compreso la diversità che intercorre tra l’aver affrontato il rischio di un’attività
commerciale, con esito negativo, e l’aver invece affrontato il rischio di provocare danni
ingiusti ad altri soggetti, attraverso condotte di reato, sempre con esito negativo, proprio
questi soggetti scorgono invece nel fallimento un indice, a posteriori, dell’implicita
colpevolezza del soggetto.
Questo atteggiamento è probabilmente il retaggio di una cultura giuridica antica, che
affonda le sue radici nel diritto romano, e che ha sempre concepito come normale, almeno
fino all’epoca moderna, l’equiparazione tra fallimento e reato.
Ripercorrendo molto brevemente le fasi storiche attraverso le quali si è venuta
formando la disciplina penale del fallimento, meritano di essere in primo luogo ricordate le
disposizioni penali romane per la difesa del credito, contenute nelle XII Tavole, che
prevedevano pene particolarmente severe nei confronti dell’insolvenza fraudolenta
(mantenendo invece per il debitore di buona fede un trattamento molto più mite). Ma è
soprattutto con lo sviluppo dei traffici commerciali durante il Medioevo che si afferma in
maniera concreta il bisogno di tutelare il credito: la necessità di una disciplina positiva era
avvertita anche al fine di evitare le forme di giustizia sommaria attraverso le quali i
creditori riuscivano a far valere le proprie ragioni (consistenti nella cattura e, in certi casi,
nell’uccisione, perfino, del debitore).
La particolarità delle prime discipline a tutela del credito sta nel fatto che il concetto
base attraverso il quale si interpretava la bancarotta era quello del furto: il concetto, forse
un po’ tortuoso, era quello per cui, durante la fase acuta del dissesto, i beni del debitore,
benché regolarmente pagati, benché entrati dunque nel suo patrimonio, nonché i proventi
delle sue vendite, i ricavi, dovessero essere considerati come proprietà dei creditori; e
questo perché, appunto in fase di insolvenza, i beni e il denaro nelle casse del
commerciante debitore dovevano essere considerati vincolati al soddisfacimento dei
creditori, per la fase (imminente) del dissesto vero e proprio. Tutto nasce, naturalmente, dal
fatto che il fallimento era considerato come reato, in sé, in quanto sintomatico di una
volontà di frode nei confronti dei creditori stessi.
Da qui partono tutte quelle concezioni della bancarotta che vedono il fallimento
come evento del reato, ancora oggi: si presume insomma che la consapevolezza della
situazione di dissesto o di crisi dell’impresa implicitamente indichi un intento di frode ai
danni dei creditori, insito nella prosecuzione dell’attività d’impresa. Le prime frodi a danno
dei creditori concepite dalla legislazione medievale sono quelle documentali: meglio,
elementi di fatto rivelatori della frode erano anche la mancanza o la distruzione di scritture
contabili. Solo successivamente si comincia a vedere un indice non tanto della frode
quanto dell’incapacità imprenditoriale del debitore anche in comportamenti di
dissipazione e dilapidazione del patrimonio. E’ evidente come l’obiettivo venisse messo a
fuoco proprio sugli elementi indizianti, dai quali era possibile argomentare l’esistenza di
un intento fraudolento ai danni dei creditori o di una incapacità-colpa imprenditoriale.
Viene pertanto predisposta una legislazione basata sul metodo casistico, nella quale
gli indizi probanti il dolo o la colpa vengono minuziosamente descritti: sistema casistico
che si rinviene in parte anche nell’attuale legge fallimentare.
1
Bancarotta elaborata partendo dunque dal concetto romanistico di furto, per di più
nel quadro di una situazione patrimoniale dissestata: ecco spiegata la tendenza ad
equiparare i due concetti, fallimento e bancarotta. La bancarotta viene tuttora concepita
come un reato contro l’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia
patrimoniale per debiti, in collegamento con la disposizione civilistica di cui all’articolo
2740 cod. civ., che viene realizzato dall’imprenditore attraverso una pluralità di condotte
descritte dal legislatore e realizzate materialmente sul proprio patrimonio o sulle scritture
contabili. Le fattispecie si sono poi arricchite di altre ipotesi, come quella per esempio
comunemente denominata bancarotta preferenziale, volta a ledere l’interesse creditorio
sotto un altro aspetto (l’interesse alla par condicio), o come le ipotesi, specifiche per i casi
di c.d. bancarotta societaria, di commissione di reati societari ai danni del patrimonio della
società seguiti dal fallimento della stessa.
