6
creazione di un mondo in cui è presente la sofferenza ed appare come inestinguibile?
La necessità, contro la quale poteva rivolgersi la protesta disorganica delle religioni
mediterranee, o ancora nella Grecia classica, lascia dunque il posto, nell’ebraismo,
alla volontà divina, che, sola, può essere passibile di invocazione o di accusa.
Si può affermare che ogni religione nasce come invocazione, che è al tempo
stesso preghiera e protesta; anche l’Antico Testamento, lungi dall’offrire facili
risposte, è permeato da un senso di incompiutezza che si rivela nella continua tensione
tra l’uomo e Dio, quello stesso senso di tensione che è presente nelle tragedie greche.
La parola di Yahweh è una parola eminentemente tragica perché esprimente il
contrasto tra esistente ed esistenza, tra libertà della domanda e libertà della risposta; e
tragicamente la protesta umana e dell’intera creazione si tende verso la volontà divina.
Sin dalla Genesi, Dio non cessa d’essere accusato. “La donna che tu mi hai
posto accanto”
2
, dice Adamo a Dio. Il serpente già obiettava dicendo a sua volta a
Eva: “Non è vero quello che egli ha detto”
3
. Caino, in sostanza dirà: “Non sei tu,
creatore, a essere il guardiano di mio fratello? Perché devo esserlo io?”
4
.
Il Dio unico trasfigura in sé la potenza del Fato e ne fa un dire, un decreto, un
fari, che uscendo dal silenzio, pronuncia il fiat fatale e dà inizio al tempo. Ma il Dio
del monoteismo, essendo l’unico principio fondante la realtà, deve necessariamente
farsi carico di quelle caratteristiche del Fato che emergono dalla stessa esistenza come
invocazioni in cerca di risposta, e deve quindi rendere conto oltre che del male, della
stessa indifferenza che sembra lasciar accadere ogni evento negativo e ogni
sofferenza.
E, in effetti, lo Yahweh ebraico non disdegna di assumere la spietatezza come
indice di potenza, e nel Patto indica un progetto da portare a termine, la felicità
d’Israele, che s’impone sopra ogni tentativo di teodicea.
Il rapporto tra gli ebrei e Yahweh si caratterizza per la dialettica tra domanda e
risposta che, lungi dall’essere risolta in un semplice do ut des, assume i tratti della
reciproca necessità e del legame inscindibile. Dio ha bisogno degli uomini come gli
uomini hanno bisogno di Dio, e le continue apostasie del popolo d’Israele, i continui
ripensamenti di Yahweh, che sembrano mostrare lo stupore del Dio di fronte alle
debolezze umane, non sono altro che i termini di un dialogo che non ha nulla della
rinuncia mistica dell’impotente nel potente, dell’inessenziale nell’essenziale, ma che
acquista un senso esattamente nell’ostinata pretesa degli uomini di cercare un dialogo
con il “loro” Dio. In tanti passi dei libri profetici e dei Salmi sembra quasi che gli
2
Genesi 3, 12.
3
Cfr. Genesi 3,1-4.
7
uomini sofferenti attendano da Dio un soccorso dovuto, e questo è anche il senso più
autentico della protesta di Giobbe. Il servitore fedele e rispettoso dei comandamenti
attende che i suoi sforzi siano ricompensati con una vita felice, e invece accade che
per una tentazione diabolica Yahweh decide di inviargli solo disgrazie e patimento. E’
ovvia la rivolta di Giobbe, ma non a causa della presunta malvagità di Dio, quanto
perché Egli tradisce il Patto stabilito con gli uomini.
Il male in eccesso è quello che sconcerta, quello che non può essere
giustificato da nessun progetto, il male puramente esistenziale. Nessuno si scandalizza
o protesta contro Yahweh quando questi decide di eliminare sistematicamente ogni
popolo che si frappone tra Israele e la terra promessa, e questo perché un tale tipo di
male si inserisce in un progetto ed è quindi indirizzato, finalizzato
5
. Al contrario, il
contendere dell’uomo con Dio nasce quando la sofferenza non può essere in alcun
modo la punizione di una colpa. Abramo si oppone alla volontà divina di sterminare
Sodoma e Gomorra in virtù di quei possibili innocenti che avrebbero subìto
ingiustamente:
“Davvero sterminerai il giusto con l�empio?
Forse ci sono cinquanta giusti nella citt�:
davvero li vuoi sopprimere?
(�) Lungi da te il far morire il giusto con l�empio,
cos� che il giusto sia trattato come l�empio;
lungi da te!”
