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INTRODUZIONE
Questo elaborato nasce dalla volontà di approfondire le tematiche incontrate
durante il tirocinio del terzo ed ultimo anno del corso di laurea, svolto presso
l’hospice “Casa Vidas” di Milano. La scelta dello stesso tirocinio si è originata dalla
curiosità formativa e professionale di indagare come un Educatore Professionale
potesse rapportarsi con un’utenza così particolare, quella delle persone malate
terminali, per le quali non vi è possibilità di recupero o reinserimento. La
contraddizione tra una progettazione educativa per sua stessa definizione rivolta al
futuro ed un’utenza dal futuro dichiaratamente più o meno breve ha costituito un
interrogativo cui mi interessava provare a rispondere. Ho cominciato così,
completamente da zero, ad informarmi su tematiche sulle quali non mi ero mai
soffermata. Ho scoperto che cosa fosse un hospice, che cosa fossero le cure
palliative, le diverse strutture che ospitano malati terminali, anche a seconda della
loro patologia. Sono venuta quindi a conoscenza del fatto che l’Educatore
Professionale non è una figura presente nelle équipe degli hospice sanitari, milanesi
e non, ed il mio interesse è quindi cresciuto, capendo che avrei percorso una strada
abbastanza “nuova”.
Ho poi svolto il mio tirocinio presso l’hospice di Vidas ed è stata un’esperienza
intensa, significativa, umana e formativa. Ho condotto in questa struttura un progetto
educativo, in linea con gli obiettivi del terzo anno, e sperimentarsi concretamente
all’interno di quella stessa contraddizione che aveva dato origine alle mie curiosità è
stato particolarmente impegnativo, ma sfidante e istruttivo.
Da tutto ciò l’intenzione di approfondire, estendendola ad altri contenuti e a diverse
realtà, la riflessione sugli spazi di intervento dell’Educatore Professionale in hospice.
In questo elaborato, in parte di tipo compilativo e in parte di tipo sperimentale, ho
voluto procedere analizzando gli ambiti coinvolti dal generale al particolare.
Nel primo capitolo, perciò, analizzo la visione della morte nella società occidentale,
con riferimenti a come si è storicamente evoluta e a come si declina in altre culture
religiose. Mi soffermo in particolare sui caratteri della visione attuale della morte, per
definire il contesto culturale nel quale i servizi di cure palliative operano. Tutti gli
attori coinvolti in una situazione di malattia terminale sono parte di una società che
rimanda valori, atteggiamenti e comportamenti, idee, giudizi. Per questo ritengo sia
importante provare a farli emergere, in modo da sottolineare la necessità per
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ciascuno di confrontarsi con le tematiche trattate. Ciò sarebbe auspicabile, inoltre,
per tutti gli individui, anche non direttamente coinvolti nei servizi di cure palliative,
poiché parto dal presupposto che la morte sia un evento naturalmente appartenente
all’esistenza di tutti. Concetto, quest’ultimo, che appare scontato. Eppure, come si
vedrà, nella società di oggi questo “presupposto” non è affatto tale. La breve analisi
storica e gli accenni a visioni alternative alla nostra sono pensati per rimandare il
concetto che la morte sia un evento culturale e, in quanto tale, relativa. Per questo
motivo la visione stessa della morte potrebbe essere messa in discussione, in
quanto non assoluta ma frutto delle evoluzioni della cultura in cui siamo immersi.
Comprendere che la nostra visione, quella con cui siamo cresciuti, potrebbe non
essere l’unica possibile ci permette di aprire uno spazio di confronto, di in-formarci,
esattamente come è successo a me scrivendo questo stesso elaborato.
A fronte della forte difficoltà attuale generalizzata di affrontare queste tematiche, a
livelli personali e professionali, concludo il primo capitolo sostenendo, attraverso i
contributi di diversi autori, la necessità di un’educazione alla morte e nella morte,
che si declina in un’educazione al limite, all’accettazione del limite, così
diffusamente osteggiata dalla nostra società.
Nel secondo capitolo, sempre in un’ottica metodologica dal generale al particolare,
analizzo i servizi residenziali di cure palliative, ovvero gli hospice, e l’approccio
stesso delle cure palliative. Per comprendere gli spazi di intervento dell’Educatore
Professionale in un contesto “semi-nuovo”
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ho ritenuto necessario analizzare
proprio il contesto, istituzionale, organizzativo e legislativo, in cui potenzialmente si
troverebbe a lavorare. In questo capitolo definisco dunque gli hospice, tracciandone
una breve storia e mettendo in risalto le specificità della cultura italiana rispetto a
quella anglosassone, ambiente natio di queste strutture ma anche del moderno
modello di assistenza ai malati terminali. Descrivo inoltre l’approccio delle cure
palliative, specificandone finalità ed elementi costitutivi; opero un resoconto dei
principali interventi normativi inerenti le cure palliative e gli hospice, in ambito
internazionale, nazionale e regionale. Infine, accenno brevemente a come si è
diffuso il modello in Italia e, attraverso i dati, a quale sia la situazione dei servizi di
cure palliative nel nostro Paese fotografata dall’ultima rilevazione ufficiale (2010).