Ma la distinzione tra fallimento e reato (salvo quanto si dirà in seguito in merito alle
ipotesi previste in maniera specifica per la sola bancarotta c.d. societaria) è oggi netta:
fallire non significa commettere reato. D’altro canto, e dal punto di vista dei creditori,
investire in attività commerciali, caratterizzate appunto dal rischio d’impresa, comporta di
per sé un certo margine di probabilità di insuccesso; il reato, allora, si verifica quando il
danno subito non sia da attribuire alla normale alea che caratterizza questo tipo di attività,
al normale alternarsi di fasi positive e fasi negative in un’attività d’impresa, quanto
piuttosto ad azioni (od omissioni) intenzionalmente dirette a provocare una lesione della
garanzia creditoria, posta in essere dal fallito o dagli organi titolari del potere di gestione e
controllo della società.
1
Per questa ricostruzione, si veda più nel dettaglio, CONTI, voce “Fallimento – Reati in materia di”, in
Novissimo Digesto Italiano, IV ed. Torino 1997
2. Terminologia: bancarotta impropria o societaria?
Le norme da esaminare ai fini del presente lavoro sono contenute negli articoli 223 e
224 legge fall., i primi del capo dedicato ai reati commessi da persone diverse dal fallito:
queste disposizioni, con una tecnica normativa frequentemente utilizzata dal legislatore ma
sicuramente criticabile, richiamano, fra gli altri, gli articoli 216 e 217, contenuti nel
precedente capo dedicato ai reati commessi dal fallito, con il risultato di estendere anche ai
soggetti titolari di cariche societarie (amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori
di società dichiarate fallite) le previsioni pensate per l’imprenditore individuale.
Quest’estensione naturalmente causa non pochi problemi interpretativi, dal punto di vista
della necessità di adattamento di condotte materiali che sono state previste tenendo
presente il singolo, l’imprenditore, titolare del patrimonio con il quale realizza l’attività
d’impresa, a soggetti che invece non rivestono tale qualifica, che gestiscono il patrimonio
dell’imprenditore – ente; stretti tra il dovere salvaguardare l’interesse sociale da un lato e la
necessità di tutelare il diritto dei creditori alla conservazione della garanzia patrimoniale
costituita dal patrimonio della società, ecco che le commissioni e le omissioni di
amministratori, sindaci e direttori generali “[…] hanno una doppia faccia: una rivolta
verso il debitore e una rivolta verso il creditore”
2
.
Dal punto di vista della terminologia, è chiaro che la dizione più estesa, pur non
essendo stringata, è certamente la più chiara: la bancarotta degli amministratori, direttori
generali, sindaci e liquidatori individua in maniera inequivocabile il reato di cui si
tratta;d’altro canto almeno due sono le definizioni alternative che sono state utilizzate dalla
dottrina e dalla giurisprudenza: non v’è differenza tra “bancarotta impropria” e “bancarotta
societaria”.
Probabilmente la locuzione “bancarotta impropria” risulta più idonea ad anticipare in
qualche modo i problemi che l’interprete andrà a riscontrare in sede di analisi della norma:
“improprio” di per sé da’ immediatamente l’idea di un’estensione operata verso un oggetto
non omogeneo rispetto al primo; d’altro canto “bancarotta societaria” ha il pregio di
marcare lo stacco tra la prima figura di reato, la bancarotta del fallito, e questa seconda
fattispecie, la bancarotta degli organi societari, figura nella quale è dato rinvenire, peraltro,
non solamente un’estensione delle ipotesi già previste in relazione all’imprenditore
individuale, ma anche reati autonomi, rapportabili unicamente alla diversa realtà
dell’esercizio in forma collettiva dell’impresa: mi riferisco, naturalmente, alla bancarotta
configurata mediante la commissione dei reati societari richiamati dal 223, o alla
causazione dolosa del fallimento di cui al n.2 dello stesso articolo.
Bancarotta societaria, dunque, è il termine a cui si farà prevalente riferimento nel
presente lavoro: non mancheranno peraltro richiami alla prima locuzione, quella di
bancarotta impropria, specialmente quando si vorrà richiamare l’attenzione sulle difficoltà
a cui danno luogo gli articoli 223 e 224, quando estendono i reati del fallito ai titolari di
cariche societarie.
