CAP. 1 - L’EFFETTO PLACEBO: UNA PANORAMICA
Un placebo è un trattamento medico finto, come una pillola priva di ogni principio
attivo o un intervento chirurgico fasullo. Esso è di comune impiego negli studi clinici,
dove funge da strumento di controllo per validare l’efficacia delle nuove terapie.
Spesso i partecipanti che ricevono il placebo esperiscono dei miglioramenti clinici; una
parte di tali miglioramenti possono essere ascritti a meccanismi d’interazione
mente-corpo. Il mero credere nell’efficacia di un certo trattamento medico, può
effettivamente renderlo efficace, anche se il trattamento in questione è finto. Una sorta
di profezia che si auto-avvera.
1.1 La storia delle pillole finte
È importante non confondere il concetto di “placebo” con quello di “effetto placebo”.
Un placebo è una terapia simulata. L’effetto placebo è invece quel fenomeno osservabile
dopo la somministrazione di un placebo e che è attribuibile al valore psicologico del
trattamento.
In passato l’effetto placebo non era per nulla conosciuto, tuttavia erano in uso molti
trattamenti placebo. La storia della medicina è piena di placebo (Benedetti, 2018), usati
volutamente o accidentalmente. Innanzitutto, la medicina dei secoli scorsi si è avvalsa di
una serie di rimedi che agli occhi della scienza contemporanea si rivelano dei meri
placebo. In secondo luogo, a un certo punto della storia medica, i placebo sono divenuti
un vero e proprio dispositivo clinico. Il termine “placebo” è entrato nel lessico medico
verso la fine del Settecento. “Placebo” in latino significa “piacerò”, infatti i dizionari
medici di inizio Ottocento definivano un placebo come un dispositivo utile
principalmente a compiacere il paziente, piuttosto che a curarlo (Shapiro, 1964). Fino
alla prima metà del Novecento, i placebo sono stati utilizzati dai medici come strumenti
atti a tranquillizzare i pazienti, soprattutto quelli difficili o inguaribili. Non s’intendeva
curarli ma solo rassicurarli, accontentarli, tramite l’imbroglio di una pillola finta
(Kaptchuk, 1998).
Il significato dei placebo iniziò a cambiare verso gli anni Cinquanta, quando
l’anestesista Henry K. Beecher (1955) pubblicò un articolo intitolato “The powerful
placebo”, che in italiano significa “il potente placebo”. L’articolo di Beecher era una
piccola meta-analisi, dove, partendo dai pochi trial clinici disponibili ai tempi, cercò di
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dimostrare la potenza dei placebo, facendo notare i benefici esperiti dai partecipanti dei
vari gruppi di controllo. Purtroppo, lo studio di Beecher contiene errori metodologici
che conducono a conclusioni infondate. Ma è a partire da Beecher che si è diffusa la
nozione di “potente placebo”: i placebo non erano più visti come umili menzogne, utili
per compiacere il paziente, ma come strumenti capaci di determinare benefici reali. La
nozione di “potente placebo” è così diventata la principale motivazione per inserire un
gruppo di controllo placebo in tutti i trial clinici. Se i placebo avevano degli effetti,
bisognava assicurarsi che i farmaci non fossero solo dei placebo (Kaptchuk, 1998).
Nel corso del tempo, molti ricercatori hanno iniziato a chiedersi come facesse una
pillola finta a generare i benefici esperiti dai partecipanti dei vari gruppi di controllo e
se questi giovamenti fossero reali o solo legati a fluttuazioni naturali e altri fattori di
confusione. Ciò che è emerso è che una pillola finta può davvero far sentire meglio una
persona, grazie a specifici meccanismi psicologici-neurali, e che pertanto esistono degli
“effetti placebo”, dei veri e propri fenomeni psico-biologici.
1.2 I due grandi falsi miti
Per quanto mi concerne, ho spesso notato che alcune diffuse idee sull’effetto placebo
sono di fatto scorrette. Sono dei falsi miti, che meritano di esser sfatati. Un'errata
concettualizzazione dell’effetto placebo non solo non valorizza le abbondanti ricerche
scientifiche sul tema, ma può anche sfociare in comportamenti rischiosi e/o non etici. È
quindi opportuno sfatare i seguenti due falsi miti.
Il primo falso mito riguarda la tendenza a vedere l’effetto placebo come prodotto
dell’immaginazione del paziente. Secondo questa logica, l’effetto placebo
funzionerebbe o perché la malattia del paziente è puramente immaginaria, o perché è la
guarigione ad essere illusoria. Questa opinione può essere pericolosa perché può indurre
a sottostimare la sofferenza di un individuo e a descriverlo come facilmente
suggestionabile e aduso a lamentarsi. È assolutamente falso che l’effetto placebo sia
solo un effetto immaginativo. La ricerca ha mostrato che l’effetto placebo si basa su una
serie di meccanismi biologici che influenzano in modo effettivo le manifestazioni
sintomatiche. Per esempio, è stato dimostrato che, in alcuni casi, un forte effetto placebo
può modulare la nocicezione a livello spinale (Eippert, Finsterbusch, et al., 2009).
Spesso, placebo e farmaci possono avere gli stessi meccanismi d’azione.
