IV
L’emigrazione italiana nel mondo ha rappresentato uno dei tratti più peculiari e
caratteristici dell’intera storia contemporanea del paese.
Se è vero che molte altre nazioni hanno conosciuto flussi migratori di grande
portata, è difficile trovare altri esempi, come quello italiano, così intensi, così a
lungo distribuiti nel tempo, così variegati per provenienza territoriale e sociale e
così diversificati per i luoghi d’arrivo.
Le radici dell’emigrazione italiana vanno ricercate in un arco di problemi ampio
e con uno spessore storico assai rilevante.
La nostra analisi delle cause dell’emigrazione italiana parte dalla prima metà
dell’Ottocento, cioè da quella fase in cui si decidette della capacità di
adeguamento dell’economia italiana ai ritmi che la rivoluzione industriale
inglese e i nascenti rapporti capitalistici europei imposero ai processi di
modernizzazione.
Questa capacità è stata giudicata estremamente debole, soprattutto per quello
che riguarda il settore agricolo. Infatti la crescita agricola italiana si basò più su
un meccanismo orizzontale di espansione delle superfici coltivate che su un
aumento della produttività, ed in questo contesto molte aree del paese erano
caratterizzate da diffusi fenomeni di pauperismo rurale, vagabondaggio,
espulsione da un ruolo produttivo stabile e riduzione dei consumi elementari a
limiti insopportabili. Per queste ragioni la modernizzazione non riusciva a
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sanare gli elementi più negativi del quadro economico sociale: crisi di
sussistenza, epidemie e successivamente le più moderne malattie da carenza
alimentare, continuavano a ripercuotersi periodicamente sul mondo contadino e
sulle città.
Questo contesto fu poi peggiorato dalla cosiddetta “crisi agraria” degli anni
Settanta. Come tale essa si espresse attraverso un crollo dei prezzi per alcune
delle principali produzioni delle campagne italiane tra cui, in primo luogo, il
grano, dovuto alla cedente domanda internazionale ed al contemporaneo afflusso
in Europa dei grani e delle altre derrate e materie agricole, provenienti dai
“nuovi territori” oltre oceano.
La crisi internazionale agricola, scaturita dal brusco confronto tra due
agricolture a così diversi livelli di produttività, aveva in sé anche un
meccanismo correttivo, i cui passaggi fondamentali furono: la pauperizzazione
dei coltivatori europei “marginali”; la loro emigrazione verso i nuovi territori;
l’aumento della popolazione oltre oceano; l’aumento del consumo interno di
derrate e materie agricole ed infine il riequilibrio dei prezzi e la riduzione delle
esportazioni verso l’Europa.
Nell’Italia Settentrionale, dove il tessuto economico era più articolato, la crescita
della disoccupazione rurale o semirurale era il risultato di un innesto delle
cicliche crisi industriali derivanti dalle latenti difficoltà che permanevano nelle
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attività agricole. Vanno quindi interpretate come ulteriori spinte all’espatrio, la
depressione serica del 1876-77, la crisi generale degli anni 1888-1896 che
respingeva dalle città piemontesi i contadini, fino alla crisi di disoccupazione
industriale e agricola che esplose nel 1912-13 e che diede il via al più grande
“boom emigratorio” della storia italiana.
A questo punto la nostra analisi prosegue attraverso la valutazione delle
condizioni degli emigranti durante il viaggio verso le Americhe.
Lo straordinario impulso che la navigazione transoceanica ricevette durante tutta
la seconda metà dell’ Ottocento e fino alla prima guerra mondiale fu il veicolo
non solo tecnico materiale, ma anche economico, della grande emigrazione
europea verso i nuovi mondi. La navigazione transoceanica partecipò
organicamente, in questa fase, al modello di specializzazione verticale del
commercio internazionale, rendendo possibili combinazioni di fattori e di
mercati molto distanti fra loro, alimentando flussi crescenti di merci e con il
rapido decrescere dei costi di trasporto.