2
NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento, Milano, 1955, pag.393.
3. Ambito della trattazione ed evidenziazione delle difficoltà riscontrate.
Il presente lavoro mira ad analizzare il criterio d’imputazione soggettiva previsto
nelle varie ipotesi delineate negli articoli 223 e 224 legge fall.: originariamente pensati dai
compilatori della legge fallimentare in funzione della suddivisione tra bancarotta
fraudolenta e bancarotta semplice, dolo e colpa attualmente non consentono di graduare i
delitti di cui si tratta in funzione dell’ “intensità”, diciamo così, della lesione (colposa
quando semplice e dolosa quando fraudolenta); si dovrà pertanto procedere ad un’esegesi
attenta delle singole fattispecie, con un’attenzione particolare nell’individuazione della
colpa, essendo l’inserimento di questo criterio d’imputazione soggettiva circoscritto,
secondo quanto affermato nello stesso articolo 43 cod. pen., alle sole ipotesi in cui venga
espressamente richiamato dal legislatore.
Le opinioni della dottrina esaminata si sono rivelate peraltro estremamente
disomogenee tra loro, non consentendo dunque di procedere ad una rassegna unitaria delle
soluzioni proposte: dal lato pratico, questa frammentarietà delle posizioni rivenute nel
panorama dottrinale non agevola di certo il compito dei giudici; da questo punto di vista
occorre dire che le sentenze si caratterizzano per una certa costanza nelle soluzioni
proposte, senza comunque che sia possibile affermarne la correttezza. Verranno in
particolare esaminate sentenze nelle quali il problema dell’individuazione del coefficiente
psicologico che ha sostenuto l’azione dell’imputato viene affrontato con un certo
apriorismo, concentrandosi prevalentemente su esigenze di prevenzione generale e
passando in secondo piano la questione dell’accertamento “reale” dell’elemento
soggettivo, riducendolo a formule di dubbia correttezza (è diventata famosa la locuzione
“non poteva non sapere” in riferimento alla presunzione di conoscenza che discenderebbe
dal ricoprire determinate posizioni di garanzia all’interno dell’impresa).
Si è cercato insomma di porsi davanti al problema (la delineazione delle
caratteristiche dell’elemento soggettivo nei reati di bancarotta societaria) in maniera
critica, aderendo a volte anche a soluzioni “minoritarie” in dottrina, giudicate, però
maggiormente fondate rispetto ad altre; si sono riportati i passi di alcune sentenze
soprattutto per mostrarne l’incoerenza con i principi basilari che animano il nostro diritto
penale. In questo panorama il nuovo progetto di riforma dell’intera legge fallimentare (si
veda l’estratto riportato in Appendice, documento n.4) si pone con l’intento di
razionalizzare la situazione e di prospettare nuove univoche soluzioni in grado di facilitare
l’opera degli interpreti: ad una brevissima analisi di questo D.d.l. sarà dedicata l’ultima
parte del lavoro.
PARTE II
CAPITOLO UNICO
PRESUPPOSTI SOGGETTIVI:
INDIVIDUAZIONE DEI SOGGETTI ATTIVI
DEI REATI DI BANCAROTTA SOCIETARIA.
SOMMARIO:
1. Premessa: il problema dell’individuazione dei soggetti responsabili nel diritto penale
dell’impresa; struttura e requisiti del sistema di sanzioni penali nell’ambito del diritto
d’impresa. 2. Struttura della norma: valore delle qualifiche extrapenali richiamate dalla
norma penale che configura il reato proprio. 3. I destinatari dei precetti penali di cui agli
articoli 223 e 224 della legge fallimentare: amministratori, direttori generali, sindaci e
liquidatori di società dichiarate fallite. Gli amministratori di fatto e i direttori generali
nella dottrina e nella giurisprudenza. 4. La consapevolezza delle qualifiche penali
ricoperte: rilevanza dell’errore ex articolo 47 cod. pen. e sua incidenza sulla
configurabilità del dolo.
1. Premessa: il problema dell’individuazione dei soggetti responsabili nel diritto
penale dell’impresa; struttura e requisiti del sistema di sanzioni penali nell’ambito
del diritto d’impresa.
