2
nonché alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla
cessazione dell’impresa.
L’intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul nuovo
istituto ha consentito di maturare e porre alcuni punti fermi sulle
questioni più controverse concernenti le caratteristiche generali
dell’impresa familiare, e, di conseguenza, di inquadrare le varie
cause di cessazione dell’impresa familiare e delle relative
prestazioni di lavoro.
Alla Riforma sono seguiti anni di intensa diatriba, sia dottrinale
che giurisprudenziale, a proposito della natura individuale o
collettiva dell’impresa familiare. Nel primo senso si sono orientate
la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie: i diritti dei
collaboratori non toccano la titolarità dell’azienda e rilevano solo
sul piano obbligatorio, senza comportare alcuna modifica nella
struttura dell’impresa facente capo al titolare della stessa, che solo
ha la qualifica d’imprenditore. A questa conclusione
l’orientamento prevalente è pervenuto per un complesso di
argomentazioni, insieme dommatiche e pratiche, tra cui anche
l’inopportunità, evidenziata dalla dottrina, di sottoporre alle
procedure fallimentari i familiari che prestano la propria opera
nell’impresa. Tale conclusione è derivata dalla necessaria
correlazione tra poteri di gestione, responsabilità e rischio. Ne
consegue che l’imprenditore titolare dell’impresa familiare
costituisce il punto di riferimento di una pluralità di rapporti
giuridici diversamente regolati dalla legge, e che la tutela di
3
questi, e quella residuale del lavoro dei familiari, di cui all’art.
230bis cc., si intrecciano tra di loro al fine di garantire, in modi e
misure diversi, il compenso del lavoro prestato a favore del
titolare dell’impresa familiare.
L’art. 230bis definisce impresa familiare quella in cui collaborano
continuativamente il coniuge, i parenti entro il terzo grado, o
affini entro il secondo, a meno che non sia configurabile un
diverso rapporto di lavoro. La giurisprudenza
1
ha precisato che lo
status di familiare è solo una condizione soggettiva occorrente al
momento della costituzione e non un presupposto indispensabile
per la vita dell’impresa: quest’ultima si forma pur sempre sulla
base di un rapporto, che è al di là di quello di status, per contratto
o per facta concludentia, senza mai prescindere da una cosciente
volontà dei vari partecipanti.
Come la prestazione svolta in modo continuativo, nella famiglia o
nell’impresa familiare, costituisce la fonte del rapporto
obbligatorio tra il familiare collaboratore e il familiare che offre
l’occasione di lavoro, così, la cessazione, per qualsiasi causa, della
prestazione di lavoro, determina lo scioglimento del rapporto, con
conseguente estinzione del diritto al mantenimento per tutti i
lavoratori familiari, ma con contestuale attualizzazione del diritto
di credito alla liquidazione della quota degli utili, dei beni
acquistati con essi e degli incrementi dell’azienda. La liquidazione
della quota di partecipazione si verifica solo a favore di quei
1
Cass.civ, sez.lav., 23 novembre 1984, n. 6069, in Gius. civ., 1985, I, p. 18.
4
familiari, che, a titolo di collaborazione, abbiano partecipato
all’impresa familiare.
Infine, a conferma e coronamento dei principi guida dell’intero
istituto dell’impresa familiare, ossia la tutela della libertà di
inziativa economica del familiare imprenditore, ma anche la tutela
della solidarietà, e dell’interesse dei familiari collaboratori alla
continuità del proprio lavoro nell’azienda di famiglia, il 5° comma
dell’art. 230bis cc. regola il diritto di prelazione. Infatti, il familiare
che opera in modo continuativo nell’impresa, ha diritto di
prelazione con opponibilità ai terzi nell’acquisto dell’azienda in
caso di divisione ereditaria e di cessione.
5
CAPITOLO I:
L’ISTITUTO DELL’IMPRESA FAMILIARE
PARAGRAFO I :
LA CESSAZIONE DELL’IMPRESA FAMILIARE :
LE FONTI
La legge di riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n.
151) ha introdotto nel codice l’art. 230bis che disciplina il nuovo
istituto dell’impresa familiare. Essa ricorre, a termini di questa
norma, quando uno o più familiari prestano “in modo continuativo”
la loro attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa, sempre che
tale prestazione non costituisca esecuzione di un “diverso
rapporto”.
