire appunto dal
pluralismo delle società odierne, che non deve essere considerato come un
pericolo da combattere, ma anzi deve essere coltivato e valorizzato per le
possibilità che mette in luce. Tra queste opportunità si trova quella di
indagare le proprie convinzioni e le proprie personali risposte etiche alla
luce di quelle altrui, secondo un atteggiamento effettivamente tollerante
che possa contribuire ad un sincero scambio di vedute tra gli esseri
umani. È infatti necessario evitare di proporre un’ etica assoluta, uguale
per tutti, che non tenga conto delle distanze reali tra gli individui o che,
peggio, sia finalizzata ad uniformizzare le differenze sulla base di risposte
universali ed assolute di cui sarebbe portatrice. Dunque il pluralismo
normativo, ovvero la posizione di chi accetta l’esistenza di molteplici e
diversificate, anche opposte, posizione etiche6, si pone nelle pagine che
seguono non solo come «un elemento caratterizzante nel quale bisogna
riconoscere, prima di tutto, un fatto difficile da negare»7 ma come una
“scelta di valore”8, positiva, a partire dalla quale si possa sviluppare una
scelta etica responsabile basata sulla tolleranza, intesa come effettiva
opzione per un rispettoso atteggiamento verso gli altri e non come
semplicistica indifferenza nei loro confronti.
In secondo luogo si ritiene necessario ampliare le indagini sugli
interrogativi etici alla luce dell’insieme di relazioni e di interconnessioni
che contribuiscono a plasmare le scelte e le convinzioni del singolo, nella
convinzione che non possa esistere alcun “io” senza riferimento al “tu”, e
che ogni interrogativo morale abbia senso nel momento in cui la scelta
coinvolge soggetti diversi rispetto a colui che è chiamato appunto alla
decisione. È in questo senso che si farà spesso riferimento al concetto di
alterità9, per capire se e fino a che punto è incluso nelle trattazioni
teoriche che servono come quadri di riferimento per la giustificazione
6
M. Mori, Bioetica. 10 temi per capire e discutere, Bruno Mondadori, Milano 2002, pag. 22.
7
P. Borsellino, Bioetica tra autonomia e diritto, Zadig, Milano 1999, pag. 207.
8
G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, op. cit. , pag. 89.
9
Si fa riferimento qui all’accezione socio-antropologica del concetto, così come sviluppata da F. Remotti,
intendendo cioè l’altro come l’individuo prossimo in un contesto relazionale. Si veda il testo: F. Remotti,
Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 2001.
6
dell’azione morale. Il termine è preso in prestito dal lavoro di Francesco
Remotti, che lo utilizza per chiarire come l’identità personale sia «un fatto
di decisioni»10 frutto dell’insieme di alterazioni e costruzioni che
caratterizzano il rapporto «in bilico» 11 tra alterità e identità. L’alterità così
intesa viene ritenuta inevitabile per la definizione del concetto stesso di
identità: «ci si può spingere a riconoscere non solo l’esistenza dell’alterità,
non solo la sua inevitabilità, ma anche il suo essere “interno” all’identità,
alla sua genesi, alla sua formazione. L’alterità è presente non solo ai
margini, al di là dei confini, ma nel nocciolo stesso dell’identità. Si
ammette allora che l’alterità è coessenziale non semplicemente perché è
inevitabile (perché non se ne può fare a meno), ma perché l’identità (ciò
che “noi” crediamo essere la nostra identità, ciò in cui maggiormente ci
identifichiamo) è fatta anche di alterità»12. Il concetto così inteso viene
utilizzato nelle pagine che seguono per proporre un’etica che tenga conto
delle contaminazioni, delle relazioni e degli scambi interpersonali nella
formulazione di quadri di riferimento per la giustificazione dell’azione
morale. Ciò significa ritenere che ogni particolare decisione etica presa da
un singolo individuo sia influenzata, a volte in modo determinante, dal
contesto nel quale egli si trova inserito, caratterizzato anche dall’insieme
di rapporti e relazioni con gli altri. Così come l’identità in generale è fatta
anche di alterità, allo stesso modo la dimensione etica di un individuo è
essa stessa il frutto delle interconnessioni e delle relazioni con l’etica degli
altri, soggetti diversi con i quali si convive e ci si confronta. Fare ciò non
vuole dire assumere un taglio negativo o critico che giunga ad ipotizzare
l’inesistenza dell’identità e dell’autonomia individuale, ma si pone
semplicemente come un ulteriore livello di riflessione che potrebbe
rivelarsi necessario nel momento in cui ci si trova ad indagare sulla
dimensione etica dell’essere umano e sulle diverse posizioni che
inevitabilmente si confrontano e convivono in una società pluralistica
come la nostra.