L’ Italia si inserì nelle correnti migratorie intercontinentali quando la rivoluzione
dei trasporti era già matura e quando i noli internazionali cominciarono a toccare
i minimi storici.
VII
L’enorme crescita delle dimensioni delle navi si accompagnò con un
innalzamento del livello della qualità degli arredi e dei servizi di bordo tali che i
saloni e le cabine dei transatlantici dell’inizio Novecento non avevano nulla da
invidiare agli alberghi più sfarzosi. Questi miglioramenti riguardarono in parte
anche gli spazi riservati agli emigranti, che divennero più ampi, meglio ventilati
e dotati di servizi igienici. I transatlantici più grandi e lussuosi offrivano quindi
anche ai passeggeri meno abbienti un trattamento decisamente migliorato
rispetto al passato.
L’organizzazione dello spazio a bordo dei transatlantici mostrava comunque
chiaramente uno spaccato delle differenze sociali dell’epoca. Gli alloggi dei più
poveri erano collocati nella parte più bassa dello scafo, cioè quella più inospitale
e rumorosa, a causa della vicinanza con l’apparato motore, ed inoltre più
soggetta ai movimenti e alle vibrazioni della nave. Nello strato intermedio erano
situate le cabine di seconda classe e sui ponti superiori gli appartamenti di prima
classe destinati alla clientela più facoltosa.
E’ necessario però sottolineare che, anche nel XX secolo, grande parte
dell’esodo migratorio continuava a svolgersi utilizzando navi di non recente
costruzione e quindi di dimensioni più piccole, che viaggiavano a velocità
ridotta e offrivano servizi a dir poco scadenti.
VIII
Gli spazi destinati agli emigranti rimanevano quindi molto ristretti, e le
possibilità di movimento erano ridotte al minimo.
Il ruolo delle società di navigazione non era limitato ad assicurare i servizi
durante la traversata oceanica. Infatti esse disponevano di un’organizzazione
globale, in grado di intervenire non solo nel coordinamento dell’intero viaggio
degli emigranti dai paesi di residenza ai paesi di destinazione, ma anche capace
di suscitare l’intenzione stessa di emigrare, ponendosi così come secondo
fondamentale soggetto ordinatore dell’emigrazione europea.
La leva emigratoria fu sostanzialmente svolta da un apparato economico e
sociale, gli agenti e i sub-agenti, parallelo ad ogni espressione ufficiale ed
istituzionale, che rispose all’esigenza di controllare questa grande mobilitazione
di uomini.
Se per i poveri emigrare era una necessità, i ceti dirigenti considerarono il
fenomeno migratorio un'autentica calamità. I proprietari terrieri, in particolare,
vi vedevano sia il rischio di una diminuzione di manodopera e di una rottura dei
patti colonici, sia il pericolo di un crollo demografico, che avrebbe
conseguentemente aumentato i salari agricoli. In generale si può affermare che a
una più netta opposizione della proprietà terriera meridionale fece da
contrappeso una più favorevole posizione di quella settentrionale, soprattutto del
mondo imprenditoriale più attento ai benefici derivanti dalla libera circolazione
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della popolazione. In effetti furono favorevoli all'emigrazione non solo gli
armatori, per evidenti e diretti interessi economici, ma anche gli industriali
manifatturieri e gli impresari in genere. In alcune circostanze, per esempio,
durante e dopo l'esplosione delle lotte bracciantili seguita alla crisi agraria, gli
stessi agrari, pur avversando l'emigrazione in quanto responsabile dell'aumento
dei salari, videro favorevolmente uno sfoltimento della forza lavoro; infatti
l'emigrazione in quei casi diventava una insostituibile valvola di sfogo
economico ed un mezzo per il controllo sociale.
A partire dal 1888, la grande emigrazione trovò un riconoscimento ufficiale in
una legislazione che allineò l'Italia alle politiche migratorie del resto d' Europa.
