INTRODUZIONE
Nel luglio del 1887 viene pubblicata, in russo, la prima
edizione del manuale della Lingvo Internacia, quello che poi diverrà
noto come Unua Libro (Primo Libro). L'autore, il ventisettenne
oculista russo-polacco Ludwik Lejzer Zamenhof, si cela dietro lo
pseudonimo D.ro Esperanto, che negli anni successivi verrà accolto
dalla comunità come nome definitivo per la lingua descritta nel testo.
L'inventore del progetto si proponeva essenzialmente due scopi:
rendere disponibile uno strumento di comunicazione che fosse
veloce da apprendere e facile da utilizzare, e gettare le basi per un
nuovo approccio all'”altro”, basato sul rispetto e la tolleranza delle
differenze linguistiche, etniche e religiose.
In oltre centoventi anni di storia, più di tutte le altre lingue
cosiddette “artificiali” l'esperanto ha saputo attirare un pubblico di
curiosi e di affezionati, che, in misure diverse secondo le capacità e
gli interessi personali, hanno imparato la lingua, hanno partecipato
agli incontri e ai convegni, hanno scritto opere letterarie o di
saggistica e hanno portato avanti le idee e i valori di un movimento
che, per alcune caratteristiche, ha assunto i tratti di una vera e
propria comunità. D'altra parte, l'esperanto sembra essere uno di
quei temi capaci di polarizzare le posizioni, tanto fra i professionisti
del settore quanto fra chi è privo di una competenza specialistica:
dall'indifferenza all'interesse, dalla critica alla stima, dal disprezzo
alla passione.
In questo lavoro si racconteranno alcuni degli aspetti salienti di
questo fenomeno, provando a metterne in luce tanto gli elementi
1
originali quanto i punti controversi. Nel primo capitolo ci si occuperà
della lingua, descrivendone l'alfabeto, le strutture e il lessico, per
indagare poi su alcune caratteristiche particolarmente interessanti e
sulle fasi di progettazione che hanno portato alla varietà del 1887, e
concludere infine con alcune indicazioni sull'insegnamento della
1Rinvio all'introduzione dei singoli capitoli per ulteriori dettagli sugli
argomenti trattati nelle sezioni e nei paragrafi in cui si articola ogni parte della tesi.
5
lingua stessa. Il secondo capitolo affronterà invece le premesse
storiche e le prospettive ideologiche che hanno spinto Zamenhof a
elaborare la Lingvo Internacia; verrà quindi fornito un breve quadro
degli sviluppi successivi dell'esperantismo, con un'attenzione
particolare ai momenti di attrito con le autorità di alcuni paesi; inoltre,
si cercheranno di mettere a confronto le caratteristiche linguistiche e
le impostazioni culturali che permeano l'esperanto con quelle che
traspaiono da altri progetti simili o paragonabili per genesi o per
destinazione. Nel terzo capitolo si esporranno alcune delle principali
critiche che vengono rivolte, soprattutto dalla comunità scientifica,
agli esperantisti, e le risposte che questi ultimi hanno elaborato nel
tempo; si evidenzieranno poi le discontinuità e le differenze presenti
all'interno del movimento stesso, che hanno portato a costruire
immagini non sempre sovrapponibili di cosa siano la lingua e i
principi che la ispirano. Nel quarto capitolo, poi, ci si soffermerà sulla
comunità degli esperantisti, analizzandone le particolarità sulla base
di alcuni concetti formulati dalla sociolinguistica; racconteremo poi la
realtà di alcune associazioni e gruppi locali, con un interesse
privilegiato per l'Emilia-Romagna, ed elencheremo quindi le proprietà
di alcune varietà di lingua riscontrabili all'interno del più ampio
diasistema. Dopo aver preso in esame l'ormai solida relazione che si
è costruita fra il movimento esperantista ed internet, nell'ultimo
capitolo si traccerà un breve schizzo della letteratura in esperanto, e
si presenteranno e commenteranno alcuni testi utili a farsi un'idea di
cosa sia, in concreto, questa lingua. Le conclusioni, poi, serviranno a
tirare le somme di quanto esposto fino a quel momento, e a illustrare
alcune considerazioni e sensazioni personali.