6
L’angoscia sopraggiunge quando la sventura è del tutto inspiegabile e gratuita,
come quella di Giobbe, appunto, o come quella di Abramo all’ingiunzione divina di
sacrificare il figlio Isacco. E’ per questo motivo che una sventura particolare, come
quella estrema della Sho�, ha portato il popolo ebraico a scontrarsi con un vertiginoso
scacco della ragione e della fede. D’altra parte è anche questo il male che si manifesta
nella Bibbia, e, proprio per la sua assurdità, è il paradigma e il simbolo di ogni male
esistenziale: se l’esistenza è gratuita, ogni male gratuito coinvolge la volontà divina;
Dio “deve” quindi rispondere alle invocazioni delle sue creature, perché, come
4
Cfr. Genesi 4, 9.
5
Il male, se inserito in un piano divino, perde ogni relazione con la dialettica colpa-punizione. La logica
della retribuzione cede il passo di fronte ad una sofferenza del tutto innocente, e lo stesso Dio sembra
impotente rispetto ad un moltiplicarsi di vittime che investe il senso stesso del fine cui tali sofferenze
sono sacrificate. La letteratura midrashica racconta a tal proposito che, “dopo il miracolo del Mar Rosso,
gli angeli avrebbero voluto aggiungere le loro voci a quelle dei figli d’Israele nel canto della vittoria, ma
Dio glielo impedì con queste parole: «Come potete cantare, mentre i Miei figli stanno morendo? I flutti
stanno inghiottendo le Mie creature, e voi volete intonare un cantico?».” (Haggad�h di Pesach, a cura di
L. Campos; R. Di Segni, tr.it. di I. Costa, Carucci, Assisi-Roma 1979
2
, p.35).
6
Genesi 18, 23-25.
8
Giobbe, ogni uomo attende proprio da un Dio il senso negato da qualsiasi necessità
fatale.
Come Agostino, ogni esistente cerca nel rapporto di alterità e insieme di
“intimità” con Dio la risposta alla domanda fondamentale della filosofia: se sia
preferibile un’esistenza nella quale la sofferenza è costitutiva, oppure la non-
esistenza. La teodicea classica sceglie la prima possibilità: �Nunc vero fateor me
quidem malle vel miserum esse quam nihil�
7
, ma la sceglie adottandola come
conseguenza “necessaria” della bontà divina.
In gran parte della riflessione teologica, infatti, la necessità è richiamata in
causa dopo essere stata messa da parte dall’Antico Testamento, e anzi è associata alla
bontà della volontà divina. Così facendo, la tradizione occidentale ha posto le basi per
il toglimento del senso stesso del protestare.
Il processo descritto sarebbe stato giustificabile se effettivamente il male fosse
risultato definitivamente tolto dal mondo con il compimento della parola di Yahweh,
la venuta del Messia e il relativo stabilimento del Regno di Dio in terra, con
un’apocatastasi insomma, tale da trasfigurare e vendicare il male accaduto e le lacrime
versate dagli uomini.
Cristo aveva d’altra parte annunciato ciò che gli Ebrei attendevano da sempre:
“una terra dove scorre latte e miele”
8
:
“ (�) Io preparo per voi un regno,
come il Padre l�ha preparato per me,
perch� possiate mangiare e bere
alla mia mensa nel mio regno
e siederete in trono a giudicare le dodici
trib� d�Israele”
9
Ma dopo la morte e la resurrezione del figlio di Dio nulla era cambiato
effettivamente nella vita d’Israele, né in quella degli altri popoli, tanto che il Nuovo
Testamento si conclude, come l’Antico
10
, con una profezia: segno che la venuta del
Regno dev’essere ancora una volta rinviata.
“Ecco, io verr� presto e porter� con me il mio salario,
7
AGOSTINO, De libero arbitrio, III, 7,20.
8
Numeri 14, 8.
9
Luca 22, 29-30.
10
“Tenete a mente la legge del mio servo Mos�, / al quale ordinai sull�Oreb / statuti e norme per tutto
Israele. / Ecco, io invier� il profeta Elia prima che giunga / il giorno grande e terribile del Signore,
perch� converta il cuore dei padri verso i figli / e il cuore dei figli verso i padri; / cos� che io venendo non
colpisca il paese con lo sterminio.” ( Malachia 3, 22-24).
9
per rendere a ciascuno secondo le sue opere”
11
Questo cambiamento di prospettiva si rivela decisivo, poiché il Regno è
immaginato ora come salvezza puramente spirituale, già raggiungibile dopo la morte,
e la creazione “molto buona”
12
di Yahweh, sembra destinata ad essere distrutta con
tutto il male che contiene.
Come si vede, si crea un dualismo fondamentale che segnerà lo sviluppo del
pensiero occidentale; da una parte il Regno dei cieli e Dio, dall’altra il mondo e il
Diavolo. Ciò produce un effetto determinante nello stesso concetto di divinità, poiché
al Dio geloso capace di bene e di male dell’Antico Testamento, succede un Dio buono
sempre più vicino alla bontà necessaria derivante dalla propria “diversità” ontologica.
