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INTRODUZIONE
Da un po’ di tempo la mia vita è per certi versi legata all’Africa Orientale. La
mia strada si è intrecciata spesso con la polvere rossa del Kenya. La prima volta
che vi ho messo piede risale a circa nove anni fa: da allora Nairobi è divenuto un
luogo a me piuttosto familiare, soprattutto certi suoi quartieri, come Riruta e la
Kabiria Road, il Dagoretti Corner; ma anche la cittadina di Ngong, la forma delle
sue colline, quella Casa speciale che mi ha accolto negli anni facendomi sentire
sempre a mio agio, nel posto giusto. Nonostante tutto.
Alcuni luoghi, ma soprattutto certi volti, mi sono entrati in testa e da qui non
sono mai usciti. Le persone che con me hanno percorso quelle strade sono
diventate compagne di un’avventura che prosegue e non sembra abbia intenzione
di concludersi ancora, e mi hanno accompagnato mentre sui libri sentivo parlare
di cooperazione, di società civile, di efficacia dell’aiuto e di sviluppo sostenibile.
Quando ho scelto di dedicare il mio lavoro di tesi ad una ricerca da effettuare in
Tanzania, ho capito fin da subito che sarebbe stato il modo ideale per concludere
un percorso di studi come il mio, che mi ha portato ad occuparmi spesso di Africa,
e di cultura swahili in particolare.
Provengo da una laurea triennale in “Lingue e culture dell’Asia e dell’Africa”;
mi sono iscritta tre anni fa al corso di laurea in “Sviluppo e Cooperazione
Internazionale” perché trattava di un mondo che avevo fino ad allora sempre e
solo sfiorato, ma che mi aveva molto incuriosito. Ero appena tornata dall’anno di
servizio civile all’estero, che mi aveva portato a trascorrere dieci mesi in
Tanzania, in una casa famiglia di Iringa. Tra sorrisi quotidiani, frequenti cambi di
pannolini, scherzi con le ragazze più grandi, discorsi pazzi e le storie dei bimbi
accolti dal centro nutrizionale di cui mi sono occupata, ampliavo le mie riflessioni
sui modi di fare cooperazione, sugli interventi attuati sul posto dalle
organizzazioni internazionali. Riflessioni che mi hanno spinto ad approfondire,
una volta tornata a casa, quanto avevo avuto la fortuna di scorgere fino ad allora
nei miei viaggi. Ho sentito il bisogno di affiancare alle piccole esperienze pratiche
fino ad allora avute degli strumenti teorici, che potessero spiegarmi i meccanismi
attraverso cui i progetti sul campo vengono ideati e poi realizzati, la logica che
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guida le azioni sul territorio, i concetti che sono alla base degli interventi di
cooperazione.
Qualche anno fa mi è capitato di visitare la sede dell’ambasciata italiana a
Nairobi, in centro città. Dalle finestre dell’ufficio dell’ambasciatore si scorgono le
piccole figure dei pedoni che affollano le strade, i tanti matatu colorati che creano
il caos, con i loro clacson rumorosi e gli autisti che invitano la gente a salire. Da
quelle finestre si vede anche la grande terrazza con piscina dell’Hilton Hotel,
situata poco più sotto rispetto all’ufficio dell’ambasciatore, ma molto più in su
della gente in strada. Le contraddizioni di Nairobi mi hanno sempre colpito: lusso
e povertà estrema convivono fianco a fianco, e addirittura sembra riescano a non
sfiorarsi mai. Se non quando una pallina da un vicino campo da golf arriva fin
dentro Kibera, a colpirne una baracca. Ma ai miei occhi la piscina dell’Hilton
stonava in quel centro città pieno di gente in cerca di chissà cosa, ed anch’io, in
quegli eleganti uffici, mi sentivo fuori luogo. Nei miei viaggi tra Kenya, Tanzania
e Zambia, si è fatta strada con gli anni l’idea che qualsiasi azione compiuta in un
luogo debba sempre portarsi dentro, radicati, il rispetto e l’attenzione per quel che
è il contesto in cui si arriva ad agire. Qualsiasi azione dovrebbe sempre integrarsi
nei diversi ambienti senza recare fastidi, senza portare scompiglio. Si è fatta strada
l’idea che l’unico modo per non sentirsi di troppo, per non sentire le proprie
azioni come fuori luogo, sia camminare fianco a fianco con le persone del posto,
per quanto complicato possa essere. Ho avuto il privilegio di poter essere
accompagnata per mano attraverso strade che da sola non avrei mai percorso, e
accanto ai bambini che mi hanno fatto da guida, tra fango, baracche e fogne a
cielo aperto, in qualche modo mi sono sempre sentita rassicurata, protetta dagli
sguardi di chi mi giudicava solo a causa del colore della mia pelle, un colore che a
volte io stessa ho sentito pesante. Il modo migliore per entrare in un luogo è farlo
attraverso le persone che vi abitano, che certi posti li vivono quotidianamente.
