6
fattori che ostacolano lo sviluppo e come viene affrontato dai
territori.
Il secondo capitolo sarà dedicato interamente alla
Programmazione Negoziata, facendo un rapido excursus sulle
origini e di come si colloca a livello territoriale per agevolare la
ripresa dei territori in difficoltà e naturalmente si prenderanno
in rassegna gli strumenti principali unitamente al ruolo che
rivestono i vari attori, sia locali che nazionali, nella messa in atto
di questi programmi, senza dimenticare il ruolo svolto dal
marketing territoriale per la promozione della Programmazione
Negoziata.
Nel terzo capitolo si entra nel cuore della trattazione
analizzando nello specifico i Progetti Integrati Territoriali quali
nuovi strumenti della PN. Si cercherà di analizzarli al meglio per
comprenderli ed inquadrarne l’ambito di applicazione, infatti tali
strumenti sono stati concepiti per le regioni Obiettivo 1 ma
trovano spazio anche nelle regioni Obiettivo 2, anche se la
trattazione sarà ad esclusivo appannaggio delle prime, in quanto
rappresentano il loro naturale terreno applicativo. L’intento sarà
quello di realizzare un quadro preciso e puntuale sulle
7
procedure di attuazione ed i soggetti promotori e responsabili,
senza trascurare gli aspetti valutativi ed i principali modelli
organizzativi.
Nel quarto ed ultimo capitolo saranno osservati i PIT al
“banco di prova” ovvero si valuteranno le singole esperienze di
Progettazione Integrata nelle regioni Obiettivo 1(Basilicata,
Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia). Dato che i PIT
sono strumenti che si prestano ad essere utilizzati in maniera
personalizzata si vedrà il comportamento che ognuno dei
territori interessati ha posto in essere e cosa ha deciso di
evidenziare nei progetti a seconda delle proprie esigenze, ma
anche dei partenariati che sono stati attivati; inoltre si
riscontreranno le differenze in termini di recepimento nelle
diverse regioni. Infine data la novità degli strumenti si cercherà
di tracciare un percorso valutativo nei limiti dei dati in possesso.
8
Capitolo 1
L’economia italiana nel sistema europeo:
programmi e strumenti per il sostegno e lo
sviluppo
9
1 Stato dell’economia italiana a seguito
dell’integrazione europea
Per poter fare un quadro preciso del contesto economico
italiano, relativamente agli strumenti per lo sviluppo dei
territori più depressi, bisogna fare un passo indietro ed osservare
come si colloca l’economia italiana all’interno dell’Unione
Europea ma anche quali sono le forme di intervento che dall’alto
si snodano via via verso il basso per poter lavorare sui territori
più depressi, affinché si possa cercare di omogeneizzare la
crescita di questi compatibilmente con le proprie possibilità e
risorse.
L’integrazione dell’Italia nell’economia europea è costata
molto in termini di sacrifici economico-monetari in quanto per
poter rientrare nei parametri di Maastricht
1
in tempi
relativamente brevi l’Italia ha dovuto fare i conti con una serie di
manovre correttive della finanza pubblica ma anche della spesa
pubblica.
1
Ricordiamo che i parametri di Maastricht stabiliscono una convergenza in termini di
livelli standard di inflazione,deficit e debito pubblico che i paesi UE hanno dovuto
raggiungere e devono a tutt’oggi mantenere per poter rimanere all’interno dell’unione.
10
L’Italia è riuscita a rispettare i parametri, anche se con
notevoli sforzi, ed è arrivata in maniera sorprendente alla fase di
ingresso nell’ Euro grazie anche alla forza di adattamento e
sacrificio dell’intero paese.
2
Una volta realizzata l’integrazione è necessario analizzare gli
effetti di questa nei vari paesi anche per poter comprendere
meglio la situazione italiana, infatti l’UE ha introdotto nel
trattato l’obiettivo della coesione economica e sociale per poter
affrontare e cercare di evitare il formarsi di disparità nel suo
territorio. E’ per questo che l’UE ha riformato ed esteso la sua
politica regionale ed ha costituito un Fondo di coesione. Le
disparità economiche nella comunità europea ci sono sempre
state, infatti avrebbe potuto facilmente delinearsi una situazione
di centro e di periferia, nelle quali si intendono le nazioni più
sviluppate e quelle meno sviluppate in termini di PIL e di potere
di acquisto della moneta
3
. L’Italia dal canto suo presentava una
certa anomalia in quanto il suo PIL era al di sotto della media
europea mentre il suo potere di acquisto si collocava ben al di
2
CALABRO’ A., E la nave, ansimando, va, in CALABRO’ A. (a cura di) Un viaggio
imperfetto. L’Italia e l’integrazione europea, Milano, Edizioni il Sole 24 Ore, 1999, p. 45.
3
RODRIGUEZ-POSE A., L’Unione Europea: economia, politica e società, Milano, Franco
Angeli, 2002.