Dio è quindi purificato dal male, e il responsabile è individuato, non tanto nel peccato
dell’uomo, quanto nel re “di questo mondo”
13
, il Diavolo.
Con un simile tipo di dualismo la rivolta umana è evidentemente impossibile
perché ogni evento acquista senso nel proprio essere “in vista di qualcosa”: il male del
mondo “serve” agli uomini per guadagnare la salvezza nell’aldilà e lo stesso Diavolo,
destinato ad essere sconfitto in un futuro escatologico, deve trovare una
giustificazione nel piano della creazione.
Ciò che ci si propone di verificare è in che modo un altro dualismo, quello
metafisico, esito della filosofia greca, abbia potuto influire nella creazione di una
teodicea, scontrandosi e incontrandosi con la tradizione religiosa ebraica.
Quel che si rende a prima vista evidente è il comune “sacrificio” del senso
tragico dell’esistenza, conseguenza dell’aver traslato la “vera” esistenza oltre la vita, e
dell’aver individuato il senso della realtà oltre l’apparenza dell’eventualità.
Il tragico era stato il vero terreno comune di sviluppo di religione e filosofia,
perché tragico era il contrasto avvertito dai presocratici tra esistenza e mortalità, come
tragica era la tensione tra invocazioni umane e volontà divina nell’Antico Testamento.
Due termini apparentemente lontani come metafisica e nichilismo si coniugano
in realtà nella scissione di due diversi orizzonti di senso, il naturale e il
soprannaturale, che si allontanano a tal punto da assimilarsi nel contrasto estremo tra
essere e nulla, tra essenziale ed inessenziale, lasciando il mondo della presunta
oggettività come svuotato di ogni significato proprio.
Il pensiero occidentale si presenta dunque come il campo d’azione di forze,
composte e tangenti, generate per dare una risposta alla domanda originaria sul
divenire angosciante del reale. E due sono sostanzialmente le direzioni verso cui
11
Apocalisse, 22, 12.
12
Genesi 1, 31.
10
queste forze di pensiero hanno potuto volgere la loro potenza: da una parte il
superamento dell’angoscia attraverso l’identificazione in Dio di Essere e Sommo
Bene. Dall’altra la sublimazione dell’angoscia attraverso la disperazione del “non
voler essere se stesso”
14
, per mezzo di una visione “sovrabbondante”, “eccessiva”, del
carattere eventuale dell’esistenza, che non cerca il senso in alio, ma a partire proprio
dall’esistere angosciante. L’angoscia è in effetti derivante non dalla considerazione di
una manchevolezza dell’esistenza, quanto di ciò che in essa vi è di eccessivamente
gratuito, come la sofferenza innocente, e, di conseguenza, della necessità di una
risposta ugualmente eccedente la domanda.
Una risposta eccessiva è la protesta di Giobbe, e allo stesso modo lo è quella di
Prometeo, entrambi contestatori non del male, quanto della possibilità stessa del male.
Ciò che si scorge nelle loro posizioni è il loro “essere-contro” che è direttamente
conseguente del più generale “esser-di-fronte”; Giobbe può protestare perché sente
una vicinanza con Yahweh che gli deriva dall’esistere in uno stesso orizzonte di senso:
Dio, non meno dell’uomo, deve rendere conto del male. Se Giobbe avesse pensato
metafisicamente, e avesse quindi rimesso il senso dell’esistenza nel mistero
dell’imperscrutabile, non avrebbe potuto accusare Dio portando come prova
l’esistente. Allo stesso modo Prometeo si rivolta contro Zeus perché individua nel dio
“nuovo” tutta quell’indifferenza verso gli umani, quel distacco qualitativo che era
impossibile nell’età d’oro del regno di Kronos, età della naturalità comune di uomini e
dèi.
Il demoniaco scaturisce esattamente dall’esser-di-fronte, situazione
conseguente a quella “del davanti-a-Dio (è proprio questa la definizione esatta di
peccato)”
15
; ma inverte i termini così che nell’estremo peccato del rivoltoso, peccato
di hybris come quello di Satana e degli angeli caduti, è Dio a doversi difendere e a
dover rendere conto della propria “colpa”, la permissione del male.
“Il mio soffio, o impastatore dell�antico limo,
un giorno rialzer� la tua vittima longeva.
Le dirai: Adora! Lei risponder�: No!”
16
13
II Corinzi, 8, 23.
14
S. KIERKEGAARD, La malattia mortale, in Opere, tr. it. di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p.625.
15
A. GESCHÉ, Il male, trad.it. di R.T.Mazzi, San Paolo, Milano 1996, p.115.
16
CH.R.M. LECONTE DE LISLE, Qa�n, in Oeuvres, Le Belles Lettres, Paris, 1976.
11
PARTE PRIMA
TRA MONISMO E DUALISMO
“Guai a coloro che attendono
il giorno del Signore!
Che sarà per voi il giorno
del Signore?
