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diritto di vivere la propria vita senza essere esclusi o emarginati perché
sofferenti.
Non si troverà qui, una rassegna di teorie e modelli da poter
confrontare speculativamente, in quanto si parlerà principalmente di
eventi, accadimenti, trasformazioni che sono il frutto di una reale messa in
discussione delle certezze del proprio agire professionale.
Mi rendo conto delle implicazioni e del rischio che una scelta di
questo genere comporta.
Spesso questa modalità di procedere ha finito per produrre equivoci,
diffidenze, talora anche forti ostilità. E’ stata bollata troppo
frettolosamente come ideologia, come anacronismo, come nostalgia della
memoria, come empirismo velleitaristico o come puro atto politico.
Credo che ciò derivi dal fatto che un simile modo di agire abbia
toccato, in fondo, un punto nevralgico della nostra professione. E cioè
quello relativo all’identità del nostro ruolo e del mandato sociale che ci è
stato affidato.
Nonostante Basaglia fosse uno psichiatra, e quindi appartenesse ad
un campo culturale, teorico e soprattutto pratico ben definibile e
sicuramente diverso rispetto al mio, ritengo di aver colto, nella sua storia
di uomo-psichiatra qualcosa di molto simile a ciò che ho vissuto e sentito
entrando per la prima volta quattro anni fà in un reparto psichiatrico.
Ho cominciato a riflettere non più sulla sintomatologia, o sulle
manifestazioni e sui comportamenti definiti “malati”, ma sulle condizioni
attraverso le quali questi comportamenti potevano raggiungere determinati
esiti.
Ho cominciato a riflettere sui complessi meccanismi che regolano la
vita di un’istituzione, intendendo non solo le istituzioni come strutture,
come luoghi contenutivi, spazi fisici di relazione o di non-relazione, ma
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anche come strutture connessionali di senso che regolano le stesse
relazioni.
Questa riflessione mi ha portato a fare i conti con una dimensione
spesso scotomizzata del nostro agire in psicoterapia ed in generale in tutte
le professioni umane e sociali: il potere.
Il potere non solo e non tanto come complesso meccanismo di
produzione di disuguaglianza sociale, ma forse meglio, nel senso di
Foucault, come molteplicità dei rapporti di forza immanenti al campo in
cui si esercitano. Quindi come “rete di rapporti di potere” che regolano la
nostra vita e le nostre relazioni.
Questo discorso porta inevitabilmente a chiederci se abbia davvero
senso interrogarsi semplicemente sugli esiti, o su ciò che definiamo
malattia o disturbo mentale, senza aver chiaro dove siamo collocati
rispetto a questo interrogativo. E cioè senza prima conoscere la complessa
struttura costituita dalla rete di rapporti di forza agenti in un determinato
campo fenomenico in cui andiamo ad operare.
Io credo che la psicoterapia, come la psichiatria e come tutti i saperi
prodotti dalla cultura umana, non possa sottrarsi a questo percorso critico
che è fondante rispetto alle implicazioni che muove all’interno di una
pratica di cura.
Perché “curare” attiene ad una precisa responsabilità che è quella di
avere sempre presente il fatto che di fronte a noi non abbiamo un oggetto,
ma una persona con i suoi bisogni, un corpo di relazioni ed una storia di
vita che dobbiamo conoscere profondamente se vogliamo accompagnare
l’altro sul terreno difficile della sofferenza.
Ecco il motivo per il quale ho ritenuto di dover spostare il focus del
mio discorso sul terreno dell’etica.
Etica come assunzione di responsabilità nell’operare una scelta, non
come psicoterapeuti, o come semplici cittadini del mondo, ma
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principalmente come uomini che incontrano altri uomini: una dimensione,
quella umana che contiene tutti i ruoli possibili.
La vita, l’opera, il pensiero, l’impresa di Franco Basaglia sono
davanti a me come un esempio e come un monito: non esiste un pensiero
saturo, definitivo, esiste sempre la possibilità di cogliere la contraddizione
insita in ciascun discorso e cogliere gli spazi trasformativi di utopia in
ogni realtà.
Stà a noi la scelta: dialettizzare la contraddizione e costruirci questa
“utopia della realtà” con un ottimismo della pratica, o chiudere
definitivamente il discorso nascondendoci dietro un ruolo, col pessimismo
della ragione.