10
Ibidem, pag. 5.
11
Ibidem, si veda soprattutto il cap. 6.
12
Ibidem, pag. 63.
7
Un’ultima considerazione riguarda la necessità di inserire le
riflessioni sul pluralismo e sull’importanza delle relazioni con gli altri
all’interno di teorie etiche che partano appunto dalla realtà nella quale gli
individui si confrontano piuttosto che dall’esigenza di conformare tale
realtà a teorie astratte. A partire da questi presupposti si è cercato di
riflettere sui due paradigmi principali che caratterizzano la bioetica .
I primi due capitoli del lavoro sono finalizzati alla descrizione della
teoria etica della qualità della vita e alla dottrina cattolica della sacralità
della vita umana e alle loro sfumature interne sulla risoluzione delle
questioni bioetiche. Il riferimento costante agli altri e al confronto dialogico
necessario tra i paradigmi presentati permette di riflettere su alcuni
elementi che impediscono una efficace convivenza tra laici e cattolici. Il
terzo capitolo cerca infine di riflettere sulle possibili vie di comunicazione
tra qualità e sacralità della vita, a partire dall’interrogativo sulla reale
possibilità, allo stato attuale delle teorie e dei principi presentati, di un
dialogo fecondo che sia accettato da entrambe le parti e che sia,
soprattutto, efficace nella risoluzione dei conflitti bioetici. Si rifletterà sulle
eventuali modalità di superamento della dicotomia proposta nelle prime
parti del lavoro, mettendo in evidenza alcuni concetti irrinunciabili sia per
i laici che per i cattolici, che determinano una sostanziale e irriducibile
distanza tra i due nelle circostanze che richiedono una nuova e profonda
analisi delle implicazioni etiche. In sostanza i paradigmi esaminati
poggiano su concezioni opposte che allo stato attuale delle cose non sono
avvicinabili senza che i cattolici rinuncino alle loro pretese di verità
oggettiva valida universalmente.
Le considerazioni che si sono citate in precedenza, tra cui la rilevanza
dell’altro e delle interazioni tra singolo individuo e il suo prossimo, hanno
contribuito a riflettere sulle caratteristiche sia della bioetica laica della
qualità della vita che della bioetica cattolica della sacralità della vita. Sulla
base di tali riflessioni si è cercato di mettere in luce, nel corso dell’ultimo
capitolo di questo lavoro, quanto sia problematico conciliare il pluralismo
delle società contemporanee con la normatività universale che caratterizza
il paradigma cattolico in bioetica. D’altra parte si è cercato anche di
segnalare un possibile ampliamento del paradigma laico in bioetica sulla
8
base delle relazioni tra individui e sul loro ruolo imprescindibile per la
moralità del singolo. Gli elementi messi in luce hanno senz’altro un peso
diverso nel definire la sostanziale incomunicabilità tra i due paradigmi.
In questo senso infatti la normatività assoluta e la pretesa di essere
sempre nel giusto che caratterizza la bioetica della sacralità della vita,
impediscono a priori qualsiasi scambio di vedute tra gli esseri umani, che
invece sono spesso portatori di credenze e valori diversi, e generano
dunque un atteggiamento di chiusura rispetto al dialogo e al confronto
necessari nella società pluralistica nella quale viviamo. L’incontro tra i due
paradigmi non è in definitiva possibile, per lo meno sul piano dei principi.