Sarà tenebre e non luce.”
(Amos 5,18)
12
CAPITOLO PRIMO
MALE E DEMONOLOGIA DELLE ORIGINI TRA ORIENTE ED OCCIDENTE
§ 1.1.1 DAL CAOS AL DIO CHE DIVIENE
Cercare il senso del male nelle culture non occidentali equivale ad analizzare
le forme attraverso le quali un insieme di concetti, non ancora perfettamente distinti,
si incontrano, dando vita a sistemi teogonici e cosmogonici che sono il campo di
sviluppo delle successive costruzioni concettuali occidentali. D’altra parte è evidente
come un’analisi di tal genere non possa prescindere da una contestualizzazione delle
forme religiose, le quali, non potendosi ancora distinguere da un ambito più
specificamente filosofico, sono da intendere come cifre esprimenti una visione del
mondo propria di un’epoca e di un popolo.
Concezioni affini riguardanti il male, presenti in culture diverse e fra loro
lontane, possono scaturire dalle strutture universali del pensiero umano o essere il
risultato di un processo di diffusione della cultura. In un caso e nell’altro sono
sorprendenti.
Poiché l’universo appare naturalmente contraddittorio, con un intreccio
palesemente incongruente di eventi positivi e negativi, e poiché anche la natura umana
si rivela intrinsecamente divisa e incoerente, le società che accettano l’idea di un
principio divino lo considerano ambivalente: il dio ha due volti, è coincidenza di
opposti.
La duplice natura divina può esprimersi teologicamente, in termini razionali, o
mitologicamente, in dimensione fabulatoria. Nel monoteismo si può pensare al Dio
come a una persona unica che incorpora due tendenze contrapposte. Nel politeismo,
dove la natura divina si esprime in una molteplicità di divinità, sono queste che
possono avere due anime nel petto; oppure si possono considerare buoni alcuni dèi e
cattivi altri. L’ambiguità del Dio è chiara nell’induismo: Brahm∼ è detto la creazione
e la distruzione di ogni persona, egli crea il malvagio e il buono, l’affabile e il
crudele, colui che è pieno di dharma o di adharma, il veridico e il menzognero.
13
I più antichi testi indù parlano spesso del male come di un dato di fatto che non
ha bisogno di spiegazione; sono i testi più tardi a fornire tutta una varietà di spie-
gazioni sull’origine del male. A volte, del male nel mondo s’incolpano gli spiriti
malvagi, a volte, si dicono in difetto l’errore e la cecità umana, ma, essendo ogni cosa
un aspetto del dio, questi è, in ultima analisi, il responsabile del bene e del male.
La coincidenza degli opposti – di bene e di male – nella divinità è spesso
percepita come necessaria. Il postulato di fondo è che ogni cosa viene dal dio, se si
pensa che il dio è buono e non si vuole attribuire a lui il male, si deve ipotizzare una
contrapposizione di forze all’interno della divinità; la contrapposizione si fa a poco a
poco più esterna e si verifica un distacco, uno sdoppiamento: il bene resta
appannaggio dell’Altissimo, l’Avversario diviene responsabile del male. Ciò che è
sempre e comunque tutelata è l’inalterabilità del principio unico indistinto e la sua
non-attaccabilità da parte dei principi morali: l’Uno o il Caos
17
non sono mai
direttamente responsabili di nulla che riguardi l’uomo, ma esclusivamente di eventi
cosmici talmente al di là degli interessi umani da non essere suscettibili di
interpretazione morale.
La coincidenza degli opposti si esprime a volte nell’idea di una guerra nei
cieli. Spesso un gruppo di dèi, deposti da una generazione più giovane di divinità,
vengono per questo ritenuti malvagi. Nei tempi più antichi, la religione indo-iraniana
aveva due schieramenti di dèi: gli ahur∼ e i daev∼ . In Iran gli ahur∼ hanno sconfitto i
daev∼ , loro leader è diventato l’Altissimo, Ahur∼ Mazdah, il dio della luce, mentre i
demoni daev∼ ridotti a spiriti malvagi sono divenuti servi di Ahriman, il signore della
tenebra. In India sono i daev∼ a sgominare gli ahur∼ , ma il processo è lo stesso. Per
gli indiani Kogi delle Ande il bene esiste soltanto in virtù dell’azione del male, e
l’intreccio dei due principi è individuato nello Y�luka, uno stato trascendente di
unione.
Un’altra manifestazione dei due volti del dio si trova nei miti concernenti
quelle divinità che sono strettamente unite fra loro e nondimeno avversarie. I doppi
sono sempre degli esseri contrapposti, e sempre, a un livello più profondo, formano
una cosa sola. Fra i Winnebago il sole ha due gemelli, Carne, che è passiva, e Tronco,
il ribelle. Lo stesso avviene tra gli Irochesi. Questi doppi possono esseri intesi come
principi cosmici (yin e yang) contrapposti e insieme uniti.