Quando nel mio percorso di studi mi sono imbattuta in quei principi che vedono
come fondamentali la partecipazione della società civile alla costruzione di
progetti di sviluppo che solo in questo modo possono essere ritenuti efficaci, ne
sono rimasta colpita. Credo anche io che la maggiore risorsa per poter migliorare
l’impatto dei tanti interventi di sviluppo realizzati in paesi come la Tanzania o il
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Kenya, sia la partecipazione attiva della popolazione alla loro ideazione e alla loro
conseguente realizzazione.
Quando ho scelto il tema da affrontare nel mio lavoro di tesi, mi è venuto
piuttosto spontaneo pensare al mondo delle ONG, soprattutto a causa della mia
esperienza pregressa, ed il mio sguardo si è rivolto subito verso la Tanzania, dove
durante il mio anno di servizio civile avevo potuto scorgere il complesso mondo
associativo che popola in particolare la città di Iringa.
Iringa mi è sempre apparsa come un luogo non ancora del tutto contaminato
dalla prepotente cultura occidentale, che invece ha investito tante grandi capitali
africane. E’ una città in continua crescita, ma sembra riuscire a conciliare le
tradizioni del passato con la modernità che avanza. Il quadro complesso di
relazioni che la caratterizzano è ben rappresentato dall’immagine delle ragazze in
jeans attillati che camminano in centro accanto alle donne anziane avvolte nei loro
kanga colorati.
Nella mia ricerca sul campo ho voluto quindi concentrare l’attenzione sugli
interventi realizzati sul territorio dalle ONG, sui modi in cui si cerca di rendere le
diverse azioni più o meno efficaci.
L’efficacia: è uno dei temi in questi anni al centro del dibattito sullo sviluppo.
Da anni si discute a livello internazionale sui modi in cui migliorare l’impatto dei
diversi interventi sul territorio. L’architettura del sistema dell’aiuto è divenuta
sempre più complessa: oggi gli attori coinvolti nei processi di sviluppo sono
molteplici, e accanto alle azioni dei governi membri del DAC e delle agenzie
internazionali, spuntano gli interventi dei paesi emergenti e della cooperazione
Sud-Sud, delle fondazioni private, ma soprattutto delle diverse organizzazioni
della società civile, come le ONG (internazionali e locali), i sindacati, le
associazioni religiose, le università, le associazioni culturali, i mezzi di
comunicazione. Oggi tutti partecipano ai processi di sviluppo, sebbene in certi
casi con iniziative e scopi specifici profondamente diversi. Le organizzazioni della
società civile, le reti, le campagne e i movimenti sociali che oggi si occupano di
questioni di portata globale, cercano di far sentire la propria voce, e spingono per
una loro inclusione effettiva nei processi decisionali. Nel 2008 viene ufficializzata
la nascita dell’Open Forum for Aid Effectiveness, un’iniziativa di diverse
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coalizioni di CSOs nel mondo che ha lo scopo di individuare gli elementi
fondamentali per rendere efficaci gli interventi di queste organizzazioni. L’Open
Forum, nel 2010, durante la prima Assemblea globale, definisce gli otto principi
di Istanbul per guidare le azioni di sviluppo delle CSOs.