Rimane da indagare sull’eventuale incontro a livello metodologico, su
quelli che Patrizia Borsellino chiama appunto “principi procedurali”13. In
linea di principio sono d’accordo sulla necessità di analizzare la possibilità
dell’esistenza di principi «finalizzati a rendere attuabile, entro una
determinata società, la coesistenza di individui e di gruppi che non
condividono gli stessi impegni morali e non riconoscono i medesimi valori
sostanziali»14. È quanto avanzato sopra quando si è affermata l’importanza
di una indagine teorica che parta appunto dalla concreta realtà degli
individui e non dall’esigenza di conformare quest’ultima a teorie astratte.
Di fatto, però, a mio parere, un simile indirizzo di ricerca e riflessione
necessità comunque di un atteggiamento aperto al confronto che allo stato
attuale delle cose non si riscontra tra i sostenitori della bioetica cattolica
della sacralità della vita. Fino a quando non si verificherà una rinuncia
alla normatività universale che caratterizza il paradigma cattolico la
distanza sul piano dei contenuti non potrà dirsi assottigliata e la ricerca di
principi procedurali non potrà contribuire a focalizzare l’attenzione sulla
diversità e sulla coesistenza delle persone.
Il pluralismo cui spesso si farà riferimento nel lavoro, come
imprescindibile realtà delle società contemporanee, non deve
erroneamente essere interpretato come relativismo: «un relativismo spinto
a sostenere che tutte le posizioni etiche si equivalgono è falso in quanto
13
P. Borsellino, Alcune distinzioni relative ai principi della bioetica laica, in E. D’Orazio, M. Mori (a cura
di), Quale base comune per la riflessione bioetica in Italia?, in “Notizie di Politeia”, XII, nn. 41-42, 1996,
pagg. 77-78.
14
Ibidem, pag. 78.
9
incapace di rendere conto della realtà delle distinzioni morali e della loro
rilevanza effettiva nella vita delle persone»15. Si sostiene invece che la
riflessione e lo studio in bioetica debbano vertere sull’analisi delle
posizioni normative che meglio possono valorizzare e rispettare le diverse
concezioni della moralità, senza alcuna imposizione d’autorità che implichi
il mancato rispetto delle libertà individuali.
La diffusione di nozioni scientifiche e la pubblicità riservata dai media
a situazioni estreme, in cui diventa necessario affrontare le questioni poste
dalla riflessione bioetica, hanno sicuramente contribuito ad accrescere
nella sottoscritta l’interesse verso questo genere di dibattiti. Così come è
stato fondamentale, per la decisione di dedicare questo elaborato alle
controversie bioetiche, il confronto-scontro sollevato dal referendum che
nel giugno 2005 ha visto gli italiani decidere sulla Legge 40, a proposito di
“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”.
Il particolare coinvolgimento vissuto in quella occasione, assistere a
conferenze, ascoltare testimonianze di chi in precedenza si è confrontato
con questioni delicate come la decisione di ricorrere alla fecondazione
assistita per evitare al proprio figlio la condanna di una malattia genetica,
hanno sostanzialmente contribuito a cercare di delineare i contorni di quel
coinvolgimento in un senso che potesse essere costruttivo e
consapevolmente elaborato. È stato infine lo studio accademico che ha
permesso di delineare in modo più definito i termini delle questioni,
lasciando spazio ad argomentazioni razionali di autori importantissimi che
con i loro contributi hanno lasciato un forte segno nel mio personale modo
di vedere le cose. È attraverso le letture che mi hanno portato ad elaborare
questo lavoro che ho avuto modo di riflettere in modo profondo su
questioni con le quali prima mi confrontavo in modo superficiale, guidata
più da slanci emozionali che da ragionamenti razionali. E sebbene la
ragione non sia comunque in grado di garantire la bontà delle proprie
azioni o delle proprie scelte, almeno ora mi sembra di poter guidare le mie
riflessioni tenendo conto di elementi e sfumature alle quali prima non
pensavo. Consapevole, certo, della necessità di approfondire letture e
15
E. Lecaldano, Dizionario di Bioetica, Laterza, Roma-Bari 2000, pagg. 226-227.
10
studio, che non possono mai venir meno quando ci si confronta con
questioni così dinamiche e con posizioni destinate ad essere sempre più
precise ma anche sempre diverse, dato il loro stretto legame con il
progresso scientifico che non sembra destinato ad arenarsi, tutt’ altro.