2
Per familiare si deve intendere il coniuge, i parenti
entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Dal dato di fatto di
tale prestazione lavorativa sorgono per il familiare una serie di
diritti e di poteri. Come recita la norma, egli “ha diritto al
2
F.Galgano, Diritto privato, VI, Cedam, Padova, 1989, p. 785: “ La nozione di impresa familiare
trova il proprio referente concreto nello svolgimento di attività lavorativa nell’ambito familiare, sulla
base di un rapporto diverso così da quello di lavoro subordinato come da quello di società. Non si
tratta certo di un fenomeno nuovo, perchè anzi da sempre si è verificata la collaborazione continuativa
svolta di fatto nell’impresa da parte dei familiari dell’imprenditore (si pensi, in particolare, al
coltivatore diretto); nuova è, invece, la protezione giuridica loro offerta che intende superare
precedenti episodi di sfruttamento: il titolare dell’impresa faceva proprio il prodotto dei familiari
senza corrispondere loro null’altro che il mantenimento, sul presupposto che la prestazione lavorativa
fosse da essi dovuta in conseguenza della loro soggezione alla potestà maritale e alla patria potestà o,
come pur si diceva, in forza di un dovere di mutua solidarietà familiare”,
In giurisprudenza: Cass. 9 giugno 1983, n. 3948, in Giust. Civ., 1983, I, p. 2625, con nota di
Finocchiaro: “L’art.230bis cc. appresta una tutela minima ed inderogabile a quei rapporti di comune
lavoro che si svolgono negli aggregati familiari, ricondotti in passato ad una causa affectionis vel
benevolentiae, o ad un contratto innominato di lavoro gratuito: lo stesso, pertanto, non è invocabile
quando i rapporti, intervenuti tra i componenti della famiglia, ed estrinsecantisi in un’attività
economica produttiva, svolta con la partecipazione di tutti, trovino il loro fondamento in un diverso
rapporto negoziale”.
6
mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e
partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi
nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in
proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”. Questo diritto
di partecipazione è intrasferibile e può essere “liquidato in denaro
alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione di lavoro, ed altresì
in caso di alienazione dell’azienda”.
L’impresa familiare può subire modificazioni di natura soggettiva
od oggettiva. Possono cambiare le persone dei familiari
partecipanti per diverse cause: morte, invalidità, cessazione
dell’attività lavorativa, trasferimento del diritto di partecipazione,
perdita dello status di familiare. Invece, nel caso di cambiamento
dell’imprenditore, per trasferimento inter vivos o mortis causa, il
nuovo titolare, anche se legato agli altri da uno dei rappporti
familiari previsti dalla norma, non può essere costretto a
proseguire l’attività imprenditoriale. Questo avviene perché si
tratta di un’impresa che esige un legame familiare proprio,
presuppone un attuale rapporto fiduciario tra tutti i partecipanti.
3
3
Pretura di Palermo, 28 gennaio 1985, in Dir.fam., 1985, I, p.642: “ L’art. 230bis cc. attribuisce ai
partecipanti all’impresa familiare diritti e poteri specifici e predeterminati: in mancanza di un’esplicita
previsione, deve pertanto negarsi a colui che partecipa all’impresa familiare il diritto di escludere il
titolare della stessa dall’amministrazione e di sostituirvisi, nell’ipotesi di precarie condizioni di salute
o di cattiva gestione.”.
Pretura di Siracusa, 6 marzo 1983, in Giust.civ., 1984, I, p. 2288: “Appartiene alla competenza
funzionale del giudice del lavoro la domanda diretta a far valere i diritti patrimoniali, riconosciuti ai
componenti per la loro collaborazione continuativa, coordinata e personale, in quanto l’impresa
familiare determina un rapporto associativo finalizzato alla tutela del lavoro parasubordinato.”
F.Galgano, Diritto privato, op. cit., p. 104: “Si può, dumque, trarre conferma circa il carattere c.d.
residuale della tutela offerta dall’art. 230bis cc., tale da escludere l’applicazione, ove ricorra, di un
rapporto diverso, in particolare di lavoro subordinato o di società. Risulta, quindi, condivisa dalla
giurisprudenza la concezione secondo cui si è in presenza di un’impresa familiare quando la
prestazione di lavoro viene eseguita dal familiare a favore delll’imprenditore in esecuzione non di un
7
All’interno dell’impresa familiare, per “cessazione” s’intende
scioglimento del rapporto di lavoro, che può realizzarsi nei
confronti del singolo partecipante o nei confronti di tutti i
lavoratori familiari. Automaticamente, con l’estinzione del
rapporto sorge la liquidazione della quota di partecipazione
all’impresa familiare
4
. Il diritto del familiare cessante alla
liquidazione della quota va inteso come diritto di credito nei
confronti del titolare dell’impresa, non gravando, invece,
l’obbligazione sui familiari partecipanti.