Quest’anno quindi sono tornata ad Iringa con l’intenzione di verificare la
consonanza delle azioni intraprese dalle ONG che lavorano sul campo con i
principi definiti ad Istanbul. In particolare mio obiettivo è stato verificare se e
come le ONG di Iringa, sia locali che internazionali, si impegnino per rendere i
propri interventi armonizzati, sia tra loro che con le istituzioni locali; se e come
puntino a migliorare l’ownership locale; se e come i progetti da loro realizzati
possano essere definiti sostenibili.
Prima di partire ho preparato una griglia di riferimento da utilizzare nelle
interviste ai vari funzionari delle ONG da incontrare durante la fase di ricerca sul
campo. Ho individuato, utilizzando il canale di internet, alcuni elenchi di
organizzazioni presenti sul territorio, che ho ampliato una volta arrivata ad Iringa
con quelli trovati sul posto, che gli uffici del comune e una rete regionale di ONG
mi hanno messo a disposizione.
Nel mio lavoro di tesi presenterò prima un quadro teorico che permetta di
individuare le caratteristiche principali dello scenario internazionale che fa da
sfondo alla mia ricerca, e la nuova architettura dell’aiuto che oggi
contraddistingue la scena globale. Presenterò poi la nuova società civile, che cerca
di farsi strada nei complessi rapporti dei tanti attori in gioco, ed in particolare mi
soffermerò sul mondo delle ONG, su cui si è concentrato il mio lavoro di ricerca.
Passerò poi a descrivere il contesto della Tanzania ed in particolare della regione
di Iringa, dove ho condotto le mie interviste. Infine, attraverso un’analisi prima
quantitativa e poi qualitativa delle informazioni raccolte sul campo, cercherò di
trarre delle conclusioni su quanto osservato, consapevole dei limiti che la mia
ricerca porta inevitabilmente con sé.
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PARTE I - L’ARRIVO DEL NUOVO MILLENNIO
1. LO SCENARIO INTERNAZIONALE
1.1. La seconda modernità e la nuova società globale
Gli ultimi decenni dello scorso millennio hanno segnato per molti la fine di
un'era e l’inizio di una nuova fase. Molti vedono il 1989 come l'anno simbolico in
cui avviene il passaggio dalla famosa “età dell'oro” di Hobsbawn a quello che è il
mondo odierno, caratterizzato dalla sfida centrale della globalizzazione
economica. Gli anni novanta segnano il passaggio da una prima modernità “chiusa
ed organizzata”, caratterizzata da produzione e consumo di massa, ad una seconda
modernità, “liberisticamente allargata” (Habermas 1999). La differenza tra prima
e seconda modernità si fonda sulla crisi dello stato nazionale, che è anche la messa
in discussione di una concezione che un tempo tracciava una divisione netta tra
interno ed esterno, tra ciò che era parte della società nazionale e ciò che invece era
considerato straniero. La politica internazionale è stata a lungo considerata come
quella riguardante i rapporti tra i diversi stati nazionali, ciascuno dei quali
rispettava i confini dell'altro ed esisteva prima di tutto in quanto entità isolata. Con
la fine del XX secolo invece ci si apre a nuovi rischi, a nuove incertezze, ma
anche a nuove possibilità, si affronta un nuovo tipo di capitalismo, un nuovo tipo
di ordine globale, di vita sociale e personale, e tra queste novità anche la
