dell’inchiesta, Manlio Cancogni. Tanto meno quando a distanza di circa dieci anni, nel
1968, subisce una nuova condanna per aver condotto un’indagine sulle torbide manovre
attuate dal generale dei carabinieri De Lorenzo, durante la crisi del governo Moro
nell’estate del ’64. Su quel “tintinnio di sciabole” avvertito da Nenni e sui propositi del
“Piano Solo” predisposto dal generale “in garanzia dell’ordine”, che sarà definito in
seguito da una Commissione parlamentare d’inchiesta come “illegittimo”
1
.
Nel 1968 il paese vive i giorni della contestazione studentesca e si sta addentrando in un
periodo di forti pressioni. La Repubblica italiana ha da poco compiuto 20 anni, nata il 2
giugno 1946 dalle rovine del regime fascista e dell’ultima guerra mondiale, superando
non senza fatica il bilico della monarchia. La vita democratica di per sé complessa,
d’ora in avanti vedrà succedersi momenti di crisi e tragedie, bombe e tentativi di colpo
di Stato, drammatiche stragi circondate da un alone di mistero, le cui responsabilità
l’autorità giudiziaria non riuscirà mai ad accertare. La nazione sarà indotta a
familiarizzare con termini come “golpe”, “putsch”, “strage”, “eversione” e “terrorismo”,
di cui lentamente si popoleranno le cronache dei giornali. Termini che entreranno
nell’uso comune perché dalla seconda metà degli anni Sessanta, una giovane Italia
repubblicana vede per la prima volta pericolosamente minacciata la sua forma statuaria
democratica da eventi accomunati ancora oggi nei libri di storia per il ricorso obbligato
all’utilizzo dell’aggettivo “oscuro”.
Del resto, tra il 1969 e il 1974, il pubblico italiano dei lettori di quotidiani e riviste, nelle
edicole la domenica, oltre i soliti giornali ordinati a seconda dell’area di appartenenza
politica o industriale, nel formarsi una propria idea sulla realtà può fare affidamento
sull’“Espresso”, un settimanale fuori dall’ordinario le cui firme erano state abituate per
tradizione a non servir messa per alcuna parrocchia.
Il giornale, in formato grande, con una prima pagina a colori, ampia e nitida, una
titolazione decisa e un linguaggio semplice, ritrae l’economia, la cultura e la vita
politica del paese, ma in special modo veglia sullo stato di salute della democrazia
italiana grazie al lavoro di alcune tra le più valorose firme del giornalismo degli anni
Sessanta e Settanta. Professionisti che in molti casi avevano appreso il mestiere
scavando tra le ceneri dell’Italia durante il secondo dopoguerra, descrivendone
l’orgogliosa umanità impegnata nella ricostruzione: Eugenio Scalfari, Camilla Cederna
G. Crainz, 2003, p. 249.
4
1
e Fabrizio Dentice, cui si erano aggiunti Lino Jannuzzi, Nello Ajello, Giuseppe
Catalano, Mario Scialoja e molti altri.
“L’Espresso” riesce ad apparire e a essere un giornale diverso in questi anni difficili
innanzitutto perché non serve un padrone. Scalfari detiene solo una minima parte delle
quote societarie, ma il proprietario è un editore puro come Carlo Caracciolo, le cui
fortune, fin dalla fondazione, erano dipese dalla qualità del settimanale e i cui principali
interessi sono rimasti da allora inestricabilmente legati al settore editoriale, agli utili
prodotti dalle vendite del giornale e dalla sua raccolta pubblicitaria. Un’eccezione, in un
panorama dominato al contrario da editori impuri, abituati a rifondere di tasca propria i
passivi e a utilizzare gli organi di stampa come mezzi di potere. Caracciolo aveva
tentato intorno agli anni Cinquanta la strada del giornalismo senza fortuna, poi, poco più
che trentenne, aveva iniziato a occuparsi a tempo pieno dell’“Espresso” dedicandosi
però esclusivamente alle questioni inerenti la pubblicità e la veste editoriale del
giornale, pianificandone il futuro senza interferire in alcun modo nel lavoro della
redazione che lo considera, ad ogni modo, alla stregua di un collega. Caracciolo è
diventato in breve tempo “il portatore delle azioni per conto del corpo redazionale”,
garante dell’autonomia dell’“Espresso” e dei suoi giornalisti: “Una specie di cassaforte,
dentro alla quale erano custodite e ‘sterilizzate’ le azioni della società, al riparo da ogni
tentazione e da ogni assalto che potesse mettere in forse l’indipendenza del giornale”
1
. I
lettori contribuiscono quindi con il proprio interesse solo a rinsaldare le già robuste
fondamenta dell’“Espresso”, ciò che avrebbe permesso ai professionisti che vi
lavoravano di cambiare prospettiva al giornalismo italiano, appiattito con il suo punto di
vista a registrare le tracce superficiali della realtà.