5
Nell’ambito del diritto
commerciale è prevista una diversa disciplina in caso di
cessazione dell’impresa commerciale
6
. Cessazione dell’impresa
significa cessazione dell’attività produttiva, il che non implica
anche liquidazione dell’azienda, che può essere data in affitto o
rapporto di lavoro subordinato, non di un contratto di società, ma soltanto sulla base del vincolo
familiare, ossia quando la prestazione è pretesa dall’imprenditore per nessun’altra ragione se non per
il dovere di solidarietà familiare”.
4
Cass., 22 ottobre 1999, n. 11921, in Fam. e dir., 2, 2000, p. 123: “ Il diritto di partecipazione agli
utili del familiare che ha lavorato nell’impresa familiare, non rappresenta un vero e proprio compenso
caratterizzato dalla corrispettività, ma è un diritto qualificabile a posteriori, in quanto condizionato dai
risultati raggiunti dall’azienda; di conseguenza, la liquidazione degli utili avviene al momento della
cessazione della prestazione di lavoro o dell’impresa familiare. Pertanto, il diritto di chi abbia prestato
una collaborazione continuativa nell’impresa familiare, va liquidato alla fine.”
5
Cass.13 dicembre 1984, n. 6540, in Foro It., 1985, I, c.1086, ha sancito che la prelazione del
familiare prevale su quella del confinante.
F.Ferrara jr., F.Corsi, Gli Imprenditori e le società, Giuffrè, Milano, 1999, p. 82: “Infatti la legge
riconosce al familiare collaboratore un diritto di prelazione in caso di trsferimento dell’azienda e in
caso di divisione ereditaria. Espressione che vuol probabilmente significare che, nel concorso tra eredi
partecipi dell’impresa familiare ed eredi ad essa estranei, i primi hanno diritto di farsi assegnare, in
sede di divisione, l’azienda a preferenza di altri cespiti.”
6
F.Ferrara jr., F.Corsi, idem, p. 196: “Il codice di commercio disponeva che la società commerciale
era un nuovo soggetto di diritto, dunque una persona giuridica distinta dalle persone dei soci (art.77).
Ne veniva infatti, di conseguenza, che i beni conferiti non cadevano in condominio dei soci, bensi
diventavano di proprietà esclusiva del nuovo soggetto creato, cioè la società. Il creditore individuale
del socio non poteva perciò colpirli, perchè non spettavano al suo debitore, ma ad un soggetto diverso.
Quindi la società commerciale è una figura più ristretta della società civile, perché richiedeva un
patrimonio sociale e la manifestazione della società di fronte ai terzi.”
8
alienata. Infatti l’attività produttiva può cessare anche se restano
da pagare le competenze al personale o da alienare le giacenze.
L’art. 230bis cc. lascia aperti interrogativi assai gravi, tra cui quello
relativo alla natura dell’impresa familiare, o quello della sua
collocazione, corretta o imprecisa, nel libro I del codice civile
(“Delle persone e della famiglia”) e non nel libro V (“Del lavoro”).
Questi interrogativi hanno sempre dato luogo a polemiche
dottrinarie. Occorre quindi ricostruire l’istituto e chiederci se, al
di là della sua collocazione, ci sia stata “familiarizzazione”
7
dell’impresa, e in caso affermativo, quali siano i legami e le
implicazioni tra famiglia e impresa
8
.
L’intento del legislatore è stato quello di apprestare una forma di
tutela delle aspettative del familiare collaboratore, nell’ambito e
all’interno della famiglia
9
. L’impresa familiare si caratterizza come
un “momento di passaggio”
10
nell’evoluzione dell’impresa
individuale in impresa societaria. La stessa terminologia, che fa
7
A. Piras, Riflessioni sull’impresa familiare e sull’azienda gestita da entrambi i coniugi, in Diritto e
giurisprudenza, 1980, p.44. Si intende per familiarizzazione l’attenuazione, se non superamento, del
principio gerarchico e introduzione di determinate garanzie sul terreno patrimoniale, secondo l’ottica
egulitaria della pari dignità dei membri, prima negata.
8
L.Carraro, Il nuovo diritto di famiglia, in Riv.dir.civ., I, 1975, p. 100: “ Il regime patrimoniale della
famiglia sembra ispirato dall’intento di stimolare la solidarietà tra i componenti della famiglia stessa.