La legge riconobbe per la prima volta la libertà di emigrare (e riconosceva agli
agenti e ai subagenti il diritto di reclutare gli emigranti), ma non prevedeva un
intervento diretto delle forze governative per tutelare gli emigranti stessi, con
provvedimenti reali. Negli anni successivi finì per prevalere il fronte unitario di
quanti videro, nell'emigrazione, una valvola di sfogo nei momenti di
conflittualità sociale e uno strumento di miglioramento economico attraverso le
rimesse.
Il termine “rimesse” indica il denaro che gli emigrati all’estero inviavano in
patria. Nella maggior parte dei casi si trattava di una parte del salario o dei
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guadagni ricavati da attività imprenditoriali destinati al sostentamento dei
familiari rimasti in Italia, oppure di piccole somme inviate a lontani parenti o
amici che si trovavano in condizioni economiche disagiate, anche se non erano
poi così rari i casi in cui gli emigrati avevano accumulato cifre di risparmi così
considerevoli da poterle consumare o investire in immobili al ritorno in patria.
L’andamento del flusso delle rimesse fu influenzato da molti elementi tra cui: la
consistenza del movimento degli emigrati, le sue caratteristiche (sesso, età,
professione, etc.), i legami affettivi con i parenti e gli amici rimasti in patria,
l’entità dei guadagni realizzati, la propensione al risparmio, la congiuntura
economica mondiale e infine il cambio delle monete estere con la lira italiana.
I tentativi di trasformare l’emigrazione italiana da elemento passivo (espulsione
di forze di lavoro) a veicolo attivo di sviluppo comparvero fin dall’origine della
vicenda emigratoria.
Il livello raggiunto dalle rimesse dall’estero in Italia fu strettamente legato alla
natura della nostra emigrazione: prevalentemente proletaria, con scarsa
partecipazione dei gruppi familiari, principalmente non definitiva e spesso legata
ad un’azienda agricola familiare non autosufficiente, per la quale il risparmio
“esterno” era essenziale. Tutto ciò spiega l’eccezionale afflusso di rimesse
quando, tra gli anni ’90 e la prima guerra mondiale, l’emigrazione italiana
raggiungerà i suoi livelli massimi.
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Questo imponente volume attivo di rimesse aveva scarsissime contropartite
negative nei conti economici dell’Italia.
Infatti l’emigrazione transoceanica non alimentò i noli passivi, dato che la
bandiera italiana riuscì a raggiungere una posizione di primo piano nel trasporto
oceanico degli emigranti e che una quota rilevante delle spese di trasporto
provenne dall’estero, attraverso anticipi, sovvenzioni e soprattutto i noti
“prepayed tickets” inviati in Italia da amici e parenti già espatriati.
Inoltre questa massiccia emigrazione costava ben poco al bilancio dello Stato in
termini di strutture amministrative e assistenza; infatti quel poco che si fece
gravava quasi esclusivamente sul “Fondo emigrazione” che era alimentato da un
prelievo sul costo del biglietto e quindi, praticamente, dagli emigranti stessi.
La seconda parte della trattazione si propone di descrivere le caratteristiche
specifiche del fenomeno migratorio in due circondari, il Biellese ed il
Chiavarese, attraverso l’analisi di alcuni volumi specifici riguardanti,
evidentemente, le zone prese in considerazione.
L’interesse di condurre una ricerca sull’emigrazione di queste aree nasce dal
fatto che tali province hanno contribuito in maniera sostanziale al fenomeno,
benché, per cifre emigratorie, non possano essere paragonate alle regioni
meridionali, alla Lombardia o al Veneto.
XII
L’ Italia Settentrionale era caratterizzata dal modello alpino di emigrazione delle
famiglie contadine delle Alpi e delle Prealpi e questa emigrazione era il frutto di
strategie “imprenditoriali” di incremento delle prospettiva di guadagno.