Le regole sono poche eppure imprescindibili: scavare a fondo e mai permettersi
allusioni, divieto d’uso del condizionale e scrittura al modo indicativo e al tempo
presente delle notizie certe, quelle su cui scatenare battaglia
2
. In poche parole guardare
alla stampa italiana e fare diversamente, ricostruire puntigliosamente e interpretare i
fatti senza accontentarsi mai della versione di comodo data in pasto all’opinione
pubblica dagli avamposti del potere. Andare oltre per riuscire a offrire ogni settimana i
risultati delle indagini del giornale al pubblico. Questo modo di lavorare che implica un
distacco dalle fonti istituzionali, ne permette altresì un utilizzo per contrasto destinato a
1
E. Scalfari, 1986, p. 184.
2
Id., 1981, p. 5.
5
svelarne miseramente le contraddizioni, aprendo nel contempo squarci di verità sulla
reale natura degli eventi. Se nell’immediatezza del secondo dopoguerra “L’Europeo”,
non a caso fondato anch’esso da Arrigo Benedetti, era stato la culla del giornalismo
d’inchiesta in Italia, con “L’Espresso” questo genere giornalistico, fondamentale
pilastro dei regimi democratici e della libera stampa, giunge alla più completa
maturazione.
La trasparenza è una delle caratteristiche peculiari delle inchieste dell’“Espresso”,
denunce dal forte impatto, pur sempre aderenti all’interesse dell’opinione pubblica e
accomunate dalla facilità di lettura, conseguenza diretta dell’utilizzo di un dizionario di
base impiegato per condurre per mano il lettore nel teatro degli avvenimenti, anche i più
complessi. Avvolti dalla scena, aiutati dai più piccoli particolari a comprendere uomini
e cose di un’Italia controversa e in piena trasformazione come è il paese a cavallo tra gli
anni Sessanta e Settanta, coloro i quali si recano ogni settimana in edicola ad acquistare
una copia dell’“Espresso” attendono a una paradossale consuetudine: si sono abituati a
leggere l’inconsueto, qualcosa in più di quanto viene pubblicato dagli altri giornali.
Il punto è che i giornalisti dell’“Espresso” sono conoscitori impareggiabili del paese e
dei suoi doppifondi. Scalfari e Jannuzzi a Roma hanno la possibilità di notare indole,
pregi e difetti dei potenti, degli uomini e dei partiti politici, non solo dall’esterno, ma
anche tra i banchi del Parlamento. A Milano è nata e vive Camilla Cederna, pochi
avrebbero mai saputo capire tanto a fondo e raccontare nei minimi dettagli la città
meneghina come lei. Catalano analizza così dappresso il fenomeno neofascista e con
tale rigore da riuscire a ottenere la fiducia e raccogliere gli sfoghi confidenziali perfino
delle frange più violente dei movimenti di estrema destra, mentre le inchieste di Mario
Scialoja, che non esita a seguire anche all’estero la notizia, non di rado vengono poste al
vaglio delle autorità inquirenti, a riconoscimento di una spiccata abilità investigativa.
Più in generale la rete di informatori e fonti su cui può far affidamento il giornale per
tramite dei suoi giornalisti, ha pochi eguali in Italia.
L’autorevolezza dell’“Espresso”, la professionalità con cui vengono gestiti i canali
informativi alternativi a quelli ufficiali contribuiscono ad ampliare il ventaglio di
elementi a disposizione nel lavoro di inchiesta. “L’Espresso” torna perciò costantemente
ad analizzare gli eventi, anche a distanza di tempo. Ai temi considerati caldi, cui ha già
rivolto la propria attenzione, dedica con i dovuti approfondimenti altre edizioni appena
6
nuove informazioni vanno ad aggiungersi a quelle già acquisite. L’interesse del giornale
è l’attualità, ma i risultati migliori della periodicità settimanale, grazie alla ricostruzione
e all’analisi, di là dalla descrizione dell’accaduto, si colgono nelle anticipazioni con cui
il lettore viene informato di ciò che sta per accadere nel silenzio del resto della stampa e
dei media.