Espressione di questa solidarietà sono i nuovi istituti dell’impresa familiare e della comunione legale
tra coniugi. L’impresa familiare è, a mio avviso, istituto destinato a suscitare l’attenzione degli
studiosi e l’elaborazione della giurisprudenza, non solo per la sua novità, ma anche per la complessità
dei problemi che essa propone: per il suo coordinamento con la teoria generale dell’impresa e
dell’azienda”.
9
Cass. 27 giugno 1990, n. 6559, in Giust. Civ., 1991, I, p.667.:L’assunto è che il familiare si trovi in
posizione di debolezza nel far valere le proprie pretese verso un altro familiare economicamente più
potente di lui. Tanto è vero che la norma non si applica quando “sia configurabile un diverso
rapporto” ; e il diverso rapporto non può che avere carattere contrattuale, con ciò stesso dimostrando
(salvo prova contraria) che il familiare è stato in grado di “trattare” con il parente o l’affine
imprenditore e quindi può fare a meno della tutela c.d.residuale, apprestata dall’art. 230bis.
10
F.Ferrara jr., F.Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, Giuffrè, 1999, p.81.
9
riferimento agli incrementi, invece che ai concetti di miglioramenti
e addizioni, e che usa il verbo partecipare, evitando il concetto di
quota proprio del rapporto societario, è indizio di
indeterminatezza e ambiguità. Ci si chiede allora se la realtà
giuridica dell’ “impresa” debba essere studiata in rapporto con
quella presenza nuova, “il diritto di famiglia” riformato dal
legislatore del 1975. Infatti, se l’art.230bis pone al centro della sua
disciplina la tutela del lavoro, lo si deve alla coerenza che ha con i
principi ispiratori dell’intera disciplina dei rapporti patrimoniali
all’interno della famiglia, emergenti dalla legge del 1975.
11
Ne risulta una fattispecie diversa e più matura rispetto alla figura
della piccola impresa (art. 2083 cc.), quindi un particolare modo
di esercitare anche l’attività economica. Da una parte, vi è chi
12
ritiene che diritto familiare e diritto commerciale si incontrino.
13
I
medesimi soggetti partecipano così ad un duplice ordinamento
giuridico, quello familiare e quello imprenditizio. A conferma del
binomio tra diritto di famiglia e diritto commerciale l’illustre
autore ritiene l’art. 230bis prima norma di attuazione dell’art. 46
Cost.. Proprio questa attuazione di principi costituzionali
11
M.Nuzzo, L’impresa familiare, in Il diritto di famiglia, a cura di G.Bonilini e F.Cattaneo, Utet,
Torino, 1996, p.444: “Osservando l’istituto dell’impresa familiare alla luce della riforma, risulta che
questo realizza, nel suo insieme, un delicato equilibrio tra situazioni soggettive costituzionalmente
protette e potenzialmente confliggenti nel sistema della legge: la tutela della persona, della proprietà,
del lavoro, dell’iniziativa economica privata.”
12
V. Panuccio, L’impresa familiare, fattispecie e statuto, in L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, a
cura di A.Maisano, Liguori, Napoli, 1977, p.102.
13
Ibidem. “ Più precisamente si incontrano famiglia e impresa” al fine “di tentare un raccordo tra il
cosiddetto interesse della famiglia e il cosiddetto interesse dell’impresa: il primo, come interesse di
ciascuno dei partecipanti in vista di un interesse familiare comune di consolidamento dell’unità del
gruppo sotto il riflesso economico, il secondo oscillante tra gli interessi soggettivi dell’imprenditore,
l’interesse dell’impresa e l’interesse all’organizzazione del lavoro”.
10
legittima “l’eccesso legislativo” nell’ambito dei poteri di gestione,
comprensivi dell’organizzazione iniziale, continuativa, ma
soprattutto terminale, perché gestione significa anche possibilità
di decidere la cessazione dell’impresa.
Il titolo in base al quale si verifica questo fenomeno è costituito sia
dalla prestazione di lavoro effettuata spontaneamente, senza
vincolo, sia dal fatto che il lavoro è prestato da un soggetto legato
da un particolare status familiare. Ciò legittima i poteri di gestione
più ampi per i lavoratori familiari, senza creare dubbi di
legittimità costituzionale dell’art.46 Cost. Se questa
interpretazione risulta essere più incisiva e dannosa per
l’imprenditore, il riformatore ammette anche il concretizzarsi del
diritto costituzionale, ex art.41, per cui, anche se la maggioranza
decide la cessazione dell’impresa familiare, l’imprenditore è libero
di proseguirla da solo con i beni aziendali , liquidando i diritti dei
familiari in denaro, nei modi previsti dalla norma.