17
Per Caos si intende lo stato indistinto primordiale precedente anche la sua stessa “deificazione”: è il
caso della religione babilonese, nella quale Apsu e Tiamat sono già derivazioni e determinazioni del Caos
stesso.
14
Tuttavia è nella cultura egiziana e in quella mosopotamica che si può scorgere
un’influenza diretta sulle successive elaborazioni cosmogoniche ebraica, greca e
cristiana. Gli dèi egiziani erano tutti manifestazioni del Dio Uno. Questo monismo
politeistico a volte è esplicito, più spesso è implicito. Il Dio e gli dèi sono ambiva-
lenti: male e bene, rovina e aiuto, tutto emana dall’unico principio divino. La religione
egiziana non contempla alcun principio del male, l’universo è la manifestazione del
Dio, non solo una sua creazione, quindi il male deve inserirsi nell’unità divina: è
scissione
18
di ma�at, la giustizia ordinata e armoniosa dell’universo, da parte
dell’individuo. Tutte le divinità egizie sono manifestazioni dell’universo nel suo
insieme e quindi sono ambivalenti: persino Osiride, il misericordioso, a volte nel mito
primitivo è nemico di R∼ , il dio-sole. Nessuna divinità diviene mai il principio del
male, solo in un dio, Seth, l’elemento distruttivo e disarmonico è più evidente che in
altri. Il mito di Seth come antagonista del dio celeste Horus è antico quanto i testi
delle piramidi e si risolve in un combattimento mortale durante il quale entrambi gli
dèi restano mutilati e soffrono a causa della loro lotta sanguinosa. Che ognuno di essi
vi perda un organo vitale è segno che la loro battaglia era un errore divino: ciò che è
necessario non è lo scontro fra le due parti della natura divina, quanto piuttosto uno
sforzo di armonia, di focalizzazione, di unione. Nella contrapposizione fra Horus e
Seth si avverte tutta una serie di antitesi – il cielo contro la terra, la fertilità contro la
sterilità, la vita contro la morte, la terra contro gli inferi – ma mai, almeno fino al
momento in cui più tardi il mito venne ad alterarsi, vi è un’opposizione fra il bene
puro e semplice e il male puro e semplice.
Ancor più di quella egiziana, le civiltà della Mesopotamia e della Siria hanno
contribuito a plasmare il concetto occidentale di Diavolo. La civiltà dei Sumeri si
pone direttamente alle spalle di quella dei Babilonesi e degli Assiri, che hanno in-
fluenzato direttamente gli Ebrei e i Canaanei. Una cultura semitica nord-occidentale
comune può aver permeato le origini sia della civiltà greca che di quella ebraica. La
continuità fra la religione sumero-accadica e la religione assiro-babilonese è tale che è
possibile discuterne considerandole insieme.
Il pensiero religioso mesopotamico differisce da quello egiziano soprattutto per
la sua dimensione di terrore. L’universo divino, in Mesopotamia, non comprendeva né
la società né la natura: il mondo era fondamentalmente estraneo al piano divino, e gli
dèi, imperscrutabili, abbandonavano o semplicemente ignoravano una nazione, una
18
Ovviamente tale scissione è da ritenersi reversibile, essendo la religione egiziana lontanissima
dall’elaborare il concetto di peccato originale. Per la genesi di questo concetto anche in relazione a quello
di “colpa antecedente”, cfr. U. BIANCHI, Prometeo, Orfeo, Adamo. Tematiche religiose sul destino, il
male, la salvezza, Ateneo e Bizzarri, Roma 1976.
15
città o una persona. A questo proposito, Mircea Eliade fa notare, a ragione, come
“l’allontanamento e il silenzio di Dio che tormentano certi teologi contemporanei, non
sono fenomeni moderni.”
19
, introducendo, già per religioni così antiche, il concetto di
Deus otiosus, un Essere supremo che, una volta creato il mondo e l’uomo, si ritira in
Cielo e resta indifferente a ciò che accade sulla Terra; numerose tribù africane fanno
propria questa inattualità del divino, soprattutto quelle in cui sia già stato superato lo
stadio della piccola raccolta e della caccia
20
. Allo stesso modo, gli Ebrei si
allontanavano da Yahweh tutte le volte che la storia lo permetteva loro, tutte le volte
cioè che vivevano un’epoca di pace e di relativa tranquillità, ma erano ricondotti di
forza verso Dio dalle catastrofi storiche
21
.
