Introduzione
In meno di due decenni i paesi dell'Europa dell'Est hanno vissuto un cambiamento
epocale. I regimi filo-sovietici sono crollati uno dopo l'altro, in un periodo che
ormai identifichiamo con la data simbolo 1989; due anni dopo si è conclusa la
parabola di uno stato che ha attraversato da protagonista tutti i momenti più
drammatici, tragici ed entusiasmanti del secolo appena trascorso: l'Unione
Sovietica. Tra il 2004 e il 2007 dieci di questi paesi hanno definitivamente
archiviato il loro processo di transizione e consolidamento entrando a tutti gli effetti
nell'Unione Europea.
Hanno raggiunto, secondo tutti gli osservatori, traguardi democratici in molti casi
inaspettati: alcuni di essi erano governati da decenni con pugno di ferro, erano gli
alleati più fedeli di Mosca o addirittura costituivano parte della stessa Unione
Sovietica. Da parte sua l'UE, dopo questo allargamento, ha raggiunto la dimensione
inedita di 27 membri e 475 milioni di abitanti, espandendosi in un'area che le era
“proibita” fino a pochi anni fa.
In che modo l'Unione Europea è riuscita ad attrarre a sé paesi di nuova
democratizzazione che da mezzo secolo avevano solo rapporti precari, instabili e di
breve durata con la parte occidentale del continente? Perché questi paesi hanno
accettato di adottare il programma di riforme richiesto da Bruxelles come
condizione d'ingresso nell'Unione Europea? Quali fattori spiegano il diverso grado
con cui negli anni i paesi candidati hanno soddisfatto le condizioni richieste?
Il presente lavoro di ricerca vuole offrire una risposta a questi interrogativi. Nel
primo capitolo sarà descritta la strategia elaborata dall'Unione Europea per
influenzare i processi di democratizzazione in atto nei paesi candidati
1
, sarà
analizzata dal punto di vista teorico, politico e temporale, e infine saranno
individuati i fattori e le variabili che ne hanno determinato l'efficacia o l'inefficacia.
1
Per questo rimarranno al di fuori del lavoro di ricerca Cipro e Malta, che pure fanno parte del
gruppo che entra nell'Unione Europea il 1 maggio 2004, ma che non sono stati retti da regimi
comunisti.
Nel fare questo seguiremo il filone teorico [Pridham 1994; 2000 - Schmitter 1996 -
Whitehead 1996; 2001 - Fossati 2004] che attribuisce all'UE il valore di variabile
concorrente, insieme a quelle interne, nel processo di democratizzazione, nella
convinzione che l'interazione tra questi fattori conduca a risultati differenti da un
caso all'altro, secondo il comportamento delle variabili.
Rifiuteremo quindi una serie di approcci teorici alternativi alla teoria istituzionalista
che invece adottiamo per spiegare il comportamento dei governi. La teoria realista,
secondo la quale la condizionalità politica ha avuto successo grazie alla capacità di
coercizione esercitata dall'Unione Europea: in tal caso gli stati più deboli avrebbero
dovuto obbedire più velocemente alle richieste di Bruxelles, ma la realtà dimostra il
contrario (alcuni degli stati candidati economicamente e politicamente forti, come la
Polonia, hanno deciso di adottare unilateralmente le 80.000 pagine dell'acquis).
La teoria geografica, che indica nella vicinanza ai confini dell'UE il fattore decisivo
del successo delle riforme: sia per la difficoltà di verificarla (si misura in km o in
paesi da attraversare), sia per alcune incongruenze (la Turchia e la Croazia
praticamente confinano col territorio dell'Unione, ma i loro risultati sono peggiori di
quelli della Slovacchia o della Lituania).
La teoria economica, secondo la quale l'efficacia della condizionalità è funzione
delle condizioni economiche in cui i paesi candidati si trovavano nel 1989. Ma gli
stati più prosperi non sono stati quelli che hanno fatto più progressi nel
soddisfacimento delle richieste [Vachudova 2005].
La teoria della prospettiva di membership, che sostiene che l'UE si rivolge con più
attenzione e più risorse verso gli stati (come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca)
che come membri sarebbero più appetibili, per i loro mercati in espansione e per il
buon livello di democratizzazione iniziale; consapevoli di ciò, i governi di questi
paesi si impegnerebbero di più nel processo riformatore, mentre stati come Bulgaria
e Romania lo trascurerebbero perché consapevoli di non essere interessanti agli
occhi di Bruxelles. L'impegno profuso dalle istituzioni europee nella mobilitazione
della società civile (si pensi ai casi slovacco e bulgaro) dei paesi a rischio di svolta
autoritaria, l'immediata riapertura di credito diplomatico una volta caduti i governi
non democratici, e l'ostinazione della Commissione nel rapportarsi con i candidati
attraverso i medesimi strumenti e le stesse ricompense, smentiscono in pratica
anche questa teoria.