14
Nonostante,
quindi, un collegamento tra diritto dell’impresa e diritto di
famiglia sia ravvisabile, il legislatore del ’75 si è spinto oltre: sia
per aver configurato rapporti del genere come associativi e non
14
V.Panuccio, L’impresa familiare, cit., p. 64: “ L’impresa familiare avrà un’azienda costituita da chi
avrà preso l’iniziativa di raggruppare e scegliere i partecipi o da altri soggetti e avrà un c.d. fondo
patrimoniale costituito dagli utili, dagli acquisti e dagli incrementi dell’azienda. Mentre l’azienda
familiare nel senso e nei limiti suddetti resta nella titolarità individuale dell’imprenditore, sul fondo
patrimoniale familiare si appunteranno i diritti dei partecipi sull’impresa. Ciò spiega, da un lato,
perché ove la maggioranza deliberasse la cessazione dell’impresa, l’imprenditore dovrebbe liquidare
in denaro i diritti dei partecipi, attingendo dal fondo, e potrebbe proseguire con i beni aziendali la sua
attività, dall’altro chiarisce che su detto fondo non vi è un regime di comunione. Già intanto perché la
partecipazione non è in parti uguali, ma in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, e
perché tale fondo è intangibile, senza una decisione a maggioranza, non già all’unanimità come nella
comunione.”
11
meramente di scambio, secondo la tradizionale configurazione del
rapporto di lavoro, sia per aver allargato il concetto di gestione
fino alla cessazione dell’impresa.
Dall’altra, in maniera più radicale si pone un altro autore
15
, in
quanto ritiene che la dizione iniziale dell’art. 230bis (“salvo che sia
configurabile un diverso rapporto”) non consenta di ricondurre
l’impresa familiare ad uno dei tipi di società regolati dal libro V
del codice civile. Inoltre non si può configurare il nuovo istituto
dell’impresa familiare come un nuovo tipo di società, stante la
mancata modifica dell’art. 2249 cc., che fissa il principio di tipicità
delle imprese sociali. Questa linea interpretativa si poggia, infatti,
sul ritenere che il legislatore non abbia voluto operare una mera
riforma nell’ambito del rapporto di lavoro, ma volesse combinare
l’ art. 2099cc. con gli artt. 36 e 46 della Costituzione. Infatti,
secondo i più autorevoli commentatori
16
dell’art. 46 Cost.,
l’istituto della cogestione mirerebbe ad attribuire al lavoro una
posizione di parità con il capitale nella conduzione dell’impresa.
17
15
A.Maisano, Spunti per un dibattito sull’impresa familiare, in L’impresa nel nuovo diritto di
famiglia, 1977, Liguori, p. 25.
16
M.C.Andrini, Azienda coniugale ed impresa familiare, in Trattato di dir. Comm. e pubbl.
dell’economia, F.Galgano, XI, Padova, Cedam, 1989, p.62; A.Maisano, ibidem; V.Panuccio, op. cit.,
p.102.
17
Cass. 9 giugno 1983, n. 3948, in Giust.Civ., 1983, I, p. 2625, con nota di Finocchiaro. In
applicazione di tali principi la Suprema Corte , deducendosi da parte dell’attore, che si era costituita,
con i conviventi suoi fratelli, un’impresa familiare e chiedendosi il rendiconto della gestione, nonché
la corresponsione degli utili non distribuiti e le differenze di remunerazione, in relazione agli articoli
2099 cc. e 36 Cost., ha ritenuto che la domanda fosse, per l’accertamento della società di fatto, di
competenza del tribunale e, quanto alla pretesa al pagamento delle prestazioni lavorative rese in
favore della società di fatto, di competenza del pretore, giudice del lavoro. Il riscontro in fatto non già
di una semplice collaborazione, ma di una vera e propria cogestione, induce il Collegio ad escludere la
ricorrenza nella specie di un’impresa familiare, affermando, invece, la presenza di una vera e propria
società. Solamente con la quale, poi, sarebbe compatibile il rapporto di lavoro subordinato.
12
Sulla base di queste considerazioni si può ritenere che l’art. 230bis
configuri un istituto di confine tra diritto dell’impresa e diritto del
lavoro, in cui predomina la componente familiare.
Si evidenzia così la concreta necessità di individuare un criterio
che risponda all’esigenza fondamentale di assicurare coerenza tra
l’interesse individuale dei partecipanti e l’interesse collettivo del
gruppo, in riferimento al nostro sistema giuridico incentrato sul
principio di solidarietà.