Nonostante la vicinanza politica dell’“Espresso” nei primi anni di vita ai liberali, poi ai
radicali e in seguito ai socialisti, tra le cui fila erano giunti alla Camera Eugenio Scalfari
e Lino Jannuzzi, il giornale non sarebbe mai stato organo di partito. Il settimanale è
piuttosto divulgatore e amplificatore di idee eterogenee presso una schiera di lettori
intesa per la prima volta compiutamente come “una struttura d’opinione”
1
: uomini e
donne che si riferiscono all’“Espresso” e allo stesso tempo sono invitati a offrirvi un
contributo di vitalità, con dibattiti, interventi, petizioni. Ma non esiste una rotta politica
tracciata a tavolino, non avrebbe resistito al fuoco di fila delle idee di chi scriveva e
collaborava con il giornale. Del resto la verità non avrebbe mai seguito alcuna linea
politica ed editoriale prestabilita e a onor del vero, in molti casi, i giornalisti
dell’“Espresso” sarebbero giunti ben oltre le posizioni preconfezionate degli organi di
partito indagando sulle tragedie italiane di questi anni.
Il 25 aprile 1969 una bomba deflagra nello stand della Fiat alla Fiera campionaria e un
altro ordigno esplode alla stazione Centrale di Milano, non ci sono feriti gravi. Il 9
agosto si registrano otto attentati dinamitardi a convogli ferroviari in viaggio in tutta
Italia, ma solo dopo la strage del 12 dicembre 1969, quando sette chili di tritolo
devastano a Milano la sede della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, ferendo 88
persone e uccidendone 17, si inizia a cogliere compiutamente il disegno degli atti
terroristici e a parlare di “strategia della tensione”
2
.
A neppure un anno di distanza a Roma, durante la notte dell’Immacolata tra il 7 e l’8
dicembre 1970, Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas della Repubblica
Sociale Italiana, tenta il colpo di Stato. Non porta a termine il piano sovversivo, bensì
ordina un’improvvisa quanto inspiegabile ritirata dei suoi uomini. Lo conferma
minimizzando la portata dell’accaduto il ministro dell’Interno, il democristiano Franco
Restivo, tre mesi dopo. Nel 1971 un operaio muore sfilando in un corteo antifascista su
1
E. Scalfari, 1981, p. 9.
2
F. M. Biscione, 2003, p. 110.
7
cui è stata lanciata una bomba Srcm, generalmente impiegata nell’addestramento
miliare.
Il 31 maggio 1972 in provincia di Gorizia, a Peteano, tre carabinieri muoiono in seguito
all’esplosione di un’automobile imbottita di tritolo, altri due rimangono feriti in modo
grave. Nell’ottobre dello stesso anno dieci ordigni inesplosi vengono ritrovati lungo i
binari della linea RomaReggio su cui sono transitati i treni organizzati dagli operai
diretti a Catanzaro, dove le Confederazioni sindacali hanno indetto una Conferenza sul
Mezzogiorno.
Nel corso del 1973 un’altra strage sconvolge Milano. Un sedicente anarchico lancia una
bomba a mano contro la questura, in via Fatebenefratelli, provocando il panico, decine
di feriti e la morte di quattro persone. Tuttavia è il 1974 l’anno che paga il più ingente
tributo di vite umane alla violenza: il 28 maggio 1974 a Brescia, durante una
manifestazione sindacale in piazza della Loggia, la detonazione di un ordigno piazzato
in un contenitore metallico per i rifiuti uccide otto persone, ferendone una quarantina e
il 4 agosto una bomba esplode su una vettura dell’espresso 1484 “Italicus” in viaggio tra
Firenze e Bologna, dilaniando la carrozza e uccidendo 12 persone, i feriti sono più di
40. A settembre l’ex partigiano, il liberale Edgardo Sogno viene posto sotto inchiesta
per cospirazione, aveva predisposto un preciso programma politico di riorganizzazione
della Repubblica.
Se il progetto di un centrosinistra riformatore era stato accantonato nel ’64 con la
minaccia di un’involuzione autoritaria dello Stato e il piano Solo del generale De
Lorenzo, le istanze di rinnovamento divampate nella società in scorta alle lotte
studentesche vengono frustrate e lentamente soffocate dalle bombe esplose tra il 1969 e
il 1974. L’“orizzonte politico e civile” nel quale sono cresciuti i giovani del ’68 si
offusca a partire dalla strage di piazza Fontana e dal suo faticoso rivelarsi “strage di
Stato”, compiuta cioè “con la complicità o la copertura di uomini e settori degli apparati
dello Stato, che a lungo garantiscono l’impunità ai colpevoli e forniscono all’opinione
pubblica un’immagine assolutamente falsa dei fatti”
1
. Le indagini sugli attentati del
1969 dopo aver imboccato più d’un vicolo cieco cominciano difatti, dal 1973, a lambire
anche il Sid, il Servizio informazioni difesa italiano e a fare luce sul coinvolgimento di
G. Crainz, 2003, p. 249.
8
1
informatori, agenti e persino del capo dei servizi, il generale Vito Miceli, che
nell’ottobre 1974 verrà posto agli arresti.