Nel secondo capitolo sarà illustrata dettagliatamente la strategia di influenza e di
pressione che l'Unione Europea ha condotto sulle variabili intervenienti e ne
saranno elencati e descritti i principi e gli strumenti; attraverso diversi esempi
pratici si sarà infine in grado di definire le cause che determinano i risultati nel
tempo della strategia europea della condizionalità.
Il terzo e il quarto capitolo saranno dedicati all'analisi dei casi dell'Ungheria e della
Bulgaria in relazione ai fattori che determinano l'efficacia della condizionalità, nel
periodo che va dalla stesura del Partenariato di Adesione alla chiusura dei negoziati
con l'Unione Europea. Esamineremo i comportamenti assunti dai diversi governi
rispetto alle singole priorità democratiche stabilite da Bruxelles (che analizzeremo
una a una) e si stabilirà il peso e l'orientamento assunto dalla società civile.
Mediante un approccio comparato sia a livello dei due paesi che dei differenti
periodi del loro negoziato con l'UE, saranno quindi provate le ipotesi di tesi.
La scelta dei due casi di studio è caduta su Ungheria e Bulgaria per la loro diversità
storica, politica, economica e sociale, che consideriamo un valore aggiunto al fine
di dimostrare la validità della tesi. Le differenze tra questi due ex componenti del
blocco sovietico infatti non si contano, a partire dal percorso storico che vuole l'una
sottoposta al dominio asburgico, e l'altra a quello ottomano; l'una a maggioranza
cattolica e l'altra ortodossa e slava; l'una più integrata al sistema economico
dell'Europa occidentale (un'eredità che non sarà completamente cancellata
nemmeno durante il comunismo) e l'altra tradizionalmente ancorata a Mosca; l'una
con una forte comunità nazionale sparsa nei paesi vicini e l'altra con una consistente
minoranza interna; l'una tendente alla contestazione del regime e l'altra al consenso.
Il giudizio sull’efficacia della condizionalità politica, avrà come variabile
indipendente quella dei Partenariati di Adesione e dei Regular Reports. Questi
documenti esprimono diretta congruenza e consequenzialità coi principi espressi a
Copenaghen, che della condizionalità politica dell’Unione Europea costituiscono
l’espressione teorica. Inoltre la loro regolarità e la puntualità argomentativa sia dal
punto di vista della richiesta che da quello della critica, della persuasione e della
pressione, ne fanno le fonti ideali per un'analisi dettagliata del comportamento delle
variabili dipendenti, caso per caso, settore per settore, politica per politica.
Parte I
1. La Condizionalità politica dell’Unione Europea
1.1 Fondamenti teorici
Pochi atti sembrano più indipendenti dall’influenza esterna e dal contesto
internazionale rispetto al cambiamento da un regime politico a un altro: il potere dei
vecchi capi è rovesciato, la società civile risorge, le aspettative si focalizzano su
scopi nazionali o personali; i nuovi rappresentanti del popolo si riuniscono in
assemblea per fondare nuove istituzioni di autogoverno e inaugurare nuove
politiche. Una concezione tale implica che la democratizzazione sia l’affare interno
per eccellenza, e la letteratura sul tema fino all’inizio degli anni ’90 ha largamente
riflesso questa tendenza “nativista”. I primi studi sulle transizioni alla democrazia
avvenute in Europa meridionale e in America Latina negli anni ’70 e ’80
condividono la tesi secondo cui il ruolo dei fattori esterni nel processo interno di
cambiamento è nullo, o al massimo molto marginale: Philippe Schmitter [1986]
dichiara che le transizioni di Spagna, Grecia e Portogallo dipendono da strategie e
forze interne a questi paesi, e che il ruolo di soggetti esterni non può essere che
limitato, almeno finché questi non abbiano un controllo diretto sui territori degli
stati in questione.
La prospettiva cambia negli anni ’90, quando gli studiosi argomentano sempre più a
favore di una riscoperta della dimensione internazionale della democratizzazione.
E’ evidente infatti l’influenza di fattori internazionali sulle transizioni alla
democrazia iniziate dopo il 1989 in Europa orientale (e in Africa), soprattutto la
caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica. In tal modo ha potuto
dispiegarsi l’azione di alcuni attori internazionali occidentali, come stati (USA,
Gran Bretagna, Francia, Germania, Norvegia, Giappone), istituzioni (ONU, Banca
Mondiale, FMI, Consiglio d’Europa, OSCE), associazioni non governative, che
hanno cominciato disordinatamente a sviluppare meccanismi e incentivi che
incoraggino l’adozione di riforme democratiche e del libero mercato in paesi terzi.