Quello che spero emerga dalle pagine seguenti è che, al di là di
contrapposizioni teoriche forse insuperabili, elementi quali responsabilità,
considerazione critica e razionale delle proprie scelte alla luce del
pluralismo, sono elementi che dovrebbero essere ritenuti fondamentali
per giungere ad una significativa elaborazione delle proprie motivazioni
morali, secondo un efficace esame delle possibilità offerte che tenga conto
del contesto, delle relazioni, delle volontà e della libertà di ogni soggetto
coinvolto. Evitare dunque ogni imposizione che si proponga
presuntuosamente come l’unica giusta e favorire invece un atteggiamento
che sia consapevole della diversità di posizioni e che cerchi di tutelarne la
differenza, senza calpestare o ignorare le libertà dell’individuo e favorendo
il confronto. Questo non significa appoggiare una posizione relativistica e
indifferente al problema morale, piuttosto cercare di favorire una visione
che non manchi di considerare le diversità e le distanze reali della nostra
società in sede di elaborazione teorica. Mi rendo conto che i problemi posti
in sede deliberativa e legislativa dalla necessità di tutelare e regolamentare
alcune pratiche mediche siano di difficile risoluzione, ma quello che ho
cercato di dire in queste pagine è che, prima di un dibattito istituzionale
su questioni private, è necessario lo sviluppo di una riflessione più
consapevole da parte del singolo, che gli possa consentire di fornire
motivazioni soddisfacenti per le proprie scelte, affinché queste non
risultino debolmente e acriticamente sostenute.
Credo che si debba andare al di là della definizione oggettiva e
assoluta di qualsiasi criterio che possa fornire ragioni alle elaborazioni
teoriche citate in precedenza. Si deve infatti tenere conto del particolare
contesto sociale, educativo, relazionale e culturale nel quale ciascuno di
noi è inserito e che contribuisce in modo determinante alla scelta stessa.
Questi stessi elementi non possono non essere considerati anche quando
si è chiamati a valutare la liceità o meno di comportamenti morali.
11
1. L’etica laica in bioetica.
“Siamo liberi di considerare la nostra morale un ideale di virtù da difendere, ma questo non comporta
che possiamo pretendere di imporla a tutti gli esseri umani. Possiamo certamente difenderla, ma con il
solo ricorso alla forza delle argomentazioni. Questo confronto sarebbe tanto più facile e fecondo se
nessuna delle parti in causa pretendesse di avere dalla sua parte Dio o qualche altra autorità”.16
E. Lecaldano
1.1. Etica della disponibilità della vita umana: l’articolarsi del
paradigma laico.