Trattandosi di un'opera in larga parte compilativa, sono state
incluse molte citazioni, anche estese, da parte di scrittori, saggisti ed
esponenti più o meno vicini all'esperanto: un difetto che sconta la
trattazione di questi argomenti è, forse, proprio il fatto che le fonti in
esperanto, o comunque interne al movimento, sono molto più
prodighe di spunti, descrizioni e approfondimenti rispetto agli autori
che invece manifestano perplessità o aperto dissenso
6
sull'accettabilità dell'esperanto come lingua, o su alcuni suoi limiti
specifici. Tale disparità si riflette sulla quantità e sulla qualità della
documentazione disponibile, e inevitabilmente condiziona anche
l'impostazione di questa tesi, che può sembrare più “pro-esperanto”
di quanto non siano le posizioni di chi ne ha curato la stesura; ove
possibile, comunque, si proveranno a evidenziare gli eccessi e le
forzature.
Un'ultima annotazione grafico-contenutistica: contrariamente
all'abitudine prevalente, si è deciso, in accordo con le posizioni
2
espresse da Gobbo (1998), di presentare i nomi dell'esperanto e
delle altre lingue inventate che hanno ottenuto un certo successo
3
utilizzando l'iniziale minuscola, per ribadire che si tratta di lingue a
tutti gli effetti, non meno degne di attenzione di quelle storico-naturali
più o meno diffuse; si è conservata la maiuscola (), invece,
nelle citazioni originali, per rispettare l'integrità del testo.
2Si è scelto qui di scrivere interamente in minuscolo le lingue pianificate
che siano state o siano parlate per almeno una generazione: il sostantivo che le
nomina ha cessato di essere nome proprio per qualcuno e perciò può essere
assimilato dall'italiano. [...] Tutte le altre lingue inventate progettate, pertanto, sono
state considerate proprietà dei glottoteti e perciò nomi propri, da scrivere con la
lettera maiuscola (., p. 55).
3Tra queste lingue includo, oltre all'esperanto, l'ido e il volapük, mentre per
ragioni di mera opportunità e per il desiderio di non confonderla con altri concetti di
natura linguistica, si è lasciata la maiuscola all'Interlingua di Gode, che per
notorietà ed importanza pure ha pieno diritto ad essere considerata una lingua viva
a tutti gli effetti.
7
«»
ibid
Esperanto
[Versione 3.1 – novembre 2009]
8
CAPITOLO 1 – LA LINGUA
In questo capitolo si prenderà in considerazione l'esperanto
sotto la dimensione prettamente linguistica, nelle sue varie
sfaccettature. Nella prima sezione se ne presenterà la struttura,
sfruttando i tradizionali livelli d'analisi come griglia esplicativa; nella
seconda verranno affrontate alcune questioni più specifiche, aree in
cui l'esperanto mostra soluzioni particolarmente interessanti, come
quella della gestione della polisemia, o in cui nel tempo si è creato un
dibattito fra scuole di pensiero contrastanti, come quello fra
schemismo e naturalismo; nella terza poi si passeranno in rassegna,
sotto una prospettiva diacronica, le varie tappe evolutive della lingua
precedenti alla sua pubblicazione, per indagare sul lavoro di
planning portato avanti da Zamenhof; nella quarta sezione invece si
cercherà di mettere in evidenza quali implicazioni didattiche abbiano
le caratteristiche dell'esperanto, e in che modo queste ne consentano
un rapido insegnamento e apprendimento.
1.1 – I LIVELLI D'ANALISI
1.1.1 – Una grammatica di sedici regole
Queste sono le sedici regole base della lingua, quelle che
costituiscono la matrice immodificabile su cui si innestano e si
intrecciano le successivi evoluzioni dell'esperanto; vengono qui
presentate nella forma codificata dalla Fundamenta Krestomatio di
1
Zamenhof (in Francini 1978, pp. 27-29). Tali regole forniscono una
prima introduzione al funzionamento dell'esperanto, un sistema che
2
proveremo a spiegare meglio nei paragrafi successivi.
1Per una descrizione più articolata dei testi costitutivi dell'esperanto, si veda
il capitolo 2.
2Ripetiamo una precisazione importante: come si vedrà nel capitolo 3, i
linguisti hanno spesso parlato e scritto dell'esperanto, ma nella maggior parte dei
casi solo per dichiararsi a favore o contro, per attribuirgli o meno lo status di lingua
e al limite per raccontarne l'origine o le motivazioni che hanno portato alla sua
9
corpus
1)L' indeterminativo non esiste; c'è solo un articolo
determinativo (difinita), la, uguale per tutti i generi, casi e numeri.