Il bilancio in cifre del periodo ’69’74 è impressionante e non trova alcun riscontro
negli altri paesi industrializzati del mondo Occidentale: cinque stragi, 4 mila e 65
attentati, 2 mila e 795 feriti, 92 morti
1
. Sarà spinta a destarsi dal suo torpore anche la più
ingessata stampa italiana. In realtà i giornalisti avevano iniziato a organizzarsi in
associazioni democratiche già a partire dal ’70 chiedendo una stampa più libera e
rappresentanti più coraggiosi all’Ordine professionale di categoria. Del resto, come
avrebbe avuto modo di ricordare Piero Ottone, dal 1972 direttore del “Corriere della
Sera”: “Poteva un giornalista a quel punto dire: ‘Poiché la situazione è grave, lasciamo
che un velo misericordioso copra le nostre brutture?”
2
.
L’opinione pubblica, in questi anni, acquista coscienza del complotto ordito ai danni
della democrazia pungolata altresì da pregevoli inchieste giornalistiche. Una serie di
attentati e crimini seminando il panico e l’incertezza nella popolazione avrebbero
dovuto preparare il terreno a un colpo di Stato: “Era la strategia della tensione,
impiegata con successo dai colonnelli in Grecia, e che adesso si cercava di riproporre in
Italia ad opera dei neofascisti e di alcuni ambienti dei servizi segreti”
3
.
Le estremità temporali che è possibile fissare dalla strage di piazza Fontana del
dicembre 1969 alla strage dell’espresso “Italicus” dell’agosto 1974 circoscrivono
dunque un periodo “segnato da dinamiche politiche omogenee”, la variante è semmai
rappresentata dalla finalità delle stragi e il tentativo reiterato di attribuirne le
responsabilità all’estrema sinistra, almeno fino al 1974, quando la paternità delle bombe
esplose a piazza della Loggia e sull’“Italicus” sarebbe stata rivendicata dai volantini di
“Ordine nero”, firma dell’estremismo di destra
4
. La strategia della tensione oltre le cifre
e il succedersi di stragi e tentativi di colpi di Stato, come evidenzieranno i documenti
raccolti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause della mancata
individuazione dei responsabili si rivelerà “un tentativo di esproprio dell’azione politica
per opera di agenti esterni”
5
, ma anche il reagente chimico capace di fondere “in
1
P. Cucchiarelli, A. Giannuli, 1997, p. 370.
2
P. Ottone, 1978, p. 96.
3
P. Ginsborg, 1998, p. 400.
4
P. Cucchiarelli, A. Giannuli, 1997, p. 370.
5
F. M. Biscione, 2003, p. 104.
9
un’unica miscela le principali espressioni della devianza del potere (servizi deviati,
poteri occulti, finanza corsara)”
1
.
Una stagione degli orrori infiammatasi a partire dal 1969 e caratterizzata dal verificarsi
di condizioni straordinarie negli apparati dello Stato. In simili circostanze la gravità
degli eventi correva il rischio insidioso di essere sottovalutata e l’esatta interpretazione
dei fatti oscurata, intorbidita dalle manovre di quegli organi del potere compiacenti. Una
prova di eccezionale importanza per quei campioni del giornalismo e della stampa
italiana che si fossero dimostrati capaci di inseguire la verità in maniera libera e
indipendente, ultimo baluardo a tutela del cittadino, in grado di onorare degnamente gli
impegni cui viene idealmente deputato il quarto potere. I giornali, da sempre strumento
“dalla funzione indispensabile” per la vita di una società democratica, ma anche
prodotto editoriale, la cui sopravvivenza e indipendenza discende inderogabilmente
dalla capacità di competere sul mercato dell’informazione e dell’intrattenimento
2
.
Eppure nella stampa italiana si potevano riconoscere già nel 1969 i tratti di un “modello
mediterraneo” di stampa, caratterizzata come quella greca, spagnola e portoghese da
prodotti d’élite a diffusione limitata, contrastata da una pervasiva presenza televisiva e
dove i sussidi economici, tenendo in vita artificialmente le imprese editoriali, insidiano
tuttora la libertà d’opinione rendendo “fenomeno piuttosto comune” la
strumentalizzazione dei media da parte del governo, dei partiti politici e di industriali
con legami politici
3
.