Nel diritto penale dell’impresa, e dell’economia più in generale, la problematicità
nell’individuazione dei soggetti penalmente responsabili per la violazione dei doveri e per
la realizzazione delle condotte contemplate da precetti normativi penalmente sanzionati,
deriva in buona parte dal fatto che quasi tutti gli illeciti che rientrano in questo settore del
diritto penale sono reati propri, che impongono o vietano determinate condotte a soggetti
portatori di una qualifica soggettiva di solito definita da altri settori del diritto. Ai fini
dell’individuazione delle definizioni legislative dei soggetti richiamati dagli articoli 223 e
224 della legge fallimentare, il settore del diritto che interessa più da vicino è il diritto
civile, e, nello specifico, le disposizioni contenute nella sezione VI, titolo V, libro V del
cod. civ., dedicato, in particolare, agli organi sociali delle società per azioni, ma in generale
applicabile a tutte le società di capitali.
La questione si ripropone anche per i reati comuni di tipo omissivo, reati che
reprimono appunto l’omissione, cioè l’inadempimento di precetti giuridici, penali e non, i
quali pongono a carico del destinatario obblighi più o meno generici, come può essere
quello di attuazione di misure cautelari a protezione del bene giuridico tutelato o, più in
generale, quello di vigilare sulla sua integrità: in definitiva., norme che pongono al
destinatario l’obbligo di attivarsi per impedire che si verifichino eventi lesivi del bene
giuridico protetto dalla stessa norma penale.
Dunque: nel reato proprio, categoria generale nella quale vanno ricomprese tutte
quelle norme penali che non si rivolgono al generico “chiunque” ma che individuano di
volta in volta come unico possibile destinatario (e responsabile) solamente un soggetto,
qualificato dal possesso di una particolare qualità o posizione o condizione personale,
definita, a sua volta, da norme extrapenali; nel reato comune di tipo omissivo, categoria
anche questa generale, ricollegabile alla disposizione di cui all’articolo. 40 cpv. del cod.
pen. che fonda la responsabilità penale per omissione di quei soggetti i quali, seppur non
indicati esplicitamente dal legislatore, sono gravati da un obbligo giuridico di attivarsi per
impedire l’evento dannoso; in entrambe queste tipologie di reato la ragione di una tale
struttura della norma penale è da ricercare nell’esistenza di un collegamento tra il soggetto
attivo ivi individuato e il bene giuridico; per cui il destinatario della norma è anche il
soggetto che si trova nella posizione “ideale” per offendere e ledere il bene penalmente
tutelato.
3
L’imprenditore, l’amministratore, il datore di lavoro, ecc., sono, in ragione della
loro signoria sui fattori di rischio potenzialmente lesivi degli interessi coinvolti nella loro
attività, i soggetti considerati dal legislatore, sui quali si appuntano le successive indagini
per l’attribuzione della responsabilità penale, riguardanti, ovviamente, l’analisi degli
ulteriori elementi attinenti alla colpevolezza, al nesso causale, ecc.
Da quanto detto è chiaro che uno dei nodi centrali del diritto penale dell’impresa è
quello riguardante la riferibilità del precetto penale a quel soggetto che agisce, che ha
agito, e la conseguente sua assoggettabilità alla pena prevista per quel determinato reato.
Nel processo di ricostruzione del reato nel suo aspetto materiale e soggettivo, questo
problema si situa in un momento anteriore a quello dell’indagine sull’elemento soggettivo,
sulla volontà colpevole: da qui poi partono le analisi sull’elemento psicologico ai fini
dell’accertamento della colpevolezza. Solo il soggetto qualificato come “intraneo” è in
grado di commettere il reato in via “primaria”, nel senso che solo la sua azione è valutabile
alla stregua della norma penale che configura un reato proprio: la condotta di altri soggetti
potrà essere valutata secondo le norme generali sul concorso
di persone; e solo il soggetto che si trova in una posizione di garanzia nei confronti
del bene protetto dalla norma penale è in grado di commettere il reato, nel senso che egli
solo, in considerazione della sua attività o della qualifica rivestita (in questo caso
all’interno dell’organizzazione dell’impresa) è gravato da un obbligo giuridico di attivarsi
per impedire il verificarsi di eventi dannosi a carico del bene penalmente tutelato.