2)I sostantivi hanno la terminazione (finio) -o. Per formare il
plurale si aggiunge la terminazione -j. Esistono due casi: il
nominativo e l'accusativo; quest'ultimo si ricava dal nominativo
con l'aggiunta della terminazione -n. Gli altri casi vengono
espressi tramite l'aiuto di preposizioni.
3)Gli aggettivi finiscono per -a. Casi e numeri sono gli stessi dei
sostantivi. Il comparativo si forma con la parola , il superlativo
con , il termine di paragone viene introdotto da ol.
4)I numerali (cardinali) non si declinano, e i principali sono unu,
du, tri, kvar, kvin, ses, sep, ok, na, dek, cent, mil. Decine e
centinaia si formano unendo i numerali fondamentali. Gli ordinali
si formano aggiungendo la terminazione -a degli aggettivi, i
multipli col suffisso obl, le frazioni col suffisso on, i collettivi col
suffisso op, per i distributivi si usa la parola po. Inoltre i numerali
possono essere usati come sostantivi o avverbi.
5)I pronomi personali sono mi, vi, li, i, i (per gli inanimati e per
gli animali), si, ni, vi, ili e oni. I pronomi possessivi si formano con
l'aggiunta della terminazione -a degli aggettivi. La declinazione
segue quella dei sostantivi.
6)Il verbo non si modifica secondo le persone e i numeri. Le forme
del verbo terminano in questo modo: il tempo presente in -as, il
tempo passato in -is, il tempo futuro in -os, il modo condizionale
in -us, il modo imperativo in -u, il modo infinito in -i. Per i participi,
con senso aggettivale o avverbiale: attivo presente in -ant-, attivo
passato in --, attivo futuro in -, passivo presente in -at-,
passivo passato in -it-, passivo futuro in -ot-. Tutte le forme del
passivo sono rese con l'aiuto della forma corrispondente del
creazione; molto più scarse e superficiali sono le analisi tecniche e le descrizioni
specifiche della struttura della lingua, forse con la sola eccezione dell'opera di
Bruno Migliorini (1923 e 1985). Per questo motivo, il primo capitolo, e in parte
anche quelli successivi, si basano soprattutto su fonti in esperanto, sicuramente più
esaustive, anche se non sempre scevre da parzialità, come avremo modo di
notare.
10
ĝıŝĝ
ontint
plej
pli
articolo
verbo esti ed il participio passivo del verbo richiesto; la
preposizione del passivo è de.
7)Gli avverbi terminano per -e. I gradi di comparazione si
comportano come per gli aggettivi.
8)Tutte le preposizioni in quanto tali reggono il nominativo.
9)Ogni parola si legge come è scritta.
10) L'accento cade sempre sulla penultima sillaba.
11) Le parole composte si formano per la semplice unione delle
parole (quella principale si trova alla fine); le terminazioni
grammaticali sono anch'esse considerate come parole
indipendenti.
12) In presenza di un'altra parola , la particella ne cade.
13) Per indicare una , le parole ricevono la terminazione
dell'accusativo.
14) Ogni preposizione ha un significato definito e costante; tuttavia,
se si deve usare una qualche preposizione e il senso non mostra
chiaramente quale, allora si usa la preposizione , che non ha
un significato autonomo. Invece della preposizione je, si può
anche usare l'accusativo senza preposizione.
15) Le cosiddette parole straniere, cioè quelle che la maggior parte
delle lingue ha ricavato da un'unica fonte, sono usate in
Esperanto senza cambiamenti, adottando solo l'ortografia di
questa lingua; tuttavia, se diverse parole derivano da una stessa
radice, è meglio utilizzare senza cambiamenti solo la parola
fondamentale e formare le altre a partire da quest'ultima
attraverso le regole dell'Esperanto.
16) La vocale finale del sostantivo e dell'articolo può essere
tralasciata e sostituita da un apostrofo.