11
sopra
4
. La situazione di cui si sta parlando fa riferimento alla
seconda metà degli anni 80, mentre invece nel 2000 le
performance negative dei paesi centrali e dell’Italia e lo sviluppo
di altre nazioni come l’Irlanda hanno contribuito a livellare la
situazione di cui si parlava in precedenza cioè di centro e di
periferia.
Alla fine degli anni 90 le disparità economiche interne si
verificavano in molti paesi dell’UE anche se un caso eclatante era
rappresentato proprio dall’Italia nella quale era riscontrabile un
consistente divario tra il PIL pro capite delle regioni del nord e
quelle del sud, come ad esempio il Trentino-Alto Adige che era
pari al 136.1% della media europea mentre invece quello della
Calabria era del 60.7%. Queste disparità potevano essere
riscontrate anche relativamente ai tassi di occupazione dove in
regioni come il succitato Trentino-Alto Adige si riscontrava una
percentuale del 3.9% nel 1999 mentre in Calabria si raggiungeva
il 24%
5
.
Diversi sono i fattori che possono spiegare la nascita e la
persistenza di divari economici tra zone di un territorio creando
4
RODRIGUEZ-POSE A., L’Unione europea: economia, politica e società, Milano, Franco
Angeli, 2002.
5
Fonte: EUROSTAT.
12
dei livelli di disarmonia nella distribuzione dei redditi, infatti,
anche se ogni nazione ha la sua storia e le sue caratteristiche che
spiegano la genesi di quella che è oggi la sua economia, ci sono
delle problematiche che sono universali e che abbracciano tutti i
paesi, questo perché ci troviamo a vivere in un contesto
economico globalizzato in cui le regole del gioco non cambiano
più a seconda della regione di appartenenza e stanno entrando a
far parte della cultura della new economy. Si possono citare in
maniera sintetica alcune delle cause che sono alla base di ritardi
e di disparità e che alla luce di quanto detto valgono per tutti.
La quantità e la qualità delle risorse umane che sono a
disposizione influenzano fortemente il potenziale sviluppo di un
area, questo inteso in termini di istruzione e di formazione
raggiunta dalla forza lavoro disponibile. Spesso l’offerta di lavoro
che è presente in certe zone non è all’altezza della domanda
creando un conseguente movimento migratorio delle forze più
qualificate, anche perché il rovescio della medaglia di questa
situazione è che le zone più depresse anche volendo non sono in
grado di assorbire la nuova forza lavoro più qualificata che è nata
e continua a nascere oggi.
13
La scarsa accessibilità di molte aree in termini di
infrastrutture è un altro fattore che giustifica la disparità in
Europa, infatti l’esistenza di infrastrutture è stata considerata la
base per la partenza di uno sviluppo economico. Ecco perché a
livello europeo si è sentito il bisogno di intervenire attraverso i
Fondi Strutturali che hanno contribuito a diminuire il gap che
esiste in molte regioni europee.
Un altro punto fondamentale che influisce sullo sviluppo di
una regione è la rete informativa che è diventata il motore dello
sviluppo nella moderna economia anche perché essa si lega
molto al concetto di innovazione che è oggi molto importante
per la creazione di nuovi strumenti di sviluppo locale territoriale.
14
1.1 La politica economica italiana per l’integrazione
L’ingresso dell’Italia nell’UEM (Unione Economica e
Monetaria) ha causato un doppio effetto: un primo e più
importante che testimonia l’impegno profuso per poterci
rientrare garantendo quindi una crescita dell’Italia, come
secondo effetto ha cancellato definitivamente i vantaggi relativi
alle svalutazioni della moneta ed al consistente intervento
pubblico nell’economia di cui il paese godeva gia dagli anni
settanta che si era quindi assestato ed era entrato a far parte del
“dna” della struttura economica nazionale assicurando ingenti
trasferimenti di denaro pubblico a favore di grandi imprese sia
pubbliche che private per poter far fronte a periodi di crisi
congiunturali6.
Si ricorda infatti che uno dei punti forza dell’economia
italiana prima dell’entrata in vigore dell’Euro era data dalla
debolezza della Lira rispetto alle altre monete e che quindi
rendeva appetibili i prodotti dell’economia interna rispetto agli
altri paesi. Oggi si è dovuto fare i conti con l’impossibilità di
optare verso la facile soluzione delle svalutazioni tattiche che
6
ZERBONI N., Patti territoriali e contratti d’area, Milano, Edizioni il Sole 24 Ore ,1999.
15
consentivano il sostegno dell’economia da parte del governo.
Non avendo più a disposizione questi stratagemmi per il
sostegno, ma soprattutto dovendo fare i conti in continuazione
con il rispetto dei parametri di Maastricht, è stato opportuno
cambiare rotta e puntare con altri nuovi strumenti alla
ricostruzione dell’economia italiana.
È necessario puntare verso una politica economica pubblica
non più tesa verso la filosofia del “tappabuchi” ma bensì atta a
ricostruire il sistema economico nazionale con un’impostazione
che parta dalle istituzioni fornendo tutta una serie di strumenti
improntati alla crescita ed alla valorizzazione dei territori, sia di
quelli rimasti indietro sia di quelli più avanzati per evitarne
un’involuzione certa rispetto al resto d’Europa e dell’economia
mondiale.