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Introduzione
Franco Basaglia si è spento il 29 agosto del 1980 in un giorno di
pioggia a Venezia, sua città natale. Sono passati da allora esattamente
venticinque anni. Negli ultimi mesi della sua vita aveva lasciato Trieste
per recarsi a Roma, dove stava tentando di avviare una serie di programmi
e di iniziative per la riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica nella città
di Roma e nella regione Lazio. Egli aveva compreso che la sfida più dura
era ancora da affrontare: non bastava aver chiuso definitivamente il
manicomio come luogo e struttura segregante, bisognava cominciare ad
affrontare la “manicomialità” insita in ogni istituzione sociale.
Un compito molto più difficile perché giocato al di fuori della logica
e della pratica che fino ad allora avevano dato risposte vincenti, e creato
un vasto movimento capace di portare il parlamento italiano
all’approvazione di una legge sull’assistenza psichiatrica (la legge 180 del
1978), dopo 74 anni di ingiustizie e crimini di ogni genere perpetrati
contro l’umanità in nome della scienza (legge 36 del 1904 - disposizioni
sui manicomi e sugli alienati).
Si trattava di affrontare un nemico diverso dal manicomio, un
nemico invisibile e fortemente radicato nella cultura clientelare,
burocratica, politica ed economica di un paese che cominciava appena ad
avvertire gli effetti di una progressiva ed inevitabile disintegrazione dello
Stato Sociale.
Basaglia era partito da lontano, dai confini di un paese che si stava
riprendendo dal dopoguerra e che vide negli anni ‘60 e nei primi anni ‘70
il periodo più prospero di sviluppo economico soprattutto nel settore
industriale (boom economico).
Gorizia fu la prima tappa di un lavoro di radicale trasformazione del
modo di fare psichiatria ereditato dai vecchi modelli del Positivismo di
fine ottocento.
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Quella che possiamo definire la fase di “negazione istituzionale”,
che porterà all’introduzione della Comunità Terapeutica di stampo
anglosassone nel manicomio di Gorizia, e successivamente alla crisi del
modello comunitario come riproposizione di un luogo contenitivo
“buono”, ma sostanzialmente non intaccante la struttura rigida e coercitiva
dell’ospedale psichiatrico, verrà trattata estesamente nel primo capitolo di
questo lavoro.
Dopo la breve ma significativa parentesi di Colorno (Parma)
Basaglia approda a Trieste dove può finalmente gettare le basi per una
reale distruzione dell’ospedale psichiatrico e la contemporanea formazione
di una rete di servizi territoriali in grado di far fronte alle difficoltà e ai
disagi dei pazienti dimessi dal manicomio.
La narrazione di questo lungo percorso di decostruzione della
presunta scientificità del modello medico, attraverso una prassi che
permette agli internati di rinegoziare una contrattualità sociale, sarà
ampiamente descritta nel secondo capitolo.
Il terzo capitolo si propone, infine, due obiettivi ambiziosi: il primo
quello di dimostrare che la lezione basagliana contiene ancora oggi
elementi preziosi in grado di guidarci nella difficile professione di
“operatori di fronte alla sofferenza”. Ed il secondo, forse più difficile, di
dimostrare che è sul terreno dell’etica che la psicoterapia, come sapere
non supposto, ma guidato dal sapere di colui che chiede aiuto, può
confrontarsi e crescere come cultura che è al servizio dell’uomo e della
sua liberazione e non come strumento di dominio.
E’ di questo in fondo che questo lavoro parla.
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Cap 1 Sperimentare modelli alternativi al manicomio:
l’esperienza della Comunità Terapeutica di Gorizia
“L'appartenenza non è lo sforzo di un
civile stare insieme, non è il conforto di un
normale voler bene, l'appartenenza è
avere gli altri dentro di sé”.
GIORGIO GABER
1.1 La Comunità Terapeutica di Gorizia
“La comunità terapeutica è un luogo nel quale tutti i componenti (e
ciò è importante) – malati, infermieri e medici – sono uniti in un impegno
totale dove le contraddizioni della realtà rappresentano l’humus dal quale
scaturisce l’azione terapeutica reciproca” [Basaglia, 1967].
Con queste parole Franco Basaglia, da pochi anni divenuto direttore
dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, definisce le caratteristiche salienti,
di un’esperienza di lavoro, che diverrà ben presto, il punto di riferimento
di un vasto movimento in grado di sovvertire le sorti della Psichiatria
asilare italiana e di rivoluzionare giuridicamente il sistema organizzativo
dei servizi psichiatrici del nostro paese
1
.
Basaglia proviene dall’esperienza accademica maturata
nell’Università di Padova, dove – laureatosi nel 1949 nella facoltà di
Medicina e Chirurgia – inizia a frequentare la Clinica di malattie nervose e
mentali e qui rimane come assistente del prof. Belloni fino al 1961
2
.