Acquista fondamento positivo un’altra opinione, quella di chi
18
ritiene che, nella comunità di lavoro che si realizza nell’impresa
familiare, sia opportuno differenziare la tutela accordata alle
diverse situazioni di cui sono titolari l’imprenditore e i familiari
collaboratori, in ordine alla proprietà, alla libertà di iniziativa
economica, al lavoro. Questa differenziazione costituisce riflesso
di un principio generale della Costituzione economica, nella quale
il lavoro assume, attraverso le norme tendenti ad assicurarne le
condizioni e i risultati, significato di elevazione del singolo e di
18
M.Nuzzo, L’impresa familiare, op. cit., p.445: “ La diversa intensità della garanzia costituzionale
non si risolve soltanto in una graduazione del potere di intervento del legislatore ordinario rispetto alle
situazioni considerate; essa fornisce anche il criterio per la soluzione dei possibili conflitti tra l’una e
l’altra di queste situazioni soggettive o tra una di esse e altri valori costituzionalmente protetti; la
tutela di ciascuno degli interessi in gioco sarà, infatti, variamente graduata in rapporto al diverso tipo
di tutela accordata alle situazioni soggettive considerate.”.
In giurisprudenza, Cass. civ. sez.lav., 6 marzo 1999, n. 1917, in Giust.civ Mass., 1999, 509:
“Nell’impresa familiare di cui all’art 230bis cc. i diritti dei collaboratori non toccano la titolarità
dell’azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio senza comportare alcuna modifica nella struttura
dell’impresa facente capo al titolare della stessa, che solo ha la qualifica di imprenditore ed al quale
spettano i poetri di gestione e di organizzazione del lavoro implicanti la subordinazione dei familiari
che lo coadiuvano. Consegue, da una parte, che in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari
compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale né delle spese del relativo
ammortamento; d’altra parte, che nella quantificazione dell’apporto lavorativo il giudice del merito
ben può differenziare quello dell’imprenditore, ove più gravoso per le maggiori responsabilità assunte,
da quello del familiare che ha prestato la sua attività in posizione di subordianzione”.
13
giustificazione della proprietà privata. Quindi si ha una tutela
massima per quanto riguarda il lavoro, mentre, per quanto
concerne la tutela dell’iniziativa economica-privata, la
Costituzione, all’art. 41, fissa dei limiti per la salvaguardia della
sicurezza della libertà e della dignità umana e per non creare
contrasto con l’utilità sociale. Limiti più incisivi sono posti per la
proprietà privata dall’art. 42 Cost., il quale attribuisce al
legislatore il potere di determinare i modi di acquisto, di
godimento, allo scopo di assicurare la funzione sociale e di
renderla accessibile a tutti.
L’orientamento concorde di dottrina
19
e giurisprudenza
20
ha
espressamente operato la distinzione tra la tutela “privilegiata”
assicurata al lavoratore dagli artt. 35 e seguenti della Costituzione,
e la tutela “generica” accordata dagli artt. 41 e 42 Cost. al privato
imprenditore e al proprietario. Da qui si deduce che la garanzia
della proprietà e dell’iniziativa economica privata cede di fronte
all’esigenza di tutela del lavoro
21
.
Da questo primo contatto con l’impresa familiare, può sembrare
che il legislatore abbia modellato un istituto tenendo presente
19
M.Nuzzo, L’imresa familiare, op. cit., p.445: “ E’ d’altra parte rilievo corrente in dottrina che, sia
sotto il profilo della tutela costituzionale, sia sotto quello della costante iniziativa legislativa e degli
indirizzi politici ed economici che in essa si riflettono, una crescente preferenza viene oggi accordata
agli interessi dell’attività imprenditoriale rispetto a quelli della proprietà, e ciò in vista della funzione
di produzione di ricchezza che l’impresa è per sua natura destinata a svolgere, sia perché nella
garanzia costituzionale dell’impresa ancora si conserva l’immagine dell’iniziativa economica privata
come manifestazione della personalità individuale.”. Oppo, Diritto di famiglia e diritto dell’impresa,
Padova, 1992, p. 369.
20
Una per tutte: Corte Cost. , 27 luglio 1992, n. 115, Foro.It., 1972, I, c. 2345.
21
Oppo, Diritto di famiglia e diritto dell’impresa, op. ult. cit., p. 369. Lo stesso Oppo giustifica
questo fenomeno in quanto nella “garanzia costituzionale dell’impresa ancora si conserva l’immagine
dell’iniziativa economica privata come manifestazione della personalità individuale”.