modernità si rinnova e diventa cosmopolita (Beck 2003). La società cosmopolita
secondo Beck descrive “una qualità e una forma storicamente nuova di
differenziazione sociale”, e con essa emerge “un nuovo modo di fare affari e di
lavorare, un nuovo tipo di identità e di politica, ma anche un nuovo tipo di
esperienza spazio-temporale quotidiana e di relazioni sociali tra le persone”, senza
precedenti nella storia (Beck 2003: 209). In questo vortice di nuove tendenze,
vengono a cadere gli assunti principali di quello che viene definito nazionalismo
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metodologico
1
, che vede lo stato, la nazione e la società come forme naturali del
mondo moderno (Beck 2003). Da vari decenni si sente forte l'esigenza di un
transnazionalismo che superi l'inadeguatezza dell'idea di nazione e si basi sui
nuovi rapporti, le nuove formazioni e le nuove dinamiche transconfinarie (Sassen
2008). E’ qui che si parla dell’avvento di una seconda modernità, caratterizzata da
queste nuove forze, che agiscono al di sopra dello stato nazionale e al di fuori del
suo controllo. Forze che stanno trasformando la realtà e le relazioni tra gli
individui e i vari attori della società. Ciò che muta è il significato dell'autorità
esclusiva dello stato, il cui ruolo ha da tempo subito una trasformazione a causa di
una serie di diversi fattori come “l'istituzionalizzazione di «diritti» di imprese non
nazionali, la deregolamentazione delle transazioni transfrontaliere, la crescente
influenza/potenza di alcune organizzazioni sopranazionali” (Sassen 2008: 32).
Nella prima modernità i cittadini erano cittadini di uno stato territoriale, ben
definito, mentre nella seconda il cittadino del mondo diventa “poligamo dei
luoghi” (Beck 2003: 95), non conosce barriere e apre le porte a quella che
Appadurai (2001) chiama “deterritorializzazione”. La deterritorializzazione
allenta i legami tra le persone, la ricchezza e i territori, e allo stesso tempo crea
nuovi mercati, ma anche nuovi conflitti e più in generale nuovi tipi di relazioni.
Siamo di fronte ad un processo di formazione di un nuovo ordine globale in cui lo
stato nazionale viene rimpiazzato e diventa obsoleto, mentre emergono nuove
forme per l'organizzazione del traffico globale delle risorse, delle immagini e delle
idee. Questo cambiamento di sistema secondo Beck (2003) ha un nome, e si
chiama “globalizzazione”. Anche i gruppi alla base del sistema sono cambiati,
oggi chi tiene le redini sono “i gruppi industriali transnazionali, i movimenti
sociali transnazionali, ma anche gli esperti transnazionali in organizzazioni
internazionali” (Beck 2003: 70). Transnazionali sono le nuove relazioni e
transnazionale diventa il nuovo punto di partenza per comprendere i mutamenti in
atto.
Il termine “globalizzazione” è però spesso utilizzato senza nessun preciso
significato, con esso ci si riferisce di solito a qualsiasi fattore di cambiamento
1
Beck (2003) definisce “nazionalismo metodologico” quella prospettiva scientifica che identifica
la società con la società nazionale, territoriale, organizzata in uno stato circoscritto da confini.
Quando è l'attore sociale a condividere questa visione, allora Beck parla di «sguardo nazionale».