1.1.2 – Ortografia e fonetica
La nona regola recita, secondo la formulazione del
Fundamento: Ogni parola si pronuncia com'è scritta, col suono
proprio di ciascuna lettera. Quello dell'ortografia fonetica è un
11
«»
je
direzione
negativa
principio molto importante per l'esperanto, perché stabilisce una
corrispondenza biunivoca tra grafemi e fonemi: incontrando una
parola in un testo si sa sempre come pronunciarla, e allo stesso
tempo si può trascrivere con certezza una parola di cui sia nota la
pronuncia. Si vedrà comunque come nei concreti atti di parole questa
indicazione venga parzialmente disattesa, data la presenza di
fenomeni di assimilazione e allofonia.
L'alfabeto dell'esperanto si compone di 28 lettere: 21
consonanti, 5 vocali e 2 semivocali. Nella scelta dell'inventario
fonologico Zamenhof cercò di tenere conto dei suoni che più
frequentemente ricorrono nelle lingue europee, in modo tale da
ridurre quelle deformazioni delle radici che costituivano uno dei
3
principali limiti del volapük: il suo ideatore, l'abate Schleyer, riteneva
per esempio che i popoli asiatici non fossero in grado di pronunciare
il fonema [r], che venne dunque sostituito con [l], con l'effetto
spiazzante di trasformare il tedesco Berg (montagna) nella
irriconoscibile radice .
Piron (1984), in un articolo in cui abbozza uno studio
sull'influenza dell'yiddish sull'esperanto, sottolinea come la lingua con
cui il giovane Zamenhof comunicava con i compagni di scuola e di
gioco abbia probabilmente condizionato l'inconscio del futuro
glottoteta soprattutto a livello fonologico, dato che quasi ad ogni
fonema dell'yiddish corrisponde un analogo fonema dell'esperanto.
Vediamo come si struttura nel dettaglio l'alfabeto:
a b c ĉ d e f g ø h ĥ i j ĵ k l m n o p r s ŝ t u ŭ v z
Salta immediatamente all'occhio la presenza di sei grafemi
provvisti di diacritici (), nella forma di un accento
circonflesso (ĉapelo) o di un segno di breve (haketo). Essi hanno
storicamente rappresentato una delle questioni più discusse
3Nel secondo capitolo si farà una rapida ricognizione dei progetti di lingue
pianificate precedenti o concorrenti dell'esperanto; tra questi, il volapük, l'ido, il
Novial, l'Interlingua e l'Occidental.
12
supersignoj
bel
dell'esperanto, soprattutto per la difficoltà nel reperire gli appositi
caratteri di stampa, prima, e i font adeguati, nell'attuale era
informatica; si vedrà nel paragrafo 3.3.1 quali alternative siano state
previste per sopperire a questa difficoltà e quali siano le principali
proposte di riforma tuttora al vaglio della comunità.
Per quanto riguarda le caratteristiche delle consonanti
secondo la tradizionale descrizione a tratti, si può tracciare il
seguente schema che tiene conto del luogo e del modo di
articolazione:
LABIALI
LABIO-DENTAPALA-VELARIGLOT-
DENTALITALITIDALI
LI
p bt dk g
OCCLUSIVE
AFFRICATE d
f vs z
FRICATIVE
NASALI
LATERALI
VIBRANTI
La maggior parte di questi suoni risulta familiare al parlante
italiano; gli elementi cui il neofita deve fare maggiore attenzione sono
i seguenti:
/c/ e /ĉ/: poiché ogni grafema ha un suono predefinito che non
varia a seconda degli altri che lo circondano, si pronunciano
rispettivamente [ts] e [t], come in “azione” e “cena”. Il suono [k] di
“casa” è reso mediante il grafema /k/.
/g/ e /ø/ si pronunciano sempre [g] e [d], come in “gatto” e
“gelato”. Non esistendo i fonemi [] e [], ogni componente dei
gruppi consonantici /gl/ e /gn/ va pronunciato separatamente.
/ŝ/ si pronuncia con la [ di “scena”, e /ĵ/ con la [] del francese
.
/h/ non è muta, ma prevede una leggera aspirazione; /ĥ/, che
13
tstxhmnlr––––
jour
]
peraltro si incontra assai di rado, corrisponde a suoni presenti in
lingue come il tedesco e l'ebraico, che Zamenhof ben conosceva.
Quando non ci sia rischio di omonimia, questo fonema nell'uso
corrente viene sostituito dal corrispondente occlusivo [k].