14
maggiormente gli interessi soggettivi di quelli collettivi. La ratio
dell’art. 230bis è infatti quella di tutelare i singoli partecipanti, non
il gruppo dei familiari lavoratori ; tale normativa rappresenta una
difesa del contraente debole contro l’imprenditore egemone, non
l’istituzionalizzazione di una forma collettiva di gestione
imprenditoriale.
22
A tale conclusione è giunta una parte della
dottrina
23
al termine di un percorso di esegesi delle fonti
dell’impresa familiare stessa.
24
Un altro principio costituzionale a
cui si ispira il concetto di prestazione del collaboratore, è l’art. 36
Cost.. L’interrogativo se il lavoratore nell’impresa familiare abbia
in ogni caso diritto ad una retribuzione “sufficiente ad assicurare a
sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, se abbia diritto
ad una sorta di conservazione del diritto al mantenimento anche
dopo la cessazione del lavoro nell’impresa familiare
25
, è stato
risolto positivamente dai cultori
26
del diritto commerciale che
22
Cass.27 giugno 1990, n. 6559, cit., p. 72: “ Anche la collocazione della disciplina dell’impresa
familiare all’interno del codice civile (l’art. 230bis cc, si trova infatti nel primo libro, dedicato alle
persone ed alla famiglia, e non nel quinto dedicato al lavoro) sembra far pensare che la volontà del
legislatore fosse di disciplinare solamente i rapporti tra i vari membri della famiglia e non quella di
creare un nuovo tipo societario. La ratio della disciplina dell’impresa familiare è quella di tutelare il
lavoro che viene spontaneamente prestato nella famiglia o nell’impresa; su questo punto dottrina e
giurisprudenza sembrano uniformi e concordi”.
23
M.C.Andrini Tamborlini, Brevi note sulla soggettività giuridica dell’impresa familare, in Giur.
Comm., 1977, I, p.144: “ E’ proprio questa tutela che l’art. 230bis non vuol lasciare senza garanzia
onde esso ripetere volutamente la formula dell’art. 36 Cost.-in proporzione della quantità e qualità
del lavoro prestato -; per significare che anche là dove manca il titolo formale che legittima il
rapporto di lavoro, non per questo il lavoratore resta contrattualmente indifeso”.
24
Ibidem. L’autrice ritiene infatti che “quanti parlano di cogestione trascurano il fatto che il familiare
compartecipe viene investito di tale diritto di partecipazione proprio perché non è possibile
qualificarlo titolare di un rapporto di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 46 Cost., ancorchè la sua
prestazione di fatto debba essere ritenuta degna di tutela costituzionale per l’art. 35 Cost.”
24
.
25
A.Checchini, Sul fondamento dell’impresa familiare, in Riv.Dir.civ.1977, II, p.560.
26
V.Panuccio, L’impresa familiare, Milano, Giuffrè, 1976, pp.7 ss.: “ E’ questo il punto in cui la
confusione tra famiglia e impresa raggiunge il limite massimo, e che mostra la commistione che
l’unica norma ha effettuato tra tutela del lavoro nella famiglia e nella impresa familiare, unificando il
titolo acquisitivo dei diritti di partecipazione: prestazione di attività di lavoro nella famiglia o
15
ritengono possibile adattare all’istituto dell’impresa familiare
regole e schemi propri di questa disciplina. Proprio la tutela al
lavoro del collaboratore familiare è fondamentale nell’art. 230bis,
tanto che il legislatore, per non lasciarla senza garanzia, ripete
volutamente la formula dell’art. 36 Cost. “in proporzione della
quantità e qualità di lavoro prestato”, per significare che anche dove
manca il titolo formale che legittima il rapporto di lavoro, il
lavoratore non resta comunque indifeso
27
.
La riforma del diritto di famiglia esalta la figura della famiglia
stessa come una “società” portatrice di interessi superiori a quelli
dei singoli membri. Questo si ravvisa già nella Costituzione stessa
che all’art. 29 “riconosce i diritti della famiglia come società naturale” e
quindi come nucleo ed aggregato originario che preesiste allo
Stato e che lo Stato non può disconoscere.
28
Ancora si ritrova,
nella ratio della riforma, l’attuazione degli artt. 2 e 3 Cost.,
attraverso la valorizzazione del rapporto familiare, così da
nell’impresa familiare, e aggiungendo (anzi menzionando per primo) il diritto al mantenimento per i
familiari ex art. 230biscc.” M.Ghidini, L’impresa familiare, Padova,Cedam, 1977, p. 18; V.Colussi,
Impresa familiare,lavoro familiare e capacità di lavoro, in Giur. Comm., 1977, p.702.