Le molteplici sfumature concettuali che il termine “laico” assume,
richiedono un chiarimento sul senso preciso con il quale lo si utilizzerà in
questo lavoro. Originariamente il termine, derivante dal greco laikos dalla
radice laos, cioè popolo, indicava chi, pur professando un dato culto, non
apparteneva alla gerarchia istituzionale del culto stesso. A questo primo
significato se ne devono aggiungere degli altri tendenti per lo più a
sottolineare una distanza tra il clero e lo Stato piuttosto che a segnalare
differenze interne alle stesse gerarchie religiose. Questi significati sono
dunque finalizzati alla rivendicazione di autonomia della sfera pubblica
rispetto alle ingerenze ecclesiastiche. Un significato ancora più esteso
tende a reclamare indipendenza rispetto a qualsiasi atteggiamento
dogmatico acritico e ideologicamente uniformante. Questa la definizione
avanzata da una delle più importanti figure del panorama bioetico
italiano, Uberto Scarpelli: «Laico non è il negatore di Dio (la negazione di
Dio è essa stessa una proposizione su Dio, un parlare dell’ineffabile) ma
chi ragiona fuor dell’ipotesi di Dio, accettando i limiti invalicabili
dell’esistenza e della conoscenza umana.»17
16
E. Lecaldano, Un’etica senza Dio, op. cit. , pag. 53.
17
U. Scarpelli, La bioetica, alla ricerca dei principi, in “Bioetica laica”, Baldini e Castoldi, Milano 1998,
pag. 220.
12
In accordo con le distinzioni segnalate da Giovanni Fornero nel suo
testo di recente pubblicazione18 si userà il termine “laico” proprio secondo
quest’ultima accezione, ossia privilegiando il significato antidogmatico che
il vocabolo assume e che si rispecchia in un atteggiamento critico privo di
pregiudizi e di richiami a dogmi assoluti.
Anche questa identificazione, che potrebbe sembrare definitiva e
chiara, ha in realtà bisogno di una ulteriore specificazione.
È decisamente differente infatti l’atteggiamento di chi si pone davanti
a questioni etiche e di responsabilità senza farsi condurre da pregiudizi da
quello di chi si ripropone di ragionare al di là di dogmi e verità assolute19.
Il primo sarà portavoce di un modo di fare filosofia basato sui valori del
rispetto, del dialogo e della tolleranza, riconoscendo dunque il pluralismo
della società odierna come una positiva realtà e potrà essere definito laico
in senso “debole”; il secondo invece si proporrà di agire escludendo da ogni
riflessione riferimenti metafisici di qualsiasi tipo, ossia indipendentemente
da Dio o da altre fedi, e sarà laico in senso “forte”.
È evidente che le due sfumature si richiamano l’un l’altra, seppure in
modo diverso20.
La seconda ha sicuramente bisogno, per concretizzarsi, della prima,
cioè di un atteggiamento che permetta la coesistenza di posizioni diverse e
non escluda il confronto, ma anzi lo incoraggi. Il richiamo non è però
biunivoco, dato che si può essere laici in senso debole senza esserlo in
senso forte.
La contrapposizione tra cattolici e laici di cui si parlerà nei prossimi
paragrafi vede coinvolti i laici in senso forte: coloro che oltre ad avere un
atteggiamento aperto basano i loro ragionamenti al di là dell’ipotesi di Dio.
La laicità debole è un prerequisito di quella forte, che si caratterizza però
per l’impostazione procedurale precisa che si propone di rifiutare «un uso
18
G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondadori, Milano 2005, pag. 64.
19
Ibidem, pag. 67.
20Una ulteriore posizione metafisica rispetto alle due menzionate è proprio la concezione atea: «Oggi
l’ateismo può essere sostenuto non solo come esito scettico nei confronti delle pretese avanzate dal deismo e
dal teismo, ma anche come una concezione feconda in grado di rispondere a molti dei nostri interrogativi
vitali», E. Lecaldano, Un’etica senza Dio, Laterza, Roma- Bari 2006, pag. 38.
13
strategico- normativo dell’idea di Dio, sia in senso teologico-confessionale,
che in senso metafisico-razionale»21.