La nostra ricerca ha mirato a raccogliere in una cornice storica sufficienti elementi a
suffragio della tesi secondo cui “L’Espresso”, il giornale e i suoi giornalisti negli anni
della tensione non abdicarono mai all’impegno civile, alla missione di libera
informazione che aveva contraddistinto sin dalla fondazione il settimanale e che
avrebbe reso la sua nascita senza ombra di dubbio uno degli eventi più importanti della
stampa periodica italiana del dopoguerra. Lasciando emergere inoltre come
“L’Espresso” riuscì a tracciare una scia luminosa non solo nell’ambito della buona
stampa, informando l’opinione pubblica al di là della versione ufficiale dei fatti, ma
anche costruendo nel tempo, mattone dopo mattone, un gruppo editoriale in salute che
oggi porta il suo nome.
1
P. Cucchiarelli, A. Giannuli, 1997, p. 13.
2
A. Papuzzi, 2003, p. XIII.
3
D. C. Hallin, P. Mancini, 2004, p. 67.
10
Si dimostrerà centrale anche in questo caso il periodo compreso tra il 1969 e il 1974,
anni di continua trasformazione per “L’Espresso” che cambia formato, diventa un
tabloid e triplica le vendite avviandosi, in concorrenza con “Panorama”, verso la cima
delle 300 mila copie
1
. Il settimanale nel ’69 acquista il colore, vende 100 mila copie e
vara un inserto in grado di offrire la necessaria valvola di sfogo alla raccolta
pubblicitaria. Ancora in formato grande, nel ’70, aggiunge alla sua edizione un
apprezzato supplemento economico curato da Eugenio Scalfari. Dal ’71 in poi, anni
difficili per la stampa italiana, allarga gli orizzonti con importanti servizi dall’estero
iniziando a progettare il passaggio al formato tabloid. Il cambio di formato nel ’74,
infine, garantisce un ampliamento del pubblico di lettori all’“Espresso”, offrendo al
giornale il definitivo successo del mercato e pingui utili
2
.
Resistere alle difficili prove imposte dal mercato e attendere ai compiti del buon
giornalismo, in un settore fortemente concorrenziale e vitale come quello della stampa
periodica, potrà offrire la dimostrazione che la stampa italiana almeno in un caso, in
anni di profonda crisi della Repubblica e di minaccia alla democrazia, adoperando i
canoni dell’eccellenza professionale come guida illuminata, fu in grado di guadagnare
la fiducia e polarizzare l’attenzione del pubblico attorno a un’impresa editoriale sana e
per questo motivo indipendente. Questo è quanto intendiamo dimostrare accadde nel
caso dell’“Espresso”.
Le prime pagine, le inchieste, gli editoriali, talvolta anche le cronache e le brevi notizie
pubblicate dal giornale tra il 1969 e il 1974 hanno costituito il principale materiale di
studio nel corso della ricerca e sono stati riprodotti per questo motivo, nelle parti più
significative, anche nell’impianto dell’opera che in appendice reca un’intervista con
Mario Scialoja, uno degli inviati di punta del giornale. I capitoli della tesi, scanditi
dall’avvicendarsi degli anni e corredati da una breve prefazione sulla nascita
dell’“Espresso”, si aprono puntualmente con una panoramica dei cambiamenti
strutturali del settimanale, aggiornando la situazione delle vendite e del mercato
editoriale del giornale. Del prodotto giornalistico in sé, si occupa diffusamente la parte
più corposa di ogni sezione. Raccontare attraverso le pagine dell’“Espresso” il servizio
reso dal settimanale alla corretta interpretazione dei fatti presso l’opinione pubblica,
spesse volte nell’immediatezza temporale degli eventi, ma pur sempre in ossequio ai
1
N. Ajello, 1985, p. 106.
P. Murialdi, 2003, p. 195.
11
2
migliori propositi della stampa di informazione, ha guidato il nostro lavoro, insieme
all’ambizione di poter sottrarre all’oblio della memoria servizi giornalistici la cui
validità fosse stata frattanto dimostrata dallo scorrere del tempo.