1
Gli sforzi di questo movimento convoglieranno nel 1973 nella costituzione di “Psichiatria
Democratica”, un’associazione in cui confluiranno molti esponenti del movimento di psichiatria
alternativa nato in quegli anni, e soprattutto nella promulgazione della legge 180 del 1978 che sancirà la
definitiva chiusura dei manicomi, e la successiva riorganizzazione dei servizi psichiatrici nel nostro
paese.
2
Durante questo periodo Basaglia produce un grande lavoro intellettuale con un susseguirsi di
scritti, di pubblicazioni scientifiche, di relazioni congressuali sulle più diverse condizioni di malattia
incontrate nella sua pratica clinica. […] Sono gli anni in cui incomincia anche ad appassionarsi di
filosofia, studiando in particolare la fenomenologia e l’esistenzialismo e cercando di conciliare la
psicopatologia tradizionale con la psichiatria antropofenomenologica [M. Colucci; P. Di Vittorio, 2001,
pp. 1-2].
13
Nel 1961 vince il concorso per la direzione dell’Ospedale
psichiatrico di Gorizia, dove si trasferisce con tutta la famiglia.
La sfida di Basaglia alle “istituzioni della violenza”, come definirà
anni più tardi le realtà asilari italiane, comincia dunque da Gorizia: “con
una rabbia e un coraggio di cui – credo – nessun altro sarebbe stato capace
in Italia in quegli anni, in una situazione locale culturalmente e
politicamente sfavorevole, aveva deciso di farne un’esperienza pilota”
[Jervis, 1977, p. 20].
Ma l’esperienza pilota non si dimostra immediatamente e facilmente
percorribile. Drammatico è l’impatto di Basaglia con la durezza della
realtà manicomiale, dove la situazione dei ricoverati è al limite della
sopravvivenza
3
, e dove le uniche forme di “trattamento” utilizzate sono la
contenzione fisica e le terapie di shock.
Profondamente colpito da questo scenario, Basaglia è deciso a
trasformare radicalmente il manicomio ed intende avvalersi
dell’esperienza innovativa, e per certi versi sperimentale, della comunità
terapeutica mutuata dal modello anglosassone di Maxwell Jones
4
.
La comunità terapeutica sviluppatasi in Inghilterra, pur non potendo
essere ricondotta a un modello unico, ha come caratteristica essenziale il
rivoluzionare il rapporto medico-paziente, che cessa di essere
esclusivamente “duale” a partire dal: “dichiarato sfruttamento, ai fini
3
Si pensi che “nel gennaio del 1961 i pazienti presenti in ospedale erano 603, le ammissioni
erano state nell’anno precedente 300” [A. Manacorda, V. Montella, 1977, p. 51].
4
“[…] Di fatto la nozione di comunità terapeutica sorse per la prima volta nel 1946, quando
Tom F. Main, in un numero speciale del “Bulletin of the Menninger Clinic” dedicato ad una rassegna
dei progressi della psichiatria post-bellica, parlando del lavoro degli psichiatri inglesi del “gruppo di
Northfield” (Bion e Rickman e più tardi Foulkes), descrisse l’ospedale di Northfield sotto il titolo: Una
comunità terapeutica. Bion e Rickman avevano organizzato nel 1943 il loro gruppo di malati del
Northfield Hospital, che erano soldati affetti da nevrosi, in modo comunitario, con gruppi di discussione
e partecipazione dei pazienti al governo del reparto. Lo stesso aveva fatto Maxwell Jones alla divisione
per la sindrome da sforzo a Mill Hill nel 1941-44, poi all’ospedale per ex prigionieri di guerra a
Dartford nel 1945, poi nel 1947 alla divisione di riabilitazione industriale (in seguito sociale) di
Belmont, che divenne, col nome di Henderson, l’ospedale per psicopatici in cui Maxwell Jones lavorò
fino al 1959” [Schittar, 1968, pp. 157-158]”. Nello stesso anno Maxwell Jones diventò direttore del
Dingleton Hospital a Melrose, in Scozia” [M. Colucci; P. Di Vittorio, 2001, p. 140].
14
terapeutici, di tutte le risorse dell’istituzione, concepita quest’ultima come
un insieme organizzato non gerarchico di medici, pazienti e personale
ausiliario” [M.Colucci; P. Di Vittorio, 2001, p. 141].