Dopo aver descritto il tipo di servizio e il contesto correlato nei quali l’Educatore
opererebbe, ho focalizzato ancora di più la mia attenzione provando a spiegare,
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L’educatore lavorava e lavora nelle strutture per malati terminali di AIDS, nonché negli hospice
socio-sanitari, simili a comunità, con pochi posti letto.
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all’inizio del terzo capitolo, quali siano i tratti distintivi, le problematiche e le
tematiche con le quali l’Educatore Professionale si confronterebbe. Le persone
malate terminali e le loro famiglie costituiscono un’utenza che vive una situazione-
limite, estrema, perlopiù angosciante e terrificante, anche per i motivi culturali
affrontati nel primo capitolo. Questa parte è perciò dedicata alla comprensione delle
principali dinamiche, anche psicologiche, dei vissuti, dei timori, delle caratteristiche
delle persone che stanno affrontando il processo del morire e dei loro famigliari.
Cerco dunque di cominciare a capire come un Educatore Professionale si
rapporterebbe con loro e con le loro fatiche, ed in particolare che cosa significano le
peculiarità affrontate per la nostra figura professionale, ovvero come possono
essere utili determinate informazioni su questo tipo di utenza, a noi e ad un possibile
intervento educativo. Questo partendo dal presupposto che siano proprio le persone
delle quali ci occupiamo, se opportunamente ascoltate nei diversi modi in cui è
possibile ascoltare, ad orientare ed indirizzare i possibili interventi.
A questo punto dell’elaborato mi focalizzo decisamente sulla figura educativa,
soffermandomi brevemente sul rapporto tra lavoro educativo e lavoro assistenziale,
in generale e in hospice, per poi introdurre ed esporre una ricerca che ho svolto con
il suddetto scopo di estendere gli interrogativi, le intuizioni e i ragionamenti fatti in
Casa Vidas, ad altre realtà milanesi e non. Gli elementi raccolti durante il tirocinio
del terzo anno sono infatti stati per me le lenti con cui osservare gli hospice visitati e
il materiale raccolto. La ricerca ha coinvolto sei hospice, dei quali quattro a Milano,
uno ad Abbiategrasso e uno, che ho avuto modo di conoscere durante il tirocinio del
terzo anno, a Monza. L’indagine, articolata attraverso interviste agli operatori dei
diversi hospice, mirava a raccogliere informazioni per individuare in quali possibili
ambiti fosse inseribile, se lo fosse, una figura educativa. Per fare ciò l’intervista
indagava diversi nuclei, ai fini di comprendere quali funzioni educative venissero
svolte da figure non prettamente educative e quali spazi si potessero effettivamente
riscontrare in modo da convogliare quelle o altre funzioni in un’unica figura
professionale, senza per questo sottrarre né “inquinare” le funzioni e i ruoli già
presenti nelle strutture. A seguito dell’analisi del materiale raccolto espongo le mie
conclusioni inerenti il ruolo e le funzioni di un Educatore Professionale in hospice,
provando a operare una sintesi tra risultati della ricerca e contributi che provengono
dal tirocinio del terzo anno.
Successivamente, elenco e descrivo quelle che a mio avviso sono le competenze
principali per svolgere un’assistenza di qualità ai malati terminali: chiaramente la
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scelta di nominare alcune competenze non è dovuta ad una selezione consapevole
che preveda l’esclusione di altre possibili competenze, ma è una scelta che nasce
da ciò che ho sperimentato, letto, ascoltato ed osservato durante le mie esperienze.
Tratto dunque, anche con l’apporto di alcuni testi, quelle competenze che ritengo
fondamentali, con l’idea che, a seconda delle esperienze di ciascuno, ce ne
possano essere altre sicuramente altrettanto importanti. Alcune competenze
personali e professionali sono fondamentali, anche perché gli operatori che operano
in questo settore si trovano ad affrontare ogni giorno sofferenza, angoscia, dolore,
decessi, affetti, disperazione. L’assistenza ai malati terminali è carica di vissuti ed
emozioni intense, come se ogni emozione che ci capita di vivere e provare nella
quotidianità fosse, in quella situazione, estremamente amplificata. Così la tristezza
diviene disperazione, ma ogni piccola soddisfazione diventa spesso grande gioia.
Credo che sia proprio questo, in ultimo, la peculiarità più interessante che ho
riscontrato: il ritorno a porre l’attenzione sulle piccole emozioni che ogni giorno
regala. Può apparire banale, ma credo che solo chi si immerge, anche per un poco,
in questa realtà, possa capire e sapere quanto questa “piccola” verità acquisisca un
peso inimmaginabile di fronte alla consapevolezza di dover morire, o di dover
salutare per l’ultima volta una persona cara.