12
Prefazione
L’Espresso: il giornale degli anni Sessanta
La nascita
“L’Espresso” nasce o meglio, trattandosi di un giornale, esce in edicola per la prima
volta domenica 2 ottobre 1955 al costo di 50 lire, in un grande formato (54 x 39.5
centimetri), definito per questo motivo “lenzuolo”, che lo avrebbe contraddistinto negli
anni
1
. È un settimanale diretto da Arrigo Benedetti. Nel volume “L'Espresso 1955
1980” curato da Serena Rossetti in occasione dell’anniversario dei 25 anni dalla nascita,
Eugenio Scalfari che di Benedetti fu uno dei più valenti collaboratori, nonché
successore alla direzione dell’“Espresso”, ricostruisce lungamente e in maniera
dettagliata l’avvio dell’iniziativa editoriale.
Nel 1952 Benedetti dirigeva “L’Europeo”, fondato otto anni prima per l’editore Gianni
Mazzocchi. Attraverso “L’Europeo”, Benedetti sin dal dopoguerra aveva “orientato gli
umori del grosso pubblico verso una corretta interpretazione degli eventi del presente e
del passato prossimo”
2
. Era un settimanale innovativo, al direttore più che le ben note
idee politiche di Nenni, per fare un esempio, interessava sapere se il socialista aveva
litigato con Saragat o con la moglie, prima di un discorso e informarne nel caso i
lettori
3
.
Proprio durante il ’52 Mazzocchi aveva però deciso di passare la mano e vendere la
proprietà dell’“Europeo” ad Angelo Rizzoli che mirava a omogeneizzare il giornale al
mercato: “A ‘Oggi’, ‘Tempo’, spuntando il suo tradizionale anticonformismo e la sua
inconfondibile ‘snobberia”
4
. Per cominciare, Rizzoli avrebbe imposto al settimanale di
svestire il suo caratteristico formato “lenzuolo”.
Il divorzio con Benedetti era nell’aria e nel maggio 1954, quando il direttore avrebbe
lasciato ufficialmente “L’Europeo”, da ormai tre anni, come rivela Scalfari, andavano
1
P. Murialdi, 2003, p. 121.
2
N. Ajello, 1976, p. 194.
3
E. Forcella, 1997, p. 111.
4
E. Scalfari, 1981, p. 5.
13
avanti “lunghe fantasticherie” sull’eventualità di fondare un nuovo giornale, un
quotidiano che fosse innovativo dal punto di vista editoriale e politico:
Nei lunghi pomeriggi domenicali che passavamo insieme nella sua casa milanese, quest’idea del
quotidiano prendeva corpo giorno per giorno. Si discuteva la disposizione delle pagine, il modo di
titolare, lo staff di redazione. Sedici pagine, i commenti in quarta pagina, stampa rotocalco, uso
spregiudicato della fotografia, testi brevi, titoli d’attacco, mai omettere un nome, mai scrivere:
“Negli ambienti di Palazzo Chigi si dice che…”, mai alludere, mai usare il condizionale, ma
sempre asserire, verbi all’indicativo, e quindi notizie certe, sulle quali scatenare battaglia. E i
soldi? Quanti ce ne sarebbero voluti? Tanti, tantissimi per le nostre possibilità, anche le più
ottimistiche
1
.
Benedetti e Scalfari si erano trasferiti a Roma, entrambi collaboratori del “Mondo”, il
settimanale liberale di Pannunzio “intransigentemente anticomunista in nome della
libertà, intransigentemente antifascista in nome dell’intelligenza, intransigentemente
anticlericale in nome della ragione”
2
. Le loro ambizioni rimanevano immutate e anzi
crescevano di pari passo con le grandi novità che investivano la società italiana: la
ripresa economica e la crescita delle industrie del Nord, dove le città cominciavano a
estendersi verso le periferie abitate da nuovi “cittadini” provenienti dal Sud a ingrossare
le fila operaie, ma anche le prime trasmissioni televisive, la crescente diffusione
dell’automobile e degli elettrodomestici nelle famiglie
3
. “Il centrismo stava dando gli
ultimi segni d’una vita sempre più contrastata e difforme dai bisogni che montavano dal
paese”, il mercato dei quotidiani, fin troppo statico, inseguiva la scia conservatrice del
“Corriere della Sera” diretto da Mario Missiroli e i settimanali, a parte “Il Mondo”, non
facevano eccezione
4
.