�Allora, gridarono all�Eterno e dissero:
abbiamo peccato, perch� abbiamo abbandonato il Signore
e abbiamo servito Ba�al e Astarte;
ma ora liberaci dalle mani dei nostri nemici
e ti serviremo�
22
A tale proposito c’è però da ricordare che la testimoniata proliferazione di
divinità intermedie
23
in epoche di stabilità e quindi di non - bisogno dell’aiuto divino,
non può che significare un sostanziale “ridimensionamento” del concetto di divinità al
fine di renderlo più intellegibile proprio quando Dio non pare essere responsabile del
male di un popolo. La posizione di un Dio imperscrutabile e assoluto non è necessaria
se l’uomo può razionalmente farsi carico della sofferenza che subisce. Quando invece
l’emergenza del male (carestie, diluvi, epidemie., ecc.) sconfina dalla responsabilità
umana, ci si rivolge al concetto di Dio più assoluto e “altro” di cui si dispone,
Assoluto fino a quel momento tutelato come principio anomico. Evidentemente
l’esperienza del male radicale comporta un naturale movimento nella coscienza umana
che tende ad accentuare la differenza ontologica, la quale aumenta in modo
inversamente proporzionale rispetto all’assunzione di responsabilità da parte
dell’uomo; si cerca di nascondere l’alterità assoluta del Dio con la sua
19
M.ELIADE, Mito e realt�, trad.it. di G.Cantoni, Borla, Roma 1985, p.127.
20
Per brevità mi limito a ricordare, in nota, solo alcuni esempi: i Selk�nam della Terra del Fuoco, gli
Yoruba della Costa degli Schiavi (il cui Dio si chiama , non a caso, Olorum, “Proprietario del Cielo”), gli
Herero, i Tumbukas, gli Ewe (che ricorrono a Dio solo in caso di siccità…) , i Pigmei e i Fang dell’Africa
equatoriale; questi ultimi dispongono di un modo di dire molto significativo, nella sua semplicità:
“Dio (Nzame) è in alto, l’uomo in basso
Dio è Dio, l’uomo è l’uomo.
Ciascuno da sé, ciascuno a casa propria” (M. ELIADE, Mito e realt�, cit., p.127).
21
Ivi p.128
22
I Samuele 12, 10.
16
antropomorfizzazione fin quando si può inserire il male in una qualche sistemazione
razionale e la si riscopre in caso di necessità estrema: va da sé che nei casi in cui
l’appello al divino non ha l’effetto sperato si manifesta la rivolta e una più esplicita
ricerca di senso. In effetti, nei miti e nelle leggende che trattano della sofferenza
umana non provocata dall’uomo, l’insensatezza e l’ingiustizia del male sono resi con
una qualche protesta: si passa dalla ricerca di un senso nel Dialogo pessimista fra il
padrone e il suo servitore, alla chiamata in causa del Dio nel Poema del Giusto
sofferente, fino alla vera e propria protesta in Giobbe
24
.
L’epopea babilonese della creazione, l�Enuma elish, racconta della caduta
degli dèi e dell’alienazione primordiale fra di loro, in una storia che assomiglia ai rac-
conti di battaglie combattute fra gli dèi più vecchi e quelli più giovani, quali si
possono riscontrare in tanti altri miti e religioni
25
. Qui il motivo di fondo si intreccia
strettamente con la vittoria del cosmo sul caos.
In origine non esistevano né il cielo né la terra, ma solamente un vasto caos di
acque, costituito da una coppia primordiale: Aps e Mumm-Tiamat.
�Quando in alto i cieli non erano ancora nominati
N� la terra, in basso, aveva ancora un nome,
L�Aps primordiale, loro padre,
E Mumm-Tiamat, madre di tutti loro,
Mescolavano le loro acque in una sola massa.
(�) Quando gli d�i non rilucevano ancora, neppure uno,
23
Lo stesso Eliade sottolinea che “il posto di questo deus otiosus, più o meno dimenticato, è stato preso
da varie divinità che hanno in comune l’essere più vicine all’uomo, e l’aiutano oppure lo perseguitano in
un modo più diretto e continuo.” ( M.ELIADE, Mito e realt�, cit., p. 129)
24
Se il Libro di Giobbe raggiunge direttamente il cuore del problema, i poemi della “sapienza” babilonese
si riallacciano più propriamente ai Salmi, soprattutto per la comune forma di invocazione. Nonostante la
lettura ellenizzante che la tradizione ecclesiastica ci ha fornito, non si può trascurare il significato di
rivendicazione (anche materiale) che assume il libro dei Salmi, dove Dio si presenta come il go�el, il
redentore, il vendicatore dei giusti che non si sono visti premiati per la loro virtù. Cfr. a questo proposito