Lo stesso Schmitter [1996] riconosce il mutare della situazione, e che l’impatto del
contesto internazionale sui cambiamenti di regime è da riconsiderare: esistono
quattro dimensioni attraverso le quali un agente esterno riesce a influire, anche se in
modo indiretto e con un peso inferiore degli attori interni, su un cambiamento di
regime. Insieme ai fattori unilaterali del controllo e del contagio, a quello
multilaterale dell’accordo [Whitehead, 1996], e a quello di apprendimento sociale
della socializzazione internazionale delle regole democratiche [Checkel, 2001], è
individuata la nuova categoria della condizionalità , la più recente del gruppo anche
se in più rapida diffusione. La condizionalità può essere definita come l’uso
deliberato della coercizione da parte di istituzioni multilaterali (più raramente di
singoli stati), che fissano specifiche condizioni (ad esempio economiche o politiche)
per la concessione di benefici ai paesi che le soddisfano.
Tra le principali correnti di pensiero dell’ultimo decennio, è naturalmente il
liberalismo che la considera attuabile ed efficace. Al contrario, secondo i realisti, la
condizionalità è utopistica e addirittura dannosa: la rottura con un altro paese (nel
caso di mancato rispetto delle condizioni) può compromettere gli interessi
economici nazionali. Le pressioni esterne possono ostacolare il normale processo di
sviluppo di uno stato, e quindi rivelarsi controproducenti. Huntington [1996]
sostiene poi che la promozione della democrazia è destabilizzante e può portare a
conflitti indesiderabili o guerre con paesi appartenenti ad altre civilizzazioni, i cui
valori non comprendono quelli liberal-democratici. Da ultimo, anche la posizione
marxista è totalmente negativa: l’impegno nella promozione della democrazia non
sarebbe altro che un mezzo strumentale all’affermazione del liberismo su scala
mondiale.
Tradizionalmente, la condizionalità è uno degli strumenti più usati da enti come il
Fondo Monetario Internazionale (FMI), anche se la democrazia non ha quasi mai
fatto parte delle condizioni imposte da questa istituzione. Al contrario, in anni più
recenti, è stata utilizzata anche da alcuni stati: il presidente americano Jimmy Carter
nel 1975 introduce questo principio nei rapporti con i governi del Cono Sur 2
.
Mentre negli Stati Uniti l’uso di tale strumento nelle relazioni internazionali verrà
presto abbandonato dai successori di Carter, sull’altra sponda dell’Atlantico sarà
invece la Comunità Europea (in parte minore il Consiglio d’Europa) a insistere su
un certo standard di comportamento politico - stabilito dai criteri di Copenaghen del
1993 - come condizione per la membership. Parallelamente, un’istituzione ad essa
collegata come la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) ha
richiesto fin dall’inizio della sua attività (1992) che criteri politici precisi fossero
soddisfatti prima della concessione di prestiti ai paesi in via di democratizzazione
dell’Europa Orientale e dell’ex Unione Sovietica
3
.
Per influenzare la transizione e il consolidamento democratico di questi stati non
bastavano infatti gli strumenti più familiari dell’accordo e del contagio, perché le
loro economie erano legate da un sistema chiuso tutto interno al mondo socialista
(Comecon) e le loro società civili in via di risveglio ma con pochi contatti oltre
cortina permettevano una scarsa interdipendenza internazionale. Si pensava che la
condizionalità si sarebbe rivelata più adeguata per ottenere tali obiettivi e legare i
paesi dell’ex blocco comunista all’economia di mercato e alla politica comunitaria,
garantendo allo stesso tempo regimi stabili e democratici. Questo sarebbe dovuto
avvenire collegando gli obblighi politici richiesti, che avrebbero rafforzato il
consolidamento e permesso una transizione più ordinata, alla concessione di
facilitazioni economiche e all’ingresso in organizzazioni internazionali (come la
stessa Unione Europea).
Nei paesi dell’Europa centro-orientale il processo di democratizzazione è stato
interdipendente a quello di “ europeizzazione ”, dato il ruolo decisivo che tale
evoluzione politico-sociale ha giocato nel consolidamento e nell’orientare i nuovi
sistemi politici verso il modello di democrazia gradito alla UE.
2
Erano gli anni in cui le dittature latino americane si macchiavano dei peggiori crimini contro
l’umanità.
3
La BERS si limitò poi a un’applicazione molto parziale della condizionalità.
In genere l’europeizzazione si distingue in due dimensioni parallele [Olsen 2002]:
una bottom-up , che sottolinea il cambiamento avvenuto all’interno delle istituzioni
comunitarie (soprattutto nel grado di coordinamento e coerenza delle azioni
politiche), e una top-down , focalizzata sull’adattamento dei sistemi locali di
governo dei singoli stati membri al modello, alle strutture e alle norme generali
diffuse dal centro politico europeo.
