4
1. Introduzione
Se due importanti giornali di teoria economica (The Economic Journal,
Novembre 1997 e Journal of Economic Behaviour and Organization,
Luglio 2001) dedicano un dibattito al tema, se viene fondata una rivista
specializzata (Journal of happiness studies) e se nasce un portale
1
, allora
non c’è alcun dubbio: la parola felicità è tornata di moda in economia
(Bruni 2002, p. 1). Becattini scrive: “ Mi potrei sbagliare, naturalmente, ma
se non vado errato una rivoluzione paradigmatica si sta, per adesso
sommessamente, marginalmente, quasi clandestinamente, preparando negli
studi economici. Una nuova economia del benessere sta insidiando il
dominio, apparentemente indiscusso, dell’analisi economica di ciò che, alla
luce del paradigma dominante, si pensa sia la realtà sociale” (2004, p. 9).
Becattini non sbagliava. Un nuovo paradigma è in corso e oggi sono molti
a credere “che la felicità debba avere ancora una volta un posto più centrale
nella scienza economica” (Dixon 1997, p. 1812)
2
. Il “paradosso della
felicità”, percepito inizialmente quasi come un fastidio dagli economisti, ha
finito per conquistare il centro dell’interesse scientifico e culturale.
In un discorso all’università della Carolina del Sud il presidente della
Federal Reserve Ben Bernanke, ha deciso di parlare dell’Economia della
felicità
3
. Dato che siamo ancora nel bel mezzo della crisi economica più
1
www.eur.