S. QUINZIO, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, pp. 18 e ss.
25
Il deicidio operato da dèi di generazioni più recenti, quasi sempre creatori del mondo e dell’uomo, può
assumere significati diversi, ma sempre riconducibili al bisogno di rinnovamento insito in ogni creazione:
è significativo infatti che in diverse tribù australiane e californiane così come in Mesopotamia e in Egitto
l’avvento del nuovo anno è segnato da rituali che ripetono sostanzialmente la propria cosmogonia. In
Israele tali rituali sono stati storicizzati e lo scenario arcaico di rinnovamento periodico del Mondo è stato
applicato ad avvenimenti come l’esodo e la traversata del Mar Rosso, la conquista di Canaan, la cattività
babilonese e il ritorno dall’esilio, ecc., ma è innegabile che la nascita di questi rituali era riconducibile al
passaggio dal Caos al Cosmo, come ha notato efficacemente Mowinckel “una delle idee guida era
l’incoronazione di Yahweh come re del mondo, la ripresentazione simbolica della sua vittoria sui suoi
nemici, ad un tempo le forze del caos e gli avversari storici di Israele. Il risultato di questa vittoria era il
rinnovamento della Creazione, dell’Elezione e dell’Alleanza, idee e riti delle antiche feste della fertilità
che sono il substrato della festa storica” (S. MOWINCKEL, He That Cometh, New York 1956, p.26).
17
Essi non avevano nome, n� destino fissato!
Allora furono creati gli d�i in seno ad essi��
26
Dall’unione dei due principi primordiali nascono due nuove coppie divine dalle
quali nasce Anu “il dio del cielo”
27
, che a sua volta produce Ea. Quest’ultimo uccide
Aps e genera poi Marduk; ne consegue una ribellione di Tiamat contro la sua prole e
l’uccisione di questa da parte di Marduk. Egli, uccidendo Tiamat, spacca in due il
Caos e dà inizio alla differenziazione, che produce il mondo e l’uomo. Gli ultimi brani
del poema ci danno il giusto senso dell’intera opera: l’Enuma elish è innanzi tutto il
mito esplicativo della esaltazione di Marduk, della sua conquista di tutto il potenziale
divino prima diviso fra gli altri dèi. L’assunzione di Marduk al rango di “Signore
degli dèi del cielo e della terra” comporta il decadimento progressivo degli altri dèi ad
aspetti e ad immagini del potere del Dio supremo in determinati ambiti
28
, ma comporta
altresì la moltiplicazione di demoni e spettri che influenzeranno decisamente la
demonologia ebraica.
Il Poema della Creazione presenta un importante aspetto: la sua funzione
teogonica più che cosmogonica. “Prima della genesi del mito esso racconta la genesi
del divino”
29
, e racconta, a fortiori, il divenire del divino. Ammettendo l’idea di un
dio che nasce dal Caos e che, in seguito, diviene e cambia ruolo, si accetta che
l’ordine, il chosmos sia situato alla fine della creazione, come destino stesso del
divenire divino; ciò comporta che se il caos si identifica con il principio divino
primordiale, esso è coestensivo alla generazione del divino. La creazione del mondo e
dell’uomo segna quindi la fine del disordine e l’avvento dell’ordine: può sembrare che
il male originario del Chaos/Dio/Tiamat divenga bene a seguito del divenire stesso
della divinità e cioè che nel mito babilonese sia presente in nuce la concezione di un
Dio/Ordine/Bene che vincendo il male crea l’uomo e che questi poi reintroduce il
male con il peccato morale. Il male sarebbe dunque “il passato dell’essere”
30
, “ciò che
è stato vinto dall’istituzione del mondo”
31
. C’è però da considerare che se la
creazione, presso i Babilonesi, è ordine, lo è per scelta di Marduk, e se l’ordine è
A tale proposito cfr. M.ELIADE, Dimensions religieuses du renouvellement cosmique, Eranos-Jahrbuch,
Zurigo 1960, vol. XXVIII, pp. 269 e ss., A.J. WENSINCK, The Semitic New Year and the Origin of
Eschatology, “ Acta Orientalia”, vol. I, 1923, pp.159-199
26
Enuma Elish, Tav.1, cit. in J.BOTTÉRO, La religione babilonese, cit., p.85.
27
Ivi, p.41
28
“Marduk, in funzione di dio dell’agricoltura, è Ninurta; quale dio del combattimento, Zasaba; come dio
della fortuna, Nabu; in quanto rischiaratore della notte, S�n; nelle funzioni di dio della giustizia, Shamash;
in quanto dio della pioggia, Adad, ecc.” (ivi, p.48).
29
P.RICOEUR, Finitudine e colpa, trad.it. di M.Girardet, Il Mulino, Bologna 1970, p.435.
30
Ivi, p.438
31
Ibid.
18
bene, nelle intenzioni del dio, non lo è per l’uomo, ma per se stesso. Nella cosmogonia
caldea si racconta che:
�Per stabilire gli d�i in una dimora pi� gradita al loro cuore, Marduk
cre� l�umanit��
32
e Marduk, nell’Enuma elish, ribadisce:
�io creer� l'essere umano, l�uomo,
affinch� a lui incomba il culto degli d�i ed essi non abbiano (perci�)
preoccupazioni��
33
L’uomo è fatto dunque per servire gli dèi e solo per questo.