Una definizione comunemente accettata definisce questo processo come l’emergere,
all’interno dell’Unione Europea, di distinte strutture di governo, che possono
assumere le forme più diverse di istituzioni politiche, legali o sociali, di norme,
linee guida o correnti di pensiero, o infine network amministrativi specializzati
nella creazione e nell’applicazione di regole [Cowles - Caporaso - Risse, 2001]
4
.
Ma se applicata ai paesi vicini e candidati, questa definizione regge solo in parte
[cfr. Di Quirico - Baracani, 2005]: l’impatto in questo caso è ben diverso da quello
verificato negli stati già membri. Dato che la democrazia è la condizione decisiva
per l’ingresso nell’UE, non importa come le istituzioni europee si evolvano, ma
bensì quali sforzi facciano per promuovere i loro valori e modelli politici.
L’europeizzazione perciò interpreta le forme assunte dalle pressioni per la
democratizzazione, e si concretizza nell’adattamento istituzionale che si produce
nei paesi candidati.
La condizionalità politica dell’Unione Europea è stata molto più efficace di quella
di altre istituzioni multilaterali, come ad esempio la NATO: Portogallo, Grecia e
Turchia furono membri a pieno titolo dell’Alleanza atlantica anche quando erano
retti da regimi autoritari. Al contrario, fin dall’inizio della sua esistenza la Comunità
Europea (dal rapporto Birkelbach
5
del 1962 al congelamento dell’Associazione con
la Grecia in seguito al colpo di stato del 1967) e quindi l’Unione Europea (Statuto
4
O anche: “l’Europeizzazione consiste di processi di a) costruzione b) diffusione c)
istituzionalizzazione di regole formali e informali, procedure, stili e paradigmi politici, “modi di
fare le cose”, credenze condivise e norme che prima sono definite e consolidate nel processo
politico dell’Unione Europea, e poi incorporate nelle logiche del discorso politico interno
(nazionale e sub-nazionale), nelle strutture politiche e nell’amministrazione pubblica”. [Bulmer
e Radaelli - 2005]
5
“Solo gli Stati che nei loro territori garantiscono pratiche democratiche effettive e rispetto per
i diritti umani fondamentali possono diventare membri della nostra Comunità”
della BERS del 1992 e Criteri di Copenaghen del 1993) ha posto come ferma
condizione di appartenenza la democraticità reale dei richiedenti.
In realtà, fino alla fine degli anni ’80 del XX secolo era il semplice status di
democrazia il discrimine che permetteva a un paese di aspirare a far parte della
Comunità Europea. Per molti, tra cui Geoffrey Pridham [2002], il cambiamento di
strategia avvenuto nei primi anni ’90 è stato possibile soprattutto grazie ai grandi
mutamenti nel sistema di sicurezza globale.
La fine della Guerra Fredda e quindi la fine del sostegno esterno agli esperimenti
politici anticapitalisti e dittatoriali ha significato che i cambiamenti di regime ormai
non minacciano l’equilibrio mondiale dei due vecchi blocchi. Le superpotenze
democratiche come gli Stati Uniti e collettivamente l’Europa non temono più che
l’incertezza delle transizioni venga sfruttata da forze che mirano a metterne a
repentaglio la sicurezza. Da un lato, sembra che gli attori interni siano più liberi di
scegliere le proprie istituzioni e le proprie politiche, comunque inserite in un
sistema di norme internazionali di interdipendenza economica; dall’altro, gli attori
internazionali sono sicuramente più liberi di intervenire quando le regole di questo
sistema sono rotte o violate, specialmente all’interno di quelle istituzioni (ONU,
UE, NATO) in cui l’azione può essere condivisa multilateralmente
6
.
Insomma, grazie allo “scongelamento” di uno dei due blocchi che avevano
dominato il mondo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, è possibile un
utilizzo più completo e coerente della condizionalità politica per costruire un
legame più forte tra politica estera, diritti umani e processi di democratizzazione,
secondo quanto sostenuto dalla teoria liberalista.
6
Ad esempio, la missione civile europea “EULEX Kosovo” (2008) agisce in una zona dove è già
operante la forza militare multinazionale Nato “KFOR”. “La missione sosterrà le autorità
politiche e giudiziarie del Kosovo per sviluppare e rafforzare un sistema giudiziario, doganale e
di polizia multietnico e indipendente. Queste istituzioni saranno libere da interferenze politiche
e raggiungeranno standard riconosciuti a livello internazionale, e le migliori pratiche europee.
[…] Il mandato della Rappresentanza europea sarà di contribuire al consolidamento del rispetto
dei diritti umani e delle libertà fondamentali in Kosovo.” [Consiglio dell’Unione Europea - odg
L042, 16/2/2008].