Nell’ambito dell’impresa esercitata in forma societaria, il problema dei soggetti
acquista una rilevanza ancor più marcata: in generale si è assistito nel tempo ad un
processo di spersonalizzazione dell’attività imprenditoriale, e ciò è riscontrabile soprattutto
3
PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale) in Dig. Pen., VI, Torino 1992.
quando si parla di esercizio in forma collettiva dell’impresa. L’impresa è organizzazione
per definizione, come ci dice l’articolo 2082 cod. civ.: l’imprenditore è appunto quel
soggetto che esercita professionalmente un’attività economica organizzata ecc.;
l’imprenditore è il principio ordinatore che coordina i fattori produttivi, e l’impresa è
attività economica che si svolge per mezzo di un organismo economico, di
un’organizzazione.
Lo statuto dell’imprenditore, che individua i doveri e gli obblighi di questo soggetto,
si completa poi di tutte quelle norme penali che ne sanzionano sistematicamente
l’inadempimento e l’inosservanza. Così, in questa prospettiva, possiamo dire che il diritto
penale dell’impresa ha una funzione prettamente sanzionatoria rispetto alla disciplina
civilistica e allo statuto dell’imprenditore
4
: la ratio di ognuna delle incriminazioni
contenute nella legge fallimentare o nelle disposizioni penali degli articoli 2621 e ss. cod.
civ., è da ricercare nell’importanza della funzione imprenditoriale nel nostro sistema.
L’imprenditore sia individuale che societario coinvolge, nel mentre dell’esercizio
dell’attività d’impresa, moltissimi interessi facenti capo ad altrettanti soggetti: pensiamo a
tutti i creditori, dagli stessi lavoratori dipendenti ai fornitori; pensiamo a tutti i soggetti
comunque collegati ad ogni attività d’impresa, l’uno all’altro, in modo da formare una rete
di rapporti giuridici strettamente dipendenti gli uni dagli altri. E’ chiaro che il rispetto dei
doveri di correttezza in generale, di conservazione del patrimonio, di trasparenza, ecc.,
acquista un’importanza primaria non solo per gli interessi di ognuno di questi soggetti, ma
per il sistema economico sociale intero. Questo sistema di sanzioni penali, che si collega,
completandolo, allo statuto dell’imprenditore commerciale, necessita di qualche
accorgimento, proprio al fine di renderlo prima di tutto compatibile con i principi
4
PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. Soc. 1962
costituzionali alla base del nostro sistema penale (art. 27 Cost.), e, inoltre, efficace e
concretamente applicabile, soprattutto nel caso in cui a rivestire la qualifica di
imprenditore commerciale sia una persona giuridica. Il problema è duplice: da un lato
l’esigenza di individuare sempre persone fisiche come destinatarie della disciplina penale;
dall’altro la necessità che la sanzione penale sia applicata a chi effettivamente ha agito
(chiaramente con il coefficiente psicologico previsto dalla legge), a chi cioè effettivamente
guida l’impresa ed è in grado di controllare le fonti di rischio per i beni protetti dalle norme
penali.
5
Si potrebbe approfondire, la questione affrontando il tema della responsabilità
penale delle persone giuridiche, tema racchiuso nel brocardo “societas delinquere non
potest”; ma, considerata l’ampiezza dell’argomento, nonché l’attinenza solo marginale con
il filo logico che guida il presente lavoro, si rimanda alle numerose e interessanti trattazioni
rinvenibili nella più recente dottrina.
6
Risulta evidente, quindi, quanto sia importante affrontare alcune questioni
preliminari attinenti alla corretta individuazione dei soggetti attivi delle condotte di
bancarotta di cui agli articoli 223 e 224 legge fall. prima di procedere nell’analisi
dell’elemento soggettivo delle stesse, argomento principale di questo lavoro. Mi riferisco,
più precisamente, al problema delle qualifiche extrapenali richiamate dalle norme
incriminatici che configurano un reato proprio, in generale e, soprattutto, nel caso specifico
di cui all’art. 223:; mi riferisco, ancora, all’ulteriore problema, strettamente collegato al
primo, concernente il valore da attribuire, dal punto di vista della qualificazione della
responsabilità penale, all’esercizio irregolare (o “di fatto”) di funzioni amministrative; mi
5
PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, cit.