La bioetica laica non vuole essere “antireligiosa”, ma più
semplicemente “a-religiosa”: «Esser laici, quindi, non implica affatto né
l’agnosticismo né l’ateismo, ma solamente l’esclusione di premesse
metafisiche o religiose che pretendano di valere per tutti»22. Ciò comporta
che ci si occupi delle nuove questioni riguardanti l’inizio e la fine della vita
umana senza alcun riferimento a verità incontrovertibili. Il paradigma
teorico all’interno del quale è possibile inserire le riflessioni laiche si
caratterizza per la ferma convinzione che sia possibile disporre
autonomamente del proprio corpo e della propria vita, ovvero che sia
facoltà e responsabilità umana prendere decisioni in merito all’inizio e alla
fine della propria esistenza. La cosiddetta “etica della disponibilità della
vita umana” prevede che l’individuo sia libero di decidere per sé,
autonomamente, come meglio disporre della propria vita e del proprio
corpo, ovvero che in situazioni particolarmente difficili egli possa scegliere
secondo quelle che sono le sue considerazioni, credenze o quant’altro
ritenga importante. Chi, ad esempio, scoprisse di essere stato colpito da
una grave malattia il cui decorso porterà irrimediabilmente alla morte,
preceduta dalla graduale perdita delle proprie facoltà fisiche e mentali e
decidesse in piena coscienza e responsabilità di porre fine ad una
esistenza non ritenuta adeguata, dovrebbe secondo tale modello poterlo
fare senza limitazioni. Così come, se lo volesse, dovrebbe poter affrontare
la malattia con la migliore assistenza possibile. Si tratta dunque di
lasciare all’individuo piena libertà decisionale per quanto riguarda la
propria persona.
Nella società attuale, caratterizzata dal multiculturalismo e dunque
dall’incontro spesso conflittuale fra tradizioni e modi di vivere, si rende
sempre più necessario il ricorso al dialogo e al confronto, unici elementi in
grado di rendere meno definitiva una distanza reale che non può essere
solo negativa, ma che ha in sé il seme della crescita. È in quest’ ottica che
la bioetica laica della disponibilità della vita umana si ripropone di
21
G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, op. cit. , pag. 71.
22
U. Scarpelli, Bioetica laica, op. cit. , pag. XIX.
14
affrontare le questioni sollevate dal progresso scientifico: nella
consapevolezza che non esistono posizioni o scelte giuste o sbagliate in
assoluto, perché non ci sono valori assoluti, purtroppo o per fortuna, che
possano indicare sempre la strada migliore da seguire, né ci si deve
aspettare che tale strada sia la stessa per tutti. Una sorta di “epoche
fenomenologica” che permetta la “sospensione” delle proprie credenze
affinché sia facilitato l’incontro con le credenze altrui. Se, come Panikkar
ha suggerito23, l’epochè non ha senso nel dialogo religioso perché
risulterebbe privo di significato il tentativo di disfarsi delle proprie
credenze religiose in un incontro tra esperienze religiose, potrebbe invece
essere di rilevante importanza in ambito etico, dove cercare di capire
l’altro e le sue scelte significherebbe incontrarlo “sul suo territorio”.
Cercare, in altre parole, di rapportarsi alle scelte altrui a partire dalle
motivazioni e dal contesto dell’altro, considerato non solo come un “non
io”, ma come un “tu”24, soggetto morale autonomo degno della stessa
considerazione di cui io stessa mi ritengo degna. Cercare di capire le scelte
dell’altro e non pretendere che l’altro agisca secondo schemi
comportamentali stabiliti e immodificabili rende problematico il
riconoscimento in bioetica di scelte moralmente lodevoli o criticabili. Ma
proporre un’etica pluralistica non significa, come verrà meglio chiarito nei
prossimi paragrafi, proporre un’etica relativistica, in cui tutto sembra
essere lecito e irreprensibile.
A dover essere analizzate criticamente e approfonditamente non sono
le azioni degli uomini, ma le motivazioni che li spingono ad agire in un
certo modo. E una tale analisi non presuppone che ogni illustrazione delle
ragioni sia ritenuta sufficiente e moralmente accettabile, ma che la si
approfondisca secondo principi morali ritenuti importanti, come la
limitazione del danno altrui o la ricerca della piena soddisfazione degli
interessi di tutti i coinvolti.
Gli stessi bioeticisti laici che basano le loro teorie sul principio della
disponibilità della vita spesso si trovano in disaccordo su casi particolari,
23
R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella Editrice, Assisi 2001, pag. 119 e segg.
24
Ibidem, pag. 15.