Quando nel 1961-62, Basaglia si reca in Inghilterra trova una realtà
completamente diversa da quella dei manicomi europei: “[…] All’interno
del servizio sanitario nazionale il malato mentale era diventato un “malato
informale, uguale a qualunque altro. Il numero degli internati cominciava
a diminuire; il mercato del lavoro richiedeva nuove braccia; nascevano le
tecniche per “deistituzionalizzare” il manicomio, e tra queste la comunità
terapeutica; emergeva per la prima volta in modo chiaro l’aspetto sociale
della psichiatria [Basaglia, 2000, pp. 107-108].
C’è da dire che in quegli anni non esiste un vero e proprio modello
di comunità terapeutica, quanto piuttosto diverse modalità di attuazione,
che per la loro natura stessa di strutture in continuo divenire, sono di
difficile formulazione schematica.
Clark, che realizzò una comunità terapeutica al Fulbourn Hospital
5
,
ha individuato alcune caratteristiche comuni alle diverse esperienze di
terapia comunitaria negli anni sessanta:
1) Libertà di comunicazione: viene compiuto ogni sforzo
affinché la comunicazione sia possibile a tutti i livelli e in
tutti i sensi non solo in quello discendente gerarchico.
2) Analisi di tutto ciò che accade nella comunità in termini di
dinamica individuale e, specialmente, interpersonale. Ciò
5
Oltre all’Henderson Hospital studiato dal sociologo Rapaport, altre importanti comunità
terapeutiche inglesi, sorte tutte o quasi in ospedali psichiatrici, furono quelle del Claybury Hospital di D.
Martin, il Fulbourn Hospital di D.H. Clark (menzionato sopra), il Dingleton Hospital di Maxwell Jones,
ecc. Nell’America del Nord fiorirono numerose comunità terapeutiche, alcune in cliniche private, altre
come parte di strutture psichiatriche universitarie, altre ancora in reparti psichiatrici di ospedali generali
e infine come strutture intermedie della Community Psychiatry (ospedali di giorno, ospedali di notte,
hostels per i pazienti dimessi da poco ecc.) [Schittar 1968, p. 162].
15
ha luogo propriamente nelle riunioni di gruppo e con tanta
maggiore intensità e frequenza quanto più gli psichiatri
sono orientati in senso psicodinamico. Al limite le riunioni
comunitarie possono lentamente trasformarsi in sedute di
psicoterapia di gruppo (Mack).
3) Tendenza alla distruzione del tradizionale rapporto di
autorità con appiattimento della piramide gerarchica, al più
basso gradino della quale stà tradizionalmente il paziente.
4) Possibilità di godere di occasioni di riapprendimento
sociale sia spontanee che strutturate nell’istituzione (balli,
proiezioni cinematografiche, rappresentazioni teatrali,
feste; uscite individuali o in gruppo, ecc.).
5) Presenza di una riunione (di solito giornaliera) di tutta la
comunità (community meeting) e di frequenti regolari
riunioni più ristrette, a tutti i livelli, le quali sono il luogo
naturale nel quale tutti i processi menzionati prima si
svolgono. [Schittar, 1968, pp. 160-161]
6
.
6
In Italia a Milano si svilupparono due tra le più significative esperienze italiane di Comunità
Terapeutica privata: la Comunità Omega e la comunità Villa Serena, entrambe dirette da Diego
Napolitani. Altre in qualche reparto aperto di ospedali psichiatrici tradizionali (Ospedale Cerletti a
Parabiago). Anche Napolitani si ispirò ai principi ispiratori delle comunità terapeutiche inglesi fondate
da Jones, ma gli aspetti qualificanti queste esperienze furono:
democrazia, partecipazione, libera espressione per tutti, condivisione comunitaria,
questi principi trovarono la loro realizzazione nella riunione quotidiana;
attività lavorativa come realizzazione personale e non come mera occupazione,
finalizzata al miglioramento delle capacità del singolo utente;
attività, quali espressione artistica e iniziative socioterapiche, finalizzate al
miglioramento dei rapporti con l’ambiente familiare e con il contesto socioculturale
centralità della psicoterapia, intesa sia come esperienza psicologica correttiva,
derivata dal complesso di attività e di momenti di vita comunitaria, sia come pratica clinica attuata in un
contesto di gruppo e/o individuale.
Napolitani e la sua équipe, notarono che questo ambiente terapeutico produceva immediati e
sorprendenti miglioramenti negli utenti, ma favoriva, nello stesso tempo, la creazione di un forte
legame di dipendenza che rendeva quasi impossibile, qualsiasi progetto di dimissione. Così, nel giro di
pochi anni, questo clima di stagnazione, portò alla morte prematura delle Comunità milanesi.