6
A questo proposito si vedano: MARRA G., Note a margine dell’art.6 ddl. N.3915-s contenente una “delega
al Governo per la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche”, in Ind. Pen. 2000; ALESSANDRI,
Reati d’impresa e modelli sanzionatori, Milano, 1984; MANNA, La responsabilità delle personalità
giuridica: il problema delle sanzioni, in Riv.Trim.Dir.Pen.Econ. 1999.
riferisco, da ultimo, al fenomeno della delega di funzioni amministrative e ai suoi effetti
sul piano del trasferimento della responsabilità penale dal soggetto originariamente
responsabile al soggetto delegato, fenomeno che assume connotazioni diverse a seconda
che delegato sia il comitato esecutivo (o l’amministratore delegato), ai sensi dell’articolo
2381 cod. civ., il direttore generale ai sensi dell’art. 2396 cod. civ., o, infine, il dipendente
o altro soggetto non rientrante nella cerchia dei soggetti contemplati dalla norma
incriminatrice.
2. Struttura della norma: valore delle qualifiche extrapenali richiamate dalla
norma penale che configura il reato proprio.
Per focalizzare la questione fondamentale in tema di soggetti attivi del reato di
bancarotta societaria fraudolenta e semplice, è necessario domandarsi quale debba essere il
significato, dal punto di vista della responsabilità penale, del richiamo operato dall’articolo
223 alle qualifiche di amministratore, direttore generale, sindaco e liquidatore di società
dichiarata fallita.
La categoria dottrinale (perché pur sempre di una costruzione dottrinale si tratta) del
reato proprio non è omogenea: le tecniche legislative utilizzate per l’individuazione dei
soggetti attivi delle condotte penalmente rilevanti, non sono sempre univoche e chiare. E’
difficile dare un quadro sistematico della questione, ma diciamo che la struttura della
norma penale si adegua, per così dire, al settore e alla materia nelle quali viene inserita.
Così, le norme che compongono l’apparato sanzionatorio della parte dello statuto
dell’imprenditore dedicata al suo dovere tutelare l’integrità personale dei lavoratori e di
assicurare l’igiene del lavoro (articolo 2087 cod.civ.), sono strutturate in modo da
individuare funzionalmente quello che è, appunto, il datore di lavoro nell’impresa,
l’imprenditore. Così si trovano norme di legge che fanno riferimento al datore di lavoro in
via almeno apparentemente esclusiva; altre che indicano, disgiuntamente rispetto al datore
di lavoro, soggetti diversi, ausiliari e collaboratori, designandoli come “rappresentanti,
preposti, incaricati”; altre ancora che designano quale soggetto attivo del reato il generico
“chiunque”, spesso addirittura omettendo tale locuzione e parlando ancor più
impersonalmente di “contravvenzione, trasgressione, inosservanza” della disposizione
penalmente sanzionata. Quando, appunto, come in questi casi, la norma penale definisce
compiutamente le condotte ma evita di delimitare precisamente la cerchia dei soggetti
attivi, rinviando genericamente alla legge civile
7
, allora c’è spazio per interpretazioni
diverse, che considerano la questione da un punto di vista di tipo giuridico formale
piuttosto che concreto funzionale, che si basano sull’inderogabilità del dato normativo che
compone le qualificazioni formali stabilite dalle norme extrapenali
8
o piuttosto che fanno
leva sull’effettività dello svolgimento delle funzioni contemplate; si resterebbe comunque
sempre nell’area descritta dalla norma penale, nel pieno rispetto quindi del principio di
tassatività.
7
PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, cit., pag 246.
8
Per l’approccio giuridico formale della questione, sviluppato soprattutto ai fini dello studio degli effetti
della delega di funzioni penalmente rilevanti nel settore dell’igiene e sicurezza del lavoro, si vedano
PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale dell’impresa, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ. 1988;
PULITANÒ, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv.
Giur. Lav.1982 nonché in Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale) in Dig. Pen. 6°, Torino 1992;
PADOVANI, Diritto penale del lavoro – profili generali, 1983. Per l’opposta prospettiva funzionalistica, si
veda soprattutto FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze 1985, ma
anche, in prospettiva più generale, ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale, Milano 1995., CONTI L., Diritto
penale commerciale, I Reati fallimentari, Torino 1991., LA MONICA M., Diritto penale commerciale, Ipsoa
1989.