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Il secondo falso mito invece deriva proprio dall'estremizzazione delle scoperte
scientifiche. Alla luce di tutti gli studi sulle basi biologiche dell'effetto placebo, si
potrebbe (erroneamente) concludere che l’effetto placebo sia la prova del fatto che è
possibile auto-curarsi con la forza della mente. Questa opinione è assai diffusa sui
social media e nei libri di self-help. Ma la scienza dei placebo non prova che sia
possibile l’autoguarigione. Quando una pillola finta causa un qualche grado di sollievo,
di fatto, ciò non è frutto della forza di volontà o dei desideri individuali, ma è frutto di
un intervento esterno. È come se il nostro organismo, pur avendo le capacità per gestire
alcuni sintomi, avesse bisogno di informazioni provenienti dall’ambiente (per esempio,
la vista di una pillola) per poterle attivare. Questo ha senso dal punto di vista
evoluzionistico, in quanto il valore adattivo dei sintomi varia in base al contesto
(Humphrey, 2004). Inoltre, l'effetto placebo non è una panacea, non funziona per tutte
le condizioni patologiche. In generale, l’effetto placebo è capace di placare i sintomi ma
non di curare la patologia sottostante. Un placebo potrebbe semmai ridurre il dolore
associato a un tumore, ma non abbiamo nessuna prova che un placebo sia in grado di
curare un tumore facendolo restringere (Chvetzoff & Tannock, 2003). Allo stesso modo,
nel caso dell’asma, uno studio ha mostrato che un placebo e un farmaco reale sono
ugualmente efficaci nel placare la sofferenza soggettiva, ma l’effetto placebo non ha
alcuna influenza sulla reale patofisiologia respiratoria (Wechsler et al., 2011). Dunque,
l’effetto placebo non va considerato come una cura, ma come un modo per migliorare la
qualità della vita del paziente, adoperabile esclusivamente dal personale competente
(Benedetti, 2018, Capitolo 19). Credere che sia possibile curarsi solo con la forza della
mente può avere ripercussioni disastrose, quali il rifiuto delle terapie reali e il
conseguente aggravarsi della malattia.
1.3 Effetto placebo vs. risposta placebo
I benefici osservabili dopo la somministrazione di un placebo non possono essere
ascritti in modo indiscriminato ad un effetto psicologico: si cadrebbe nella fallacia post
hoc ergo propter hoc, per la quale due eventi disposti temporalmente in successione,
sono considerati come legati da un nesso causale; ma questo non è necessariamente
vero. I benefici osservati dopo la somministrazione di un placebo possono esser dovuti a
vari fattori: progressione naturale della patologia, trattamenti concomitanti non
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identificati, regressione verso la media e bias di risposta (figura 1). Per esempio,
l’assunzione di un placebo nel momento in cui una patologia sta per placarsi, potrebbe
indurre a pensare che la causa della guarigione sia il placebo, ma si tratta solo della
progressione naturale della malattia. Oppure, i partecipanti a un trial clinico potrebbero
asserire (falsamente) di sentirsi meglio, solo per accontentare lo sperimentatore:
fenomeno noto come bias di risposta.
Per capire se davvero l’effetto placebo sia qualcosa di più delle guarigioni spontanee, è
necessario progettare esperimenti che includono un gruppo di soggetti che non riceve
alcun trattamento, in inglese detto gruppo “no treatment”. Se il gruppo che riceve il
placebo ha un miglioramento maggiore, rispetto al gruppo “no treatment”, è possibile
dedurre l’esistenza di un effetto placebo reale. Inoltre, è necessario, laddove possibile,
l’impiego di misurazioni oggettive (es. livelli ormonali, neuroimaging, ecc.) che
permette di escludere l'influenza del bias di risposta (Benedetti, Carlino, et al., 2011).
Lo studio di Beecher del 1955, non essendo basato su trial che includevano gruppi
“no-treatment”, non può essere considerato una prova a sostegno dell’effetto placebo
inteso come un reale fenomeno mente-corpo. Molto di quello che Beecher definiva
“potente placebo” era dovuto alla progressione naturale della malattia, alla regressione
verso la media o a trattamenti concomitanti (Kaptchuk, 1998).
Molti degli studi successivi, includendo gli opportuni gruppi di controllo e utilizzando
misure oggettive, hanno convintamente dimostrato che l’effetto placebo sia un
fenomeno reale.
Per differenziare il “vero” effetto placebo da altri fattori di confusione, in letteratura è
stata introdotta una distinzione terminologica tra “risposta placebo” ed “effetto
placebo”. I primi a proporre tale differenziazione sono stati Kirsch e Sapirstein (1998)
ed è stata successivamente condivisa da un copioso numero di esperti del tema (Evers et
al., 2018). La risposta placebo corrisponde a qualsiasi cambiamento osservabile in
seguito alla somministrazione di un placebo, includendo, potenzialmente, sia effetti
dovuti a meccanismi psico-biologici (effetto placebo), sia effetti dovuti ad altri
fenomeni (remissioni spontanee, bias ecc.). L'effetto placebo, invece, si riferisce
esclusivamente a quei cambiamenti che possono essere spiegati in termini psicologici o
neurali (Evers et al., 2018).
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