Oggi la linea da seguire per lo sviluppo e l’occupazione è
quella relativa ad azioni di politica industriale intesa come
sviluppo sostenibile e creazione di occupazione, perché
un’economia nazionale che deve confrontarsi con quella
mondiale non può più permettersi di rimanere legata alla
semplice logica di domanda ed offerta, la svolta può essere
16
attuata anche rivolgendosi alle nuove forme di programmazione
che poggia su tre cardini fondamentali: le infrastrutture, gli
incentivi al capitale ed al lavoro e il marketing territoriale7.
Per poter avviare seriamente una politica di sviluppo la
Comunità Europea ha messo a disposizione dei paesi facenti
parte i Fondi Strutturali che offrono l’opportunità di poter
avviare delle iniziative sia dal lato delle infrastrutture sia dal lato
dello stimolo a nuove localizzazioni imprenditoriali, questo
sempre per perseguire l’obiettivo della coesione economica e
sociale.
7
ZERBONI N., Patti territoriali e contratti d’area, Milano, Edizioni il Sole 24 Ore ,1999.
17
2 Lo sviluppo territoriale europeo: interventi e
strumenti
Gia dagli anni 70 si parla di integrazione europea e da allora
sono state proposte idee che affiancate a strumenti appositi
potessero livellare le disparità territoriali nell’Europa
occidentale. Il primo strumento creato per il sostegno fu il Fondo
Europeo per lo Sviluppo Regionale. Il FERS fu ideato
appositamente nel marzo del 1975 ed il suo scopo era quello di
intervenire sugli squilibri, che erano presenti nei territori della
comunità europea, per correggerli. All’inizio l’assegnazione di
tali fondi ai paesi era rigidamente legata ad un sistema di quote
che prescindevano dalla quantità e dalla qualità dei progetti. Con
il passare degli anni la regolamentazione di tali fondi venne
rivista fin quando non vennero introdotti i Fondi Strutturali. In
ogni caso i FERS non ebbero molto successo innanzitutto perché
sono stati introdotti durante la grande crisi che investì l’Europa a
cavallo tra gli anni 70 ed 80 che coincideva anche con il drastico
aumento del prezzo del petrolio che fino ad allora non si era
verificato mai con quelle proporzioni e che quindi hanno
contribuito a neutralizzare gli effetti posti in essere. Altri fattori
18
che contribuirono al fallimento di tali strumenti furono: la scarsa
dotazione affidata dalla Comunità per risolvere i problemi; essa
era pari al 4,8% del suo bilancio e anche se nel corso degli anni
gli stanziamenti furono rivisti ed aumentati quattordici volte fino
a raggiungere l’8,1% del bilancio comunitario questo era ancora
estremamente esiguo se si pensa che allora il bilancio della
comunità europea era appena dell’1% del PIL europeo.
Gli interventi attuati avevano vita breve e quindi impedivano
un lavoro approfondito sui progetti; i FERS erano previsti per
finanziare non solo le aree depresse ma appoggiavano qualsiasi
tipo di programma regionale con la conseguenza che le gia esigue
risorse andavano disperse; non era previsto un sistema di
priorità negli investimenti nel senso che la Comunità finanziava
qualsiasi tipo di progetto a prescindere dall’importanza; i paesi
aderenti alla Comunità Europea utilizzavano i fondi
prevalentemente come strumento sussidiario delle politiche
regionali piuttosto che per creare le basi per un integrazione
europea; il monitoraggio e la verifica dei progetti era attuato in
maniera superficiale e mancava coordinamento tra gli attori
preposti allo sviluppo territoriale. La Commissione fallì nella
19
promozione dell’idea della necessità di una politica regionale
sopranazionale e ci fu una mancanza di coordinamento tra le
politiche regionali e le politiche settoriali8.
Alla luce di questi fatti è facile comprendere che c’era la
volontà per porre in essere una politica di sviluppo europea
unitaria però, essa era ancora acerba ed aveva bisogno di essere
indirizzata meglio anche con l’esperienza acquisita attraverso i
primi “esperimenti” attuati attraverso i FERS.
Il persistere, quindi di squilibri economici in Europa, aveva
messo in moto il dibattito improntato alla ricerca di metodi per
rafforzare lo sviluppo della comunità ma soprattutto per
renderlo omogeneo. Durante gli anni 80 il problema dello
sviluppo si era acutizzato sia a causa della crisi economica di cui
sopra, sia per l’ingresso nell’allora CEE di paesi come la Grecia o
il Portogallo e la Spagna, anche se quest’ultima aveva meno
problemi delle altre due a livello di PIL però aveva squilibri
interni piuttosto accentuati.
8
RODRIGUEZ-POSE A., L’Unione Europea: economia, politica e società, Milano, Franco
Angeli 2002.