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della società contemporanea. E' necessario quindi provare a fissare alcune
caratteristiche del termine per evitare che sia confuso con altri termini simili, che
però descrivono processi differenti dalla globalizzazione stessa. Ad esempio
spesso il termine viene confuso con il concetto di “internazionalizzazione”, ma in
realtà la globalizzazione presuppone delle relazioni tra i diversi paesi e i diversi
attori sociali più intense ed omogenee rispetto a quelle che implica
l'internazionalizzazione. Sono relazioni che non solo attraversano i confini
nazionali, ma superano anche le istituzioni statali e culturali su cui quei confini
erano costruiti (Alonso 2000). Nuove relazioni quindi non solo al di sopra dello
stato ma anche al suo interno. La stessa dinamica dell'economia mondiale, che un
tempo aveva i suoi chiari confini, oggi li travalica e accelera i suoi processi di
trasformazione monetaria, economica e sociale. “Le distanze geografiche come
confini concorrenziali «naturali» tra luoghi di produzione perdono significato […]
d'ora in poi tutti i luoghi del mondo concorrono potenzialmente con tutti” (Beck
2003:82). Con la globalizzazione si arriva così all'idea del mondo come di
un’unica entità che deve essere organizzata. Globalizzazione “è qualcosa in più
del semplice incremento dei flussi del commercio, della finanza o della
comunicazione tra paesi”
2
(Alonso 2000: 348). E' un processo asimmetrico,
diseguale ed incompleto, che porta con sé tanti rischi quante sono le possibilità. E'
asimmetrico perché non interessa allo stesso modo tutti i settori della società,
diseguale perché non incide allo stesso modo su tutti i paesi del mondo, ed è
incompleto perché si riferisce ad un processo continuo più che ad una precisa
realtà. Col tempo la globalizzazione è stata trasformata in ideologia dalla
standardizzazione del discorso economico in cui le organizzazioni internazionali
hanno giocato un ruolo fondamentale. Ideologia in cui si celebra il mercato come
unico meccanismo efficiente per la distribuzione economica e il coordinamento
sociale, che afferma l'esistenza di un unico singolo mercato per l'intero pianeta.
Quel che la storia ci insegna però è che non esiste un unico sentiero per lo
sviluppo, ed ogni paese deve ricercare il proprio, coerente con la propria storia, il
proprio contesto culturale e sociale (Alonso 2000). Rimangono così fondamentali
2
“Globalisation is more than the simple increase in the flows of trade, finance, or communication
between countries” (Alonso 2000: 348).
14
le decisioni prese a livello nazionale, e sebbene lo stato abbia perso la sua capacità
d'influenzare politicamente il ciclo economico, gioca ancora un ruolo
importantissimo nella nuova realtà globale. Secondo la Sassen (2008) “lo stato
diventa il dominio istituzionale strategico nel quale si compie un lavoro di
importanza fondamentale per lo sviluppo della globalizzazione”
3
(Sassen 2008:
44). Lo stato diventa il luogo dove avvengono le principali trasformazioni, sia tra
le forze interne ad esso che nel più vasto campo dei rapporti tra le forze nazionali
e globali. Molteplici e specifiche strutturazioni del globale avvengono anche
all'interno di ciò che è stato storicamente costruito come nazionale, strutturazioni
che comportano “una parziale, altamente specializzata e specifica
denazionalizzazione di determinate componenti del nazionale” (Sassen 2008: 22).
Una denazionalizzazione che non riguarda solo il campo della globalizzazione
economica ma è polivalente, “endogenizza le agende globali di numerosi e
svariati tipi di attori” (Sassen 2008: 49). Viene così destabilizzata la gerarchia
scalare imperniata sullo stato, e di conseguenza per comprendere i nuovi rapporti
che avvengono a livello subnazionale e sopranazionale c'è bisogno di costituire
nuove “scalarità” strategiche che vadano oltre la scala nazionale. Dinamiche che
tagliano trasversalmente la dimensione istituzionale e aprono lo spazio alla
proliferazione di tanti nuovi attori, che non escludono la scala nazionale ma le
danno nuova forma e un nuovo ruolo (Sassen 2008). Lo stesso Appadurai (2001)
sostiene che abbiamo bisogno di modificare i nostri modelli culturali di
riferimento, perché oggi dobbiamo iniziare a pensare ad una configurazione
frattale delle forme culturali, priva di confini e strutture regolari. Le forme
culturali si stanno sovrapponendo, non è più possibile esaminare le diverse entità
come nettamente separate, perché le relazioni tra loro stanno diventando fluide, e
c'è bisogno di pensare alle grandi questioni globali come se ci trovassimo di fronte
ad un mondo caotico, privo di ordine, stabilità e sistematicità. Per Hettne (2002) la
globalizzazione è un fenomeno qualitativamente nuovo, poiché si basa sulle
3
Con il termine “globalizzazione” per la Sassen (2008) si descrivono due distinti insiemi di
dinamiche: uno riguarda la formazione di istituzioni e processi esplicitamente globali, come i
mercati finanziari globali, il nuovo cosmopolitismo, le organizzazioni internazionali; il secondo
insieme comprende processi e dinamiche che avvengono all'interno di territori e domini
istituzionali, che concernono sia reti transconfinarie ed entità che legano tra loro processi e attori
locali o nazionali, sia la ricorrenza di particolari questioni in diversi paesi e località.