Arriviamo al 1955, Scalfari e Benedetti si sono definitivamente convinti di poter
fondare insieme un nuovo quotidiano di successo, il progetto è “diventato una specie di
urgenza”
5
e pensano quindi ad Adriano Olivetti, fondatore della fabbrica di macchine
per scrivere, come possibile finanziatore. Si recano a Ivrea nella sua città, esponendogli
la loro idea “del giornale degli anni Sessanta […] Si capiva, lo capivano tutti, che ‘anni
Sessanta’ avrebbe dovuto significare socialismo, industria, libertà”
6
. Olivetti sembra
interessato: “Ci vogliono quattro o cinque quote da 200 milioni l’una’ concluse Adriano
1
E. Scalfari, 1981, p. 5.
2
V. Gorresio, “Il Mondo” cessa le pubblicazioni dopo una civile battaglia di 15 anni, “La Stampa”, 2
marzo 1966.
3
E. Scalfari, 1969, p. 89.
4
Id., 1986, p. 33.
5
Ivi, p. 47.
6
Id., 1981, p. 8.
14
[…] Il programma gli piaceva, ma d’esporsi in prima persona a sfidare i parrucconi
della Confindustria e della Dc nemmeno parlarne”
1
.
La lista degli altri possibili finanziatori non è così lunga e infatti solo un altro aspirante
risponde all’appello di Benedetti e Scalfari: Enrico Mattei, presidente dell’Eni. Mattei
sembra entusiasta, non baderebbe a spese, proprio in quegli anni è alla ricerca come
socio di maggioranza di un giornale in grado di contrastare la stampa di tipo
confindustriale
2
. Olivetti però ad affiancare Mattei a queste condizioni non ci sta e
nemmeno a ritirarsi, perciò lancia l’idea di creare un settimanale e non un quotidiano,
un periodico sarebbe riuscito a finanziarlo anche da solo
3
. Il progetto giunge a un bivio.
Benedetti e Scalfari discutono per due giorni. All’alba del terzo, dopo anni di
gestazione, nasce infine l’idea compiuta dell’“Espresso”: un settimanale finanziato da
Adriano Olivetti e pubblicato in grande formato, il “lenzuolo” di cui Rizzoli aveva
spogliato “L’Europeo” in precedenza. Il nome “L’Espresso” fu ripreso dall’omologo
francese “L’Express”, nato nel 1953 e subito distintosi a livello internazionale per il
punto di vista nuovo e coraggioso che aveva assunto nei riguardi di una Francia e di un’
Europa vecchie, da rinnovare
4
.
Mattei? Ricorda Scalfari: “Lungimirante quanto si vuole […] e tuttavia un padrone. Non
era quello il nostro progetto”
5
.
Le prospettive e la seconda fondazione
“L’Espresso” diretto da Arrigo Benedetti tira 100 mila copie il 2 ottobre 1955 con il
primo numero. Vanno esaurite in un giorno, ma sono destinate a calare nei mesi
successivi in cui le vendite si attesteranno sulle 60 mila copie
6
. Il grande formato,
l’edizione completamente in bianco e nero e il carattere tipografico usato per i titoli,
ossia il “bastone” senza grazie e anzi “essenziale, moderno, duro, semplice, senza
1
E. Scalfari, 1981, p. 8.
2
P. Murialdi, 2003, p. 143.
3
E. Scalfari, 1981, p. 8.
4
Ibid.
5
Ibid.
6
Ivi, p. 9.
15
lusinghe”, servono a marcare a prima vista l’anima politicamente impegnata del
settimanale
1
.
Se “L’Europeo” era un giornale “tutto milanese”, “L’Espresso” invece è “tutto
romano”, segue la parabola discendente della politica del centrismo, è fatto di scandali e
di vivacità, intende “descrivere un modo di vita in cui ogni cosa appare mescolata con
cento altre” perciò a politica, religione e affarismo si accompagnano letteratura,
spettacolo e “la più fatua mondanità”
2
.
Come accadeva nel caso dell’“Europeo” il tono adoperato è colloquiale e discorsivo, il
linguaggio molto semplice, costituito da un dizionario di base teso a indagare e porre in
primo piano il lato umano dei personaggi, facendo ricorso all’aneddotica ove possibile
3
.
L’informazione politica perde così come l’economia il suo linguaggio specialistico, la
“terza pagina” letteraria si scrolla di dosso il grigiore e si ravviva grazie alla vicinanza
del costume senza prendersi troppo sul serio. Nel complesso denuncia e sorriso vanno a
braccetto con leggerezza e la variazione sul tema è dietro l’angolo, lo scienziato Buzzati
Traverso invitato a scrivere di calcio o il musicologo Massimo Mila a raccontare le
imprese spaziali
4
.