Si deve evitare di cadere nel luogo comune che, in qualche modo, dove c’è
una religione ci debba essere l’idea di un Dio buono che protegge l’uomo e che gli
renderà la salvezza in un futuro escatologico: questa idea si è prodotta e si è affermata
come indiscutibile in due millenni di pensiero occidentale, non prima e non altrove
34
.
Quando i Babilonesi parlano di giustizia e di verità divine, non si esce mai da
una prospettiva giuridica seppur di origine sacra, se la trasgressione di una legge
divina è percepita come colpa o peccato è sempre perché si teme una punizione del
dio. Per i Babilonesi il preciso significato religioso del termine peccato, riconoscibile
attraverso i suoi sinonimi, è quello di “mancanza” nei riguardi della volontà divina,
costituita da negligenza nel porre in atto un comando degli dèi, il che provoca la
collera divina e i castighi che ne derivano. Si vede chiaramente come in una simile
concezione del peccato abbia notevole parte l’idea di sanzione. D’altra parte il
ragionamento secondo il quale ogni infrazione della legge divina comporta
necessariamente una pena non sembra essersi affermato a priori, ma a rovescio e a
spiegazione del male e del dolore: l’infelicità e il dolore devono avere la loro causa in
una colpa di chi li subisce. Una tale concezione a posteriori della sanzione dovuta al
peccato è illustrata perfettamente nell’Epopea di Gilgamesh
35
. A volte ci si spinge
32
Enuma Elish, Tav.VI., cit. in J. BOTTÉRO, La religione babilonese, cit. p. 99
33
Ibid.
34
Per constatare come tale tendenza sia ormai naturale in tanta parte della cultura contemporanea, si
consideri la posizione di Pareyson, il quale, identificando l’Essere con la libertà, si vede costretto a
ipotizzare una lotta intradivina tra bene e male: lotta che ha come esito la scelta di Dio per il bene; come
si possa dedurre questa scelta e non quella opposta non è chiaro: anche laddove si accetti l’assunto che
“Dio è scelta” (L.PAREYSON, Filosofia ed esperienza filosofica, “Annuario filosofico” 1986, II, p.28) e
non Essere, e che quindi Egli, essendo anche scelta di sé, debba perdere ogni necessità a favore
dell’assoluta contingenza, sembra quantomeno dovuta una spiegazione sul motivo per il quale la libertà di
scelta sia caduta sul bene, e soprattutto da cosa si può capire che tale scelta sia stata compiuta in tal modo
e non altrimenti.
35
Quando Enkidu, amico di Gilgamesh, si ammala e si chiede, dopo dodici giorni d’infermità, perché mai
egli si trovi in tale condizione, ne conclude “Un Dio mi odia, perché ho tremato all’idea di
combattimento…” (Epopea di Gilgamesh,Tav. VII cit. in J. BOTTÉRO, op.cit., p. 107)
19
oltre, tanto che il compimento del dovere è presentato, nei confronti del dio, come un
do ut des:
�Rendi omaggio al tuo dio ogni giorno:
sacrificio, preghiera, incenso degno (di lui).
Innanzi al tuo dio conserva un cuore innocente,
come si addice alla divinit�.
Preghiere, orazioni, proscinemi,
tu porgerai ogni mattina�
36
E fin qui nulla di strano, ma poi si continua:
� Ed egli ti dar� ricchezze�
Il timore (del dio) genera (la sua) benevolenza,
il sacrificio prolunga la vita��
37
Ciò che salta immediatamente all’occhio è che non esiste male radicale che si
rifaccia ad un principio proprio: se il dolore è sempre pena, non c’è Male, ma
sofferenza, che sia occasionale o meno. La sofferenza peggiore, in questo senso, è la
morte, proprio perché negli dèi non si scorge nulla di santo e di salvifico, ma li si
individua solo come esseri immortali che creano l’uomo per farsi servire e adorare.
�O Gilgamesh, perch� errare cos� per ogni dove?
La vita che persegui non raggiungerai mai:
quando gli d�i han creato l�umanit�,
agli uomini hanno assegnato la morte,
ma han tenuto per s� la vita!�
38
Non essendoci salvezza, l’aldilà non può che essere infernale:
�S�io ti descrivessi la legge del mondo sotterraneo che ormai conosco,
tu ti siederesti e piangeresti�
Colui che ti era caro, per il quale avevi premure,
del quale il tuo cuore si rallegrava
come un vestito vecchio, eccolo ora roso dai vermi�
Tutto � immerso nella polvere��.
39
36
Inno a Shamash, vv.97-100, cit. in ivi, p.109.
37
Ibid.
38
Epopea di Gilgamesh, Tav.X, cit. in ivi, p.112.
39
Epopea di Gilgamesh, Tav. XII, in ivi, p.115.