In senso contrario a tale interpretazione A.Checchini, ibidem.
27
M.C.Andrini, Brevi note sulla soggettività giuridica dell’impresa familiare, op. cit., p.144.V.
Panuccio, l’impresa familiare, Milano, Giuffrè, 1976, p. 6.
In giurisprudenza, Cass. 9 giugno 1983, n.3948, cit., p.2625: “ L’art. 230 bis appresta una tutela
minima ed inderogabile a quei rapporti di comune lavoro che si svolgono negli aggregati familiari,
ricondotti in passato ad una causa affectionis vel benevolentiae, o ad un contratto innominato di
lavoro gratuito: lo stesso, pertanto, non è invocabile quando i rapporti, intervenuti tra i componenti
della famiglia, ed estrinsecantesi in un’attività economica produttiva, svolta con la partecipazione di
tutti, trovino il loro fondamento in un diverso rapporto negoziale.
28
L.Carraro, Il nuovo diritto di famiglia, cit., p. 93: “ Sempre in sede di considerazioni generali, si
osserva che la riforma denota il proposito, da un lato, di dare applicazione alle norme degli artt. 29 e
30 Cost., dall’altro, nei limiti, e forse anche oltre i limiti del testo costituzionale, di tenere conto di
alcuni aspetti, talora magari marginali, del modo di essere e di svolgersi della vita familiare odierna,
provvedendo a dare ad essi una regola che si presenta in qualche caso permissiva, in qualche altro
correttiva”.
16
realizzare il principio della mutua solidarietà nella famiglia,
rendendo i familiari lavoratori partecipi dei profitti dell’impresa.
29
L’idea è stata quella di rafforzare il vincolo familiare, in coerenza
con l’instaurato regime della comunione legale dei beni in luogo
della separazione, pur ammettendo l’ipotesi che tra i familiari non
sia stato configurato un “diverso rapporto”, ovvero un rapporto di
lavoro o di società
30
. La legge 151/1975 è, però, influenzata da una
visione individualistica del diritto, che si ritrova anche nei
principi costituzionali che fondano il sistema sul riconoscimento e
la garanzia dei diritti dell’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, sull’impegno a
rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della
persona umana ( art. 3.2 Cost. ).
31
29
L.Carraro, ibidem: “ Riguardo all’impresa familiare, va rilevata la partecipazione agli utili
dell’impresa e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche di chi svolge la
sua attività di lavoro nella famiglia: così come a costoro, oltre che ai familiari che svolgono la loro
attività nell’impresa, spetta di adottare le decisioni relative all’impiego degli utili ed alla gestione
imprenditoriale. Che tale impostazione legislativa appaia determinata dal fine di consolidare l’unità
familiare anche sotto il riflesso economico, non sembra dubbio”.
30
F.Galgano, Diritto privato, Cedam, Padova, 1996, p.806 : “La riforma del diritto di famiglia
avrebbe potuto imporre la stipulazione di contratti di lavoro, considerando irrilevante il
contemporaneo rapporto familiare tra le parti. Ma ha preferito battere altra strada: ha, piuttosto,
valorizzato il rapporto familiare e portato ad eque conseguenze il principio della mutua solidarietà
nella famiglia, rendendo i familiari lavoratori partecipi dei profitti dell’impresa e della sua direzione.
L’intento è stato di rafforzare, anziché di svalutare, il vincolo familiare di sviluppare l’idea della
famiglia come comunità, pur facendo salve l’ipotesi che, per volontà delle parti, non sia stato
configurato un diverso rapporto tra i familiari, ossia un rapporto di lavoro e di società”.
In giurisprudenza, Cass. 19 ottobre 2000, n. 13861, in Fam. e dir., n.2, 2002, p. 160: “ Esso, come
emerge dall’incipit dell’art. 230bis cc., che prevede l’applicabilità della relativa disciplina a
condizione che non sia configurabile un diverso rapporto, ha natura residuale o suppletiva, e quindi,
non trova applicazione quando il lavoro sia già tutelato in altre forme giuridiche, come quella della
subordinazione o societaria. In particolare, in relazione alla odierna fattispecie, quando sia già tutelato
dalle norme sulla società di fatto”.
Cass. 24 marzo 2000, n. 3520, in Giust. civ. Mass., 2000, p. 625; Cass. 19 luglio 1996, n. 6505, in
Giust.civ.Mass, 1996, p.1015.
31
P.Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Liguori, Napoli, 1975, p.201.