Delle due semivocali () /j/ e /ŭ/ la prima ha
frequenza maggiore, poiché consente di formare il plurale di
sostantivi e aggettivi, mentre la seconda costituisce spesso
l'elemento finale dei cosiddetti avverbi primitivi, cioè quelli non
derivati da un aggettivo, come e baldaŭ. Entrambe comunque
ricorrono solo come secondo membro di un dittongo, e pertanto non
4
possono mai essere accentate. Qualitativamente non differiscono
molto dal corrispondente suono vocalico, ma, nel suo Plena Manlibro
de Esperanta Gramatiko, Wennegren (2005, p. 27) sottolinea che /i/,
anche quando non è accentata, dovrebbe avere una lunghezza
maggiore di /j/, così da poter distinguere termini altrimenti omonimi
come e (“miele” e “midollo”). In pratica tale distinzione
viene solitamente ignorata.
Il triangolo vocalico comprende solo cinque membri, quelli che
gli studi di Greenberg sugli universali linguistici hanno postulato
come più tipici (Wells 1978). Secondo Wells, i tratti caratterizzanti
sono anteriore/posteriore e alto/basso, mentre la rotondità non ha
valore fonologico distintivo. Lo stesso autore pone in rilievo un
aspetto interessante: il fatto che in esperanto ci siano relativamente
poche vocali consente ai suoi diversi parlanti una certa libertà nella
5
realizzazione, senza timore di ingenerare confusione. Questo vale
soprattutto per le coppie [e]/ e [o]/[], che possono essere
considerate come allofoni (ma si vedano nel capitolo 4 le
caratterisitche del cosidetto Italanto). Questo margine di tolleranza
permette a persone le cui diverse lingue madri abbiano inventari
4L'elenco completo dei dittonghi discendenti dunque è il seguente: aj, ej, oj,
uj, a, e.
5Bisogna ricordare infatti che quanto meno numerosi sono i fonemi di un
sistema, tanto più libera è la loro realizzazione; in questo senso l'esperanto
permette una certa elasticità.
14
mielomjelo[]ıı
hodiaŭ
duonvokaloj
vocalici strutturati in modi diversi di adoperare ciascuno la propria
variante senza che la comunicazione venga compromessa; nella
retorica esperantista, questo è uno dei punti in cui viene
maggiormente rimarcato il contrasto con l'inglese, il cui complesso
sistema fonologico richiederebbe la capacità di cogliere sfumature
anche molto sottili. Canepari (1988), comunque, precisa che sono da
preferirsi le varianti presenti anche nell'italiano standard, e che tanto
la /e/ quanto la /o/ vanno pronunciate in modo né troppo aperto né
troppo chiuso.
In questo si può riscontrare un aspetto importante della
variabiltà di ogni lingua effettivamente parlata, cioè gli atteggiamenti
sociali dei parlanti nei confronti delle diverse possibilità di
realizzazione di uno stesso fonema, che portano a valutare come più
prestigiose alcune varianti: è il caso, per esempio, del grafema /r/,
che viene accettato anche nella variante uvulare tipica del francese,
ma che risulta più apprezzato in quella dentale dell'italiano. Questo
tema è affrontato da Wells in termini di “comportamenti tollerati ma
non raccomandati”, riprendendo così il pensiero di Zamenhof che
sosteneva da un lato che in esperanto (a differenza, per esempio, del
russo) è possibile la velarizzazione delle nasali prima dei suoni
gutturali, perché non si danno coppie minime che si distinguano per
questo tratto, ma che dall'altro bisogna ricordare che ogni suono,
proprio per i principi costitutivi di questa lingua, andrebbe pronunciato
in modo chiaro e distinto dagli altri. Wennegren (2005) cita altri casi
in cui ci può essere uno scarto fra e , come la
desonorizzazione di una consonante sonora davanti a una sorda,
come nel nesso /bt/ che può diventare [pt], ad esempio nel composto
subtaso.
Si può trarre una considerazione da quanto finora esposto:
non è raro che in esperanto il criterio razionale di fondo e l'uso
pratico di tutti i giorni giungano a un compromesso. In effetti, Wells
riassume la questione indicando tre criteri per definire quale sia la
pronuncia corretta:
pratico: è accettabile qualunque pronuncia permetta
15
–
parolelangue
l'intercomprensione fra esperantisti di diversa lingua madre
(malsama etna lingvo)
linguistico: è buona la pronuncia che rispecchia il carattere
fonologico dell'esperanto, quella che cioè si attiene alle
indicazioni di partenza minimizzando il numero degli allofoni
(minimumigas pluralofonecon)
geografico: è preferibile quella pronuncia che risulti
geograficamente neutrale, che non riveli cioè in modo
imbarazzante la provenienza del parlante (ne montras lokajn
). Nella pratica dei congressi, ad esempio, gli esponenti
della numerosa comunità francese si riconoscono facilmente per
la tendenza a nasalizzare le vocali.
Proprio per venire in aiuto alla eterogenea comunità degli
esperantisti, Zamenhof decise di rendere invariabile la posizione
dell'accento di parola, che cade infatti sempre sulla penultima sillaba
(tranne, naturalmente, nel caso dei monosillabi). Pur essendosi
l'autore ispirato alle regole della lingua polacca, il ritmo del discorso
risulta così non molto dissimile da quello dell'italiano, che abbonda di
parole piane. Data la loro natura di semivocali, /j/ e / ŭ/ non spostano
l'accento tonico, per cui al singolare e al plurale la vocale accentata
in un sostantivo è sempre la penultima: ['domo], ['domoj] (“casa”,
“case”). Anche parlando di accenti, però, la pratica si rivela più
composita della teoria: Wennegren infatti precisa che, se la regola
per l'accento principale è quella ben definita di cui si è appena
parlato, per gli accenti secondari (), frequentemente
usati in parole lunghe come i composti, i parlanti sono liberi di
attenersi alle proprie preferenze: si potrà dunque tranquillamente
oscillare tra ['maten'mando] e [ma'ten'mando] quando si voglia
parlare della propria “colazione”.
Canepari ci fornisce invece qualche indicazione in più per
quanto riguarda l'accento di frase, che insieme alla flessibilità
dell'ordine sintattico dovrebbe mettere in risalto i componenti che si
vogliono enfatizzare, e l'intonazione, che dovrebbe essere la meno
marcata possibile, per non distrarre o irritare l'interlocutore. Nelle
16
––«»
kromakcentoj
apartaĵojn
frasi affermative, l'altezza tonale delle varie sillabe degli enunciati
dovrebbe restare nella fascia media, senza sbalzi dall'inizio alla fine,
tranne nell'ultima parte. Per quanto riguarda le interrogative, lo
stesso Canepari commenta che, contrariamente a quanto avviene
per l'italiano, in esperanto l'intonazione non sarebbe strettamente
necessaria per veicolare l'idea che si tratta di una domanda, perché
ogni interrogativa è sempre preceduta o da un correlativo (si veda
oltre la relativa tabella) o, nel caso delle cosiddette domande totali,
che prevedono un “sì” o un “no” come risposta, dalla particella ĉu.
Ciò nonostante, Canepari afferma che la tonia interrogativa serve a
rendere più realistica la pronuncia e contribuisce all'interpretazione
delle frasi più ambigue.
Un'ultima considerazione relativa a questo aspetto della
lingua: fra i possibili vantaggi di un inventario fonematico così ricco
c'è il fatto che l'esperanto permette di trascrivere mediante il suo
alfabeto le parole di molte lingue europee di prestigio, con l'effetto di
fornire a chi ne abbia una conoscenza anche elementare una certa
familiarità coi suoni di lingue come il tedesco e lo spagnolo, che
6
potranno eventualmente essere apprese in seguito.
1.1.3 -
Nel suo fondamentale testo sulla grammatica e sulla cultura
dell'esperanto, Janton (1996, § 3) afferma che a suo avviso la
tradizionale classificazione dei morfemi usata per descrivere le lingue
europee non dà conto in modo adeguato delle caratteristiche di
questa lingua. Infatti, in esperanto a prima vista si potrebbero
riconoscere tre categorie di morfemi: le radici, che
qualche concetto; gli affissi, che modificano il senso della radice
senza influire sul suo carattere grammaticale, e le finali, che
forniscono informazioni di natura grammaticale sulla parola in
questione.
6Per altre indicazioni sul cosiddetto valore propedeutico dell'esperanto, si
veda il paragrafo 1.4.3.
17
«s»«»
ignificano
Morfologia
Per chiarire, dividiamo una parola di esempio nei suoi
componenti costitutivi. In nehaveblaj, che potremmo tradurre con
“indisponibili”, possiamo riconoscere i seguenti morfemi: -, prefisso
negativo che indica l'assenza di una certa qualità, hav-, radice del
verbo corrispondente al nostro “avere”, -- suffisso che indica la
possibilità passiva, -a-, morfema derivativo che classifica la parola
come aggettivo, e -j, morfema flessivo che come abbiamo anticipato
serve a formare il plurale. Secondo la griglia, dunque,
sarebbe formato dalla giustapposizione di due affissi, una radice e
due finali. Tale analisi, che trova riscontro in alcuni manuali per
l'apprendimento della lingua (si veda Broccatelli 1995), non può dirsi
pienamente soddisfacente, perché ha il solo scopo di presentare
l'esperanto ai discenti e agli studiosi secondo la terminologia che,
soprattutto all'epoca di Zamenhof, era più comune nella descrizione
morfologica: in questo modo si permette a chi desideri apprendere
questa lingua di fare riferimento a un consolidato bagaglio di
conoscenze grammaticali, senza avere timore di trovarsi di fronte a
una materia ostica o costruita con criteri completamente arbitrari. In
realtà, una classificazione che si articoli in termini di “morfemi
lessicali e grammaticali” non tiene conto dell'originale natura delle
dell'esperanto, che, secondo la teoria dello stesso Zamenhof,
sono totalmente scomponibili in parole indipendenti e invariabili,
che conservano sempre la stessa forma e restano autonome
prescindendo dalla loro posizione nella frase, e inoltre possono
essere usate come radici o come parole grammaticali (in Janton, §
3.3). Questa puntualizzazione porta a pensare che la distinzione tra
monemi e morfemi grammaticali vada superata nel trattare di una
lingua in cui tutte le unità sono di fatto parti costitutive del lessico:
nella parola frat-in-o, dunque, il significato complessivo di “sorella”
viene costruito dalla giustapposizione dei concetti di “fratello”,
“femmina” e “cosa esistente”.
A supporto di questa tesi, pare opportuno citare la teoria che
afferma che ogni radice, e poi ogni parola, è dotata di un proprio
carattere grammaticale, che non viene influenzato dalla vocale finale
18
«»
vortoj
nehaveblaj
ebl
ne
che le viene applicata. Si tratta di un aspetto molto importante, ed a
mio avviso interessante, della morfologia dell'esperanto, che merita
qualche dettaglio in più.
Il primo ad esporre una teoria organica del sistema di
creazione delle parole (vortfarado) fu René De Saussure (1916),
fratello del celebre Ferdinand. Il cuore delle sua argomentazione è
che in esperanto non ci sono regole di derivazione come tali, bensì
modalità razionali di composizione delle parole secondo i principi di
necessità e di sufficienza: dunque ci sono solo parole composte, non
7
derivate. Questo perché, come mostra l'undicesima regola del
Fundamento, anche le finali sono da considerare come parole
8
autonome e non si limitano ad apportare una marca sintattica. Per
fare qualche esempio, parole come skribi o contengono già
in sé l'idea verbale di azione, mentre in kroni e najli (incoronare ed
inchiodare) l'idea verbale è fornita dalla finale, che si aggiunge a una
radice che indica un oggetto. Così, le parole homo e viro contengono
già in sé l'idea di persona, mentre granda e felia riflettono una
natura aggettivale. Vediamo cosa affermano i suddetti principi nella
formulazione di Saussure (ibid., pp. 11-12):
Principio di Necessità: per costruire una parola composta, si
uniscono tutte le parole semplici che sono necessarie per evocare
con chiarezza l'idea da esprimere per mezzo della parola composta,
eventualmente con l'aiuto del contesto.
Principio di Sufficienza: in una parola composta si devono
evitare i pleonasmi inutili e le idee estranee a quella da esprimere.
Il concetto di “pleonasmo inutile” è l'aspetto della teoria più
controverso, come vedremo. La questione importante è che non si
tratta di discussioni puramente teoriche, perché comportano delle
conseguenze per l'utente dell'esperanto, sia dal lato della produzione
7Una parziale eccezione a questa regola è costituita, come vedremo, da
correlativi (come tial e kiam), preposizioni (es. pro e sub), congiunzioni (es. e
sed) e avverbi primitivi (es. e ).
8Ogni parola conserva il proprio significato anche quando entra a far parte
di un composto.
19
ĉıı
ankorahiera
kaj
elektrizi