La scelta di affrontare questo tema è stata, sin dallo scorso anno, particolarmente
giudicata, in tanti modi diversi. Molti hanno sgranato gli occhi e mi hanno chiesto chi
me lo stesse facendo fare, a ventidue anni, di avere a che fare con problematiche
così importanti e con una sofferenza così significativa. A questo proposito, io
condivido profondamente quanto ho cercato di affermare nel primo capitolo, grazie
ad alcuni autori, cioè che la morte è, ad oggi, un tabù maggiore della sessualità; che
non se ne parla; che è un argomento ritenuto da evitare ed allontanare il più
possibile. Ho lasciato invece che la curiosità formativa, che spero di poter
continuare a coltivare nel tempo, coinvolgesse questa tematica. In particolare,
entrando in un servizio dove non esiste la figura educativa e provare a capire se c'è
la possibilità, ma anche il senso, di introdurla; ritagliandosi uno spazio in un ambito
in cui nessuno sa quasi nulla di ciò che fa un educatore e, per fare ciò, essere
costretta a parlare di me come futura professionista, di me come educatrice,
dell'educazione in generale e nello specifico e da qui capire meglio io per prima che
cosa significhi essere e fare l'Educatore Professionale; avendo a che fare con la
sofferenza e la separazione cercando di imparare a dar loro un senso, a non
lasciarsene sopraffare e a non sfuggirle; facendo un lavoro di ricerca, che è ricerca
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sul campo dei servizi ma anche ricerca teorica sulle possibilità che l'educatore può
aprirsi.
Ho scelto quindi di affrontare questa tematica perché voglio pensare e trattare la
morte come una problematica come le altre, della quale si possa parlare, dalla
quale, addirittura, trarre elementi di vita; ho scelto di affrontare questo tema perché
ritengo che esista la possibilità di gestirlo nel migliore dei modi nonostante la fatica e
la sofferenza. Inoltre, ho scelto di trattare questo argomento partendo dal
presupposto, proprio delle cure palliative, che una persona sia tale fino alla morte,
che non smetta, perché malata, di avere bisogni, sogni, desideri, affetti, emozioni,
ruoli, potenzialità, dignità.
Credo che l’Uomo sconfigga la morte non nel tentativo di vincerla, ma nell’esatto
momento in cui decide di accettarla e questo possa portarlo a morire con dignità,
comunque sia andata la sua vita.
«Tutti sanno che si deve morire», ripeté Morrie, «ma nessuno ci crede veramente. Se lo
facessimo, agiremmo in modo diverso.»
Così non prendiamo sul serio la morte, dissi.
«Proprio così. Mentre c’è un approccio migliore. Ammettere che si deve morire, ed essere
preparati in ogni momento. In questo modo ci si può impegnare di più nella vita mentre la si
vive.»
Come si può essere preparati a morire?
«Facendo come i buddhisti. Ogni giorno avere un uccellino sulla spalla che ti chiede: “È oggi
il giorno? Sono pronto? Sto facendo tutto quel che è necessario fare? Mi sto comportando
come la persona che voglio essere?”»
Volse il capo a guardarsi la spalla, come se l’uccellino ci fosse davvero.
«È oggi il giorno della mia morte?» domandò. […]
«La verità è, Mitch», riassunse, «che quando si è imparato a morire, si è imparato a vivere.»
Annuii.
«Ripeto: quando si è imparato a morire, si è imparato a vivere.» Accompagnò questa frase
con un sorriso, e io compresi ciò che intendeva dire. Si stava assicurando che io afferrassi
bene quel punto, senza crearmi l’imbarazzo di chiederglielo. Faceva parte della sua grande
abilità di maestro.
Prima che ti ammalassi, gli chiesi, pensavi molto alla morte?
«No.» Sorrise ancora. «Ero come tutti. Una volta, in un momento di esuberanza, dissi a un
amico: “Sarò il vecchietto più sano che tu abbia mai conosciuto.”»
Quanti anni avevi?
«Una sessantina.»
Eri ottimista, allora.
«Perché no? Come ho detto, nessuno crede davvero di dover morire.»
Ma tutti conoscono qualcuno che è morto, aggiunsi. Perché è tanto difficile pensare di
morire?
«Perché,» spiegò Morrie, «la maggior parte di noi va in giro come dei sonnambuli. Non
sperimentiamo appieno il mondo perché siamo mezzo addormentati, intenti a far cose che
automaticamente riteniamo di dover fare.»
E affrontare la morte cambia tutto?
«Eccome. Si strappa via la roba inutile e ci si focalizza sull’essenziale. Quando ti rendi conto
che stai per morire, vedi tutto sotto una luce molto diversa.»
Trasse un sospiro. «Impara a morire e così imparerai a vivere.»
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Mitchell Albom, I miei martedì col professore, Milano, SuperPocket, 2004, pp. 88 e sgg.