Lo spostamento non costituiva la reazione passiva ed inevitabile di una
popolazione povera ed ignorante o la risposta ad una crisi demografica o
economica ma, al contrario, si trattava di una vera e propria strategia resa
possibile dai ritmi del lavoro agricolo, nella quale i proventi del lavoro lontano
da casa (cioè “le rimesse”) costituivano la voce principale dei bilanci familiari.
In queste migrazioni prevaleva l’opzione del ritorno, in quanto l’emigrante
partecipava direttamente all’economia del luogo di provenienza, era infatti
proprio per assicurare alla sua famiglia (e poi a lui stesso) una migliore
condizione di vita, che aveva scelto di partire. Già intorno al 1890, dalle
campagne di molte province settentrionali era particolarmente consistente il
fenomeno emigratorio, al contrario della maggior parte delle province
meridionali dove non cominciò che nel Novecento, proprio quando il flusso
emigratorio settentrionale cominciava a stabilizzarsi.
Cresciuto notevolmente a partire dalla fine dell’Ottocento, per il maggior
numero di espatri o per la partecipazione sia di nuove figure professionali che
dell’elemento femminile, il movimento migratorio fu sicuramente il risultato, e
talvolta una delle cause, del progressivo sfaldamento della vecchia economia
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autarchica del Biellese, ma fornì allo stesso tempo delle compensazioni e delle
nuove occasioni di reddito e di lavoro, che impedirono la totale disgregazione
delle comunità locali.
Sta di fatto che nel Biellese l’emigrazione non servì soltanto da antidoto alla
decadenza del circondario, ma fornì un apporto non trascurabile alla
mobilitazione finanziaria, all’espansione di nuove energie e forze produttive e
ad una redistribuzione della ricchezza.
Inoltre mentre da un lato attutì gli sconvolgimenti provocati dal progressivo
esaurimento dei tradizionali equilibri di sussistenza o dalla crescita del sistema
di fabbrica, essa concorse, dall’altro lato, ad imprimere nuovi elementi di vitalità
e dinamismo e a rendere più aperta e flessibile la configurazione della società
locale.
Per quanto riguarda Chiavari e il suo circondario, è probabilmente tra le prime
aree liguri dalla quale si manifestarono notevoli fenomeni emigratori verso
l’esterno e l’emigrazione chiavarese è da sempre stata particolarmente variegata.
Infatti, tale caratteristica ha origini storiche, risalenti alla prima metà del
Ottocento quando sui gruppi di marittimi che si stabilivano oltre oceano, si
innestarono commercianti, artigiani ed individui che svolgevano i più vari
mestieri.
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Successivamente il fenomeno si è esteso ai contadini della periferia rurale e
delle valli interne; in particolare per questi ultimi, Chiavari divenne un vero e
proprio centro di smistamento, con attività che potevano riguardare il controllo
dei passaporti, l’imbarco o l’avvio a Genova per l’imbarco.
Il fenomeno migratorio nel Chiavarese è stato analizzato sia per la sua entità,
tale che si può dire che non ci sia oggi famiglia di antichi chiavaresi che non
abbia legami con le Americhe, sia per le conseguenze sullo sviluppo economico
di Chiavari.
Infatti nonostante la maggior parte degli emigranti fossero contadini non si
verificò mai l’abbandono delle terre e delle coltivazioni, che furono curate da
parenti e amici. Nelle fonti locali il legame tra il Chiavarese e gli emigranti si
deduce dall’orgoglio per le piccole e grandi affermazioni dei singoli, mentre in
alcuni testi a livello nazionale quello stesso legame è inserito in un’ottica più
ampia e l’emigrazione si configura come un fenomeno connaturato alla regione,
poiché scaturisce dalla sua conformazione geografica, dalle forze profonde che
hanno plasmato la sua storia e dal carattere degli abitanti..
In conclusione si può affermare che per i genovesi e per i liguri quella
dell’emigrante era un’occupazione come un’altra, un mestiere che presentava
maggiori rischi e disagi ma che offriva anche possibilità di guadagno.