Il settimanale, tuttavia, apre il primo numero con un editoriale dal titolo I promotori di
questo giornale molto critico sulla situazione della stampa italiana del tempo e subito
netto nel prendere posizione nel panorama editoriale coevo:
I promotori di questo giornale ritengono che l’assoluta indipendenza della stampa sia il
fondamento più solido del regime democratico.
Questa indipendenza, nelle condizioni attuali della stampa italiana, si è rivelata molto spesso
illusoria: interessi di partito o di gruppi selezionali premono sensibilmente sulla direzione politica
dei giornali, deformandone la funzione e degradandola a quella di una difesa acritica di tesi
precostituite.
La stampa d’informazione viene così ad avere minore autorità e più debole influenza educativa a
ragione dell’ossequio, o anche solo del sospetto dell’ossequio verso il gruppo proprietario. Questa
consuetudine ha anche determinato singolari casi di sostituzione di direttori fedeli solo alle
esigenze di una obiettiva informazione. Casi come questi hanno dato l’esatta misura del problema
che è indubbiamente tra i più delicati del nostro sistema politico
5
.
Certo è vivo nella memoria di Benedetti il ricordo del triste epilogo della sua avventura
all’“Europeo” di Rizzoli, la ferita è fresca, ma più in generale nel suo primo editoriale
1
E. Scalfari, 1986, p. 176.
2
N. Ajello, 1976, p. 220.
3
Id., 1985, p. 87.
4
L’Espresso 50 anni, 1: 19551964, 2005, p. 6.
5
I promotori di questo giornale, “L’Espresso”, 2 ottobre 1955.
16
“L’Espresso” inizia subito un’attività di denuncia dei mali che affliggono il paese, a
cominciare da quelli che compromettono la stampa stessa e il settore in cui opera il
giornale. In questi casi letteratura, mondanità e spettacolo tornano alla propria
dimensione di cornice di un quadro più complesso. Ma quali soluzioni ipotizzare per
sottrarre l’informazione al pesante giogo impostogli dai gruppi proprietari?
“L’Espresso” si distingue sin dagli albori per capacità propositiva e spirito di iniziativa.
Ne abbiamo una dimostrazione nella soluzione adottata per sottrarsi al controllo della
linea editoriale e mutuata dai modelli britannici del “Times” e dell’“Economist”. Dalla
stampa anglosassone deriva l’idea di creare “un board of trustees”, un comitato di
garanti con il compito di nominare il direttore, “assicurare l’autonomia e la continuità
dell’indirizzo politico del giornale”
1
. Il primo comitato di garanti dell’“Espresso” è
composto da Giulio Bergmann, Guido Calogero, Arrigo Olivetti, Roberto Tremelloni,
Bruno Visentini. “Il loro nome – conclude l’editoriale del 2 ottobre 1955 – vale di per sé
a dare al pubblico l’indicazione di una linea morale e politica”
2
.
Intanto nell’impresa “L’Espresso” a Olivetti si sono affiancati come editori Carlo
Caracciolo e Roberto Tumminelli “che ne è anche lo stampatore e che ha convogliato
nell’operazione il suo rotocalco ‘Cronache’, diretto da Antonio Gambino”
3
. La
redazione è composta da tre stanze in via Po, le stesse adoperate in precedenza proprio
da “Cronache”. Una se la dividono Benedetti e Scalfari, direttore e amministratore del
giornale, mentre il redattore capo Gambino e gli altri redattori vengono sistemati nelle
rimanenti due: “Le finestre erano a piano terra e davano sulla strada; l’ingresso era in
comune con una società d’assicurazione dell’Automobile Club”
4
. Collaborano fin
dall’inizio Fabrizio Dentice, Carlo Gregoretti e Sergio Saviane cui si aggiungono in
seguito Gianni Corbi e alcuni ex colleghi dell’“Europeo” come Manlio Cancogni,
Giancarlo Fusco e Camilla Cederna
5
.
Io tenevo i conti e li tenevo in tasca, perché quando cominciammo non c’era neppure un libro
mastro: segnavo su dei pezzi di carta qualunque le spese, i primi ricavi, i bollettini di tiratura, le
rese. Si lavorava dieci e più ore al giorno e ciascuno faceva di tutto. Ma il gruppo dei collaboratori
e dei critici fu, fin dall’inizio di prima scelta: Alberto Moravia, Sandro De Feo, Bruno Zevi,
Lionello Venturi, Massimo Mila, Paolo Milano.
1
I promotori di questo giornale, “L’Espresso”, 2 ottobre 1955.
2
Ibid.
3
P. Murialdi, 2003, p. 122.
4
E. Scalfari, 1986, p. 173.
5
Id., 1981, p. 9.
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