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nuove tecnologie di informazione e comunicazione e una nuova logica di
organizzazione, quella del collegamento in rete. Una rete di rapporti strettamente
legati tra loro e quindi reciprocamente influenzabili è una buona rappresentazione
di questi nuovi tipi di relazioni. “Rete” diventa una parola chiave nel descrivere i
rapporti tra i diversi attori della nuova realtà globale, a prescindere dal fatto che si
tratti “del trasporto di beni e persone, dei flussi di merce, capitale e denaro, della
traduzione ed elaborazione elettronica di informazioni, dei processi circolatori tra
uomo, tecnica e natura” (Habermas 1999: 38-39). Tutto è collegato, un evento
diventa globale “allorché è presente simultaneamente e ovunque nel globo come
esperienza mediatica” (Beck 2003: 114). La globalizzazione dipende fortemente
dalle relazioni dei nuovi attori globali, dato che essa si realizza non più a causa di
forze esterne ma proprio partendo dai rapporti tra i nuovi attori della società
civile, del capitale globale, delle organizzazioni internazionali. E' la
cosmopolitizzazione
4
di cui parla Beck (2003), vista come “globalizzazione
interna, globalizzazione dal di dentro - il venir meno dei fondamenti della
nazionalità, in forza dell'immigrazione, delle telecomunicazioni e dei trasporti”
(Beck 2003: 139). Si assiste così all'entrata in scena di numerosi attori non statali
nelle arene internazionali, nuovi attori globali che possono oggi prendere parte ed
influenzare le decisioni della politica globale
5
. Si inaugura “una geografia della
politica e dell'impegno civile che ricollega gli spazi subnazionali” (Sassen 2008:
188), che diventano luogo privilegiato in cui prendere decisioni globali. La Sassen
(2008) individua in particolare nelle città globali odierne il luogo primario in cui
avviene l'incontro tra i diversi attori politici non formali, poiché la città è uno
spazio politico molto più concreto rispetto alla nazione, e chi non ha potere qui
può acquisire presenza. Queste nuove associazioni di individui attivi a livello
4
Con il termine “cosmopolitizzazione” Beck (2003) intende sottolineare la differenza rispetto alla
prima modernità, in cui la globalizzazione veniva intesa come un processo che giungeva dal di
fuori, una semplice moltiplicazione dei collegamenti tra le nazioni piuttosto che un nuovo ordine
di rapporti.
5
Secondo la Sassen (2008) un ruolo fondamentale nel coinvolgimento dei nuovi attori locali nelle
platee internazionali lo giocano le nuove tecnologie di informazione e comunicazione, in
particolare l'accesso pubblico a Internet, che può permettere agli attori globali, anche se
geograficamente immobili e con scarse risorse a disposizione, di partecipare alla vita politica
globale. Questo però può avvenire solo a due condizioni: che esistano delle reti sociali, e che si
sviluppino e organizzino adeguate infrastrutture tecniche e i software necessari all'utilizzo delle
nuove ICT da parte degli attori che si trovano in posizione di svantaggio.