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1. Introduzione alla lirica trobadorica
Le origini.
Dal punto di vista cronologico possiamo collocare lo sviluppo della lirica trobadorica
in un intervallo che comprende i secoli XII e XIII nella regione dell’Occitania, che
attualmente appartiene alla Francia.
Al momento disponiamo di 2542 composizioni di autori conosciuti e anonimi, ai quali
diamo il nome di trovatori, o trobadors, termine derivato dal verbo trobar, ovvero
comporre.
Nel corso dei secoli, la lingua utilizzata dai trovatori, non ebbe un’unica
denominazione; tra queste ricordiamo il termine romans, che gli studiosi considerano
inadeguato poiché con esso si determinano tutte le lingue di origine latina; lemosì, che
risulta improprio in quanto si riferisce a una zona dialettale; lengua d’oc, terminologia
utilizzata da Dante nel ”De vulgari eloquentia”, ma che inizialmente stava ad indicare
una zona geografica e non linguistica; e ,in ultimo, il termine provenzale che, sebbene
sia inesatto in quanto la lirica in questione non ebbe origine dalla Provenza, è accettato
dalla maggior parte degli studiosi.
Convenzionalmente si ritiene che l’origine della lirica trobadorica debba essere
ricondotta alla figura di Guglielmo IX duca d’Aquitania e VII conte di Poitiers, vissuto
tra il 1071 e il 1126.
A proposito di Guglielmo IX, l’unica fonte antica che ci permette di ricondurre a lui la
fondazione della lirica trobadorica, è una vida. Questo documento risulta essere di
grande importanza poiché ci permette di identificare Guglielmo IX con il trovatore
definito lo coms de Petitieu di cui si parla nei manoscritti.
Sebbene non si abbia la certezza che Guglielmo IX sia il primo trovatore della storia,
tuttavia possiamo dargli il merito della grande diffusione e sviluppo che la lirica
trobadorica ebbe nei territori appartenenti ai suoi domini. Difatti, l’eccentrica
personalità del duca di Poitiers e la vastità dei territori che possedeva influirono
enormemente sulla crescita di questa forma d’arte, sebbene l’ipotesi più accettabile sia
che Guglielmo non fosse l’unico trovatore presente, bensì l’esponente principale.
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Tra le condizioni favorevoli che permisero lo sviluppo di una lirica cortese in lingua
volgare, ci fu la vicinanza dei territori posseduti da Guglielmo IX con l’abbazia di S.
Marziale a Limoges, un fiorente centro di sperimentazione poetica su temi religiosi sia
in latino sia in limosino, dal quale possiamo trarre le tematiche fondanti delle opere
provenzali.
Inoltre ricordiamo l’influenza che ebbe la vicinanza con la cultura araba in Spagna,
che incise soprattutto sui temi delle liriche e sull’adozione di una lingua volgare per
una produzione rivolta all’ambiente cortese.
Non si può ignorare, poi, come la tradizione culturale precedente, facente capo alla
produzione lirica mediolatina, abbia condizionato la produzione trobadorica
caratterizzandola con una vena di profonda spiritualità confluente in erotismo.
In ultima analisi, non possiamo escludere l’influenza che possono avere avuto le
contemporanee kharagiat mozarabiche, componimenti documentati nella penisola
iberica, aventi come centrali le tematiche amorose e contenute nei più ampi
componimenti chiamati muwassahat.
Oltre alle influenze culturali e geografiche, dobbiamo tenere in considerazione anche
le condizioni storiche e sociali che incisero sulla nascita e sullo sviluppo della poesia
trobadorica; difatti è proprio nei secoli in cui essa fiorisce che assistiamo all’ascesa dei
cavalieri che, da ceto di guerrieri di professione, si vanno costituendo come piccola
nobiltà. Dopo il crollo della monarchia carolingia, infatti, il periodo di anarchia aveva
portato i conti a crearsi un potere militare legando a sé il ceto dei cavalieri attraverso
una serie di concessioni a essi favorevoli in modo tale da ovviare alla loro instabilità
dovuta alle difficoltà economiche. Tuttavia, se da un lato l’aristocrazia cercava di
creare attorno a sé una cerchia sempre più ampia di cavalieri, questi ultimi, di contro,
sfruttavano la relazione con l’aristocrazia per permettersi una sicura posizione in
società.
In questo modo, l’aristocrazia, fu coinvolta in uno stile di vita che comprendeva
atteggiamenti, ora definiti “cortesi”, facenti capo alla volontà della cavalleria di
assicurarsi l’ascesa sociale e il mantenimento a corte. E furono proprio tali
atteggiamenti ad essere condensati e riportati nell’attività poetica diventando il nucleo
tematico principale della lirica trobadorica.
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La metrica e i generi.
Nella lirica provenzale, la versificazione non si basa sulla quantità vocalica, come
accadeva nella lingua latina, bensì sul numero di sillabe e sull’opposizione tra vocali
atone e toniche.
L’unità metrica che noi identifichiamo come verso, non viene denominata in modo
univoco dai trovatori, tuttavia, facendo riferimento a “Las leys d’amor”, possiamo
assegnargli il termine bordo.
La misura del verso viene effettuata in modo analogo alla lingua francese che, a
differenza di quella italiana, calcola il numero delle sillabe in accordo all’ultima
sillaba tonica presente nel verso. In questo modo, un verso che per noi conta dieci
sillabe, secondo la metrica provenzale sarà un novenario, in quanto l’ultima sillaba
tonica sarà la nona.
I versi maggiormente utilizzati nella lirica provenzale sono quelli composti da sette e
da dieci sillabe, tuttavia non mancano esempi di versi formati da quattordici sillabe,
come accade in alcuni componimenti di Guglielmo IX e di Marcabruno, e di
composizioni interamente formate da monosillabi e bisillabi, come la canzone
composta da Cerverì de Girona.
Il verso provenzale, nascendo per accompagnarsi ad una melodia, è caratterizzato dal
fatto di essere particolarmente rispettoso delle regole metriche.
È per questo motivo, quindi, che nei casi d’irregolarità, come ipometria (mot court) o
ipermetria (mot redon), siamo portati a pensare che si tratti di alterazioni dovute alla
corruzione testuale da parte dei copisti, piuttosto che alla reale volontà dell’autore.
Occorre, a questo punto, fare un’ultima precisazione riguardante i versi a partire dal
decasillabo.
Infatti, quest’ultimi, differiscono nella forma in quanto si presentano, divisi da cesura,
in due differenti emistichi.
In particolare, i decasillabi possono presentarsi a maiori, quindi formati da emistichi di
6+4, o a minori con emistichi di 4+6.
Inoltre troviamo alcune particolarità riguardanti la cesura: quando il primo emistichio
è formato da cinque sillabe di cui l’ultima, essendo muta, non viene contata, allora la
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cesura viene detta epica. Invece, quando il primo emistichio è formato da quattro
sillabe di cui l’ultima è atona, siamo in presenza di cesura lirica.
Infine ricordiamo la tipologia di verso denominato alessandrino, formato da dodici
sillabe e diviso in due emistichi da 6+6.
Anche per quanto riguarda la rima, la lirica provenzale si attiene rigidamente alle
regole prescritte, essa si presenta, infatti, come rima perfetta, cioè in completa
corrispondenza vocalica e consonantica, a partire dall’accento. Difatti le rime per
assonanza sono da considerarsi eccezioni piuttosto rare che si riscontrano in testi di
tipo popolareggiante.
Fra le tipologie di rima più ricorrenti troviamo i rims encadenats, crozats ed
empeutats, rispettivamente corrispondenti alla rima alternata, incrociata e al mezzo
della lingua italiana.
Come abbiamo detto, l’uso della rima per i trovatori è particolarmente rigoroso, non si
ammettono eccezioni soprattutto in presenza di quello che è definito mot tornat,
ovvero la ripetizione della stessa parola a fine verso. L’unico caso in cui era lecito
utilizzare un mot tornat, era all’interno della tornada, in quanto si trattava di strofe di
congedo, e quindi conclusiva.
Non bisogna confondere, poi, il mot tornat con il rim equivoc, cioè la ripetizione di
parole uguali foneticamente, ma diverse nel significato; a differenza del mot tornat, il
rim equivoc, era particolarmente elogiato.
Ricordiamo, inoltre, i rims derivatis, in cui viene ripresa la stessa parola, ma con
diverse desinenze. Troviamo, così, alternate la forma maschile e femminile di uno
stesso aggettivo, o diverse forme di uno stesso verbo o, allo stesso modo, un sostantivo
che si presenta in diverso genere o numero.
Infine troviamo le rimas caras, virtuosismi rimici particolarmente sofisticati che
saranno fondamentali nelle composizioni in trobar ric.
Anche per quanto riguarda il sistema strofico, la lirica provenzale si attiene a regole
particolarmente rigide.
La strofa è denominata, dai trovatori, cobla e rappresenta l’unità metrica, nonché
melodica, della poesia.
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Il sistema strofico può avere differenti forme che differiscono, non per
l’organizzazione interna della cobla, bensì per l’interazione che sussiste tra le
differenti coblas.
Tra i sistemi strofici più ricorrenti, troviamo le coblas unissonans, in cui lo schema
rimico è ripetuto in tutte le coblas in modo simmetrico.
Nelle coblas singularis, invece, l’ordine rimico è mantenuto costante, mentre le uscite
delle rime sono diverse per ogni coblas.
L’identità rimica viene mantenuta anche nelle coblas dissolutas, nelle quali i versi di
ogni cobla non rimano tra loro, bensì con i versi corrispondenti delle coblas
successive.
Nelle coblas doblas le rime sono uguali per uscita fra coppie di strofe, ma ogni coppia
differisce dalle altre; alle stesso modo troviamo coblas ternas e coblas quaternas.
Infine le coblas retrogradadas sono così definite, in quanto l’assetto rimico della
prima cobla è ripetuto all’inverso nella seconda, allo stesso modo la terza cobla
ripeterà la seconda e via di seguito.
Bisogna, ora, aggiungere agli ordinamenti strofici appena menzionati, altre strutture
che modificano solo in parte l’assetto strofico e che, per giunta, possono trovarsi in
concomitanza con gli ordinamenti appena descritti.
Partiamo dalle coblas capcaudadas, nelle quali l’ultimo verso della prima strofa rima
con il primo della seconda strofa e via di seguito.
Nella coblas capfinidas, invece, accade che una parola presente nell’ultimo verso di
una strofa, venga ripresa nel primo verso della strofa seguente in modo identico o con
lievi modificazioni.
Le coblas capdenals, poi, presentano la stessa parola all’inizio di ogni strofa, mentre le
recordativas, hanno una stessa parola o uno stesso verso a inizio o fine di una strofa.
Infine, nelle coblas retronchadas, troviamo un mot tornat nello stesso punto di ogni
strofa.
Le poesie trobadoriche, inoltre, sono concluse da una tornada o finida, ossia una strofa
con un numero di versi inferiore rispetto alle altre. Nella tornada vengono
generalmente ripresi gli ultimi versi dello schema rimico delle coblas.
I componimenti trobadorici, possono essere distinti per generi, sia poetici e quindi
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riguardanti differenti forme di versificazione, sia contenutistici, che differiscono per
tematiche.
Per quanto riguarda i generi poetici, citeremo solo la sestina, in quanto inventata e
adoperata da Arnaut Daniel, autore che sarà affrontato nei prossimi capitoli, e
successivamente ripresa da Dante e Petrarca.
La sestina è composta di sei strofe formate da rims dissoluts e da una tornada di tre
versi.
Le coblas sono, prima di tutto unissonans, in quanto in esse si ripetono sempre le
stesse parole-rima, in secondo luogo capcaudadas, poiché le parole-rima sono disposte
secondo uno schema capo-coda e secondo la modalità della retrogradatio.
Anche tra i generi che differiscono per contenuto, citeremo solo quelli che riguardano
la tematica amorosa, in quanto importanti per la nostra trattazione.
Tra questi, il genere lirico sicuramente più celebre è la canso, la quale vede come
centrale le tematiche della fin’amor e della cortezia che devono essere affrontate
attraverso l’utilizzo di un lessico scelto.
La canso è generalmente composta da un numero variabile di strofe, comprese,
secondo i trattatisti, tra sette e nove e da una tornada conclusiva.
La canso, inoltre, interseca le sue tematiche amorose con altri tipi di componimenti
come il vers, componimento di tipo morale, o come il sirventese, di carattere etico-
politico, o con il partimen, un particolare tipo di tenso che riguarda il dibattito tra due
trovatori su un argomento amoroso.
Tra i generi misti ricordiamo anche il planh, un tipo di componimento atto al
compianto funebre che può assumere caratteristiche amorose nel raro caso in cui si
compianga la donna amata.
Infine, tra i componimenti di carattere amoroso, troviamo l’alba, che descrive il
dispiacere dei due amanti separati dal sopraggiungere del mattino, e la pastorela, in
cui si parla dell’incontro amoroso tra una pastorella e un cavaliere.
Entrambi questi generi si svolgono in forma dialogica e rappresentano un tipo di
rapporto amoroso non idealizzato o trascendente, bensì particolarmente vissuto e reale.
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La fin’amor.
Con l’espressione fin’amor, intendiamo la somma degli atteggiamenti che regolano
l’attività poetica sulla base di un codice amoroso ben definito.
Lo stesso termine può, tuttavia, essere generalizzato e utilizzato per fare riferimento a
tutta la produzione poetica provenzale atta a cantare gli effetti dell’amore sul soggetto
amante.
Per inquadrare la tematica della fin’amor, non possiamo esimerci dal collocarla
all’interno di una civiltà prettamente di corte.
Difatti, è solo partendo da quest’ultimo assunto, che possiamo comprendere il
parallelismo tra il rapporto del poeta con la donna amata e quello tra il vassallo con il
proprio signore.
A riprova di quanto appena detto, troviamo, nel lessico poetico trobadorico, l’uso di
termini derivanti dallo ius feudale che, mutuati, vengono a inserirsi nell’ottica della
lirica amorosa.
A questo proposito possiamo citare ad esempio vari termini che, avendo una radice
legislativa, vengono traslati nella dimensione amorosa di corte.
È l’esempio della parola midons, derivante da meus dominus, che i trovatori
adottavano per definire la donna amata, o del termine blandir che, derivato da
blandimentum, indicava il corteggiamento.
Allo stesso modo sers, derivato da servus, era utilizzato per definire l’innamorato.
Questi sono solo alcuni degli esempi che potremmo citare e che ci permettono di
collocare le tematiche amorose, centrali nella lirica che andremo ad analizzare,
all’interno di una situazione storica ben precisa.
Tuttavia, ciò non basta per comprendere il complesso rapporto che lega il poeta
all’oggetto amato, bisognerà, pertanto, prendere in considerazione le tradizioni
riguardanti le relazioni amorose e sociali in genere.
È a questo proposito che dobbiamo aggiungere un altro elemento costitutivo della
concezione amorosa provenzale, ovvero la convinzione che l’amore potesse nascere
solo al di fuori di un’ottica matrimoniale.
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Ne deriva, quindi, che la donna amata di cui si canta nelle liriche in questione, sarà
sempre già sposata e, tanto per rendere ancora più intenso e difficile il rapporto
amoroso, apparterrà a un rango sociale più elevato del poeta.
Già da queste poche premesse, cominciamo a comprendere il complesso rapporto che
si crea tra l’innamorato e la dama amata; parliamo di un amore impossibile da vivere,
permeato di trascendenza e accompagnato dalla solitudine e dalla malinconia del
poeta-amante.
A suggello di questa visione infelice dell’amore, rientra un altro elemento centrale
nella lirica e nel costume del tempo, ossia la condizione di assoluta segretezza sulla
quale ogni rapporto amoroso doveva necessariamente poggiare.
A riprova di ciò, ci viene nuovamente in soccorso il lessico utilizzato nelle liriche in
questione.
Infatti, è proprio per rispondere a un’esigenza di segretezza, che la dama non verrà mai
citata esplicitamente, bensì sarà richiamata all’interno del testo attraverso un senhal,
ovvero un epiteto amoroso con il quale solo la diretta interessata sarà in grado di
identificarsi, riconoscendosi come destinataria della poesia.
Sempre riguardo alla prescrizione cortese di celare il rapporto d’amore, colui il quale
avesse rotto il patto di segretezza, rivelando il nome della dama, sarebbe stato definito
come vilans, in quanto traditore di una delle regole basilari della cortezia.
Allo stesso modo, qualsiasi estraneo venuto a conoscenza dell’amore tra due amanti,
che avesse rivelato il rapporto tra i due, sarebbe stato indicato come lauzengier, ossia
il maligno e invidioso pettegolo, bersaglio delle più severe critiche da parte dei
trovatori, così come il gilos, ovvero il marito dell’amata.
Viene così a delinearsi un rapporto d’amore contrastato e difficoltoso che porta il
poeta a vivere il proprio amore nell’anonimato, nella più assoluta segretezza e, quindi,
ad affrontare i propri sentimenti in completa solitudine.
Saranno proprio la distanza e la difficoltà del rapporto tra il poeta-amante e la donna-
amata, che determineranno la rappresentazione del sentimento amoroso come
trascendente e platonico, caratteristica che, in modo estremizzato, diverrà centrale in
autori come Dante e Petrarca.
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Tuttavia, bisogna precisare che i trovatori mantengono una concretezza e fisicità
dell’oggetto del desiderio che negli autori del Trecento è assolutamente sublimata
dalle caratteristiche angeliche della donna amata. Per questa ragione bisogna tenere
presente come non siano da escludere, nella poesia provenzale, rapporti ravvicinati e
fisici tra il poeta e l’amata.
Il termine che più di tutti sembra racchiudere questa dicotomia tra amore trascendente
e desiderio fisico, è joi, che possiamo trovare in situazioni di vario genere con
significati altrettanto diversi.
Possiamo dire che il termine joi è da ricondurre sia al sentimento di chi ama pur
soffrendo, all’esaltazione interiore che porta l’uomo a innalzare il proprio spirito, sia,
in un’accezione più carnale, al desiderio del piacere amoroso.
Per i trovatori l’attività poetica assurge al ruolo di linguaggio atto a esaltare, non solo
il singolo sentimento, bensì l’idea stessa dell’amore.
Il linguaggio poetico è lo strumento attraverso il quale s’indaga e si raggiunge la
conoscenza dell’amore e, quindi, della natura umana.
Al fine di rappresentare quanto appena detto, partiremo dalla canzone Ab la dolchor
del temps novel (5.1) di Guglielmo IX.
Attraverso l’analisi di tale canzone, potremo vedere realizzati nella pratica i concetti di
cui abbiamo appena parlato e ne approfondiremo di nuovi, i quali ci torneranno utili al
fine di comprendere al meglio le tematiche affrontate nei successivi capitoli.
Nella prima stanza il poeta, attraverso una felice descrizione dell’ambiente naturale
che, risvegliandosi durante il periodo primaverile, induce e predispone gli animi
all’amore, pone l’accento sulla sua volontà di trattare ed esaltare il sentimento
amoroso che sente dentro di sé.
L’incipit della canzone, che in questo caso inneggia alla bella stagione, è, come si dice
in termini retorici, un topos, ovvero un luogo comune che troveremo in buona parte
della produzione trobadorica e che costituirà l’argomento del successivo capitolo.
La bellezza e la positività degli elementi naturali, tuttavia, si contrappongono alla
condizione sentimentale del poeta che, nella seconda stanza, esprime la sua incertezza
amorosa, dovuta al contrasto tra il desiderio di voler contattare l’amata, dalla quale
non riceve più notizie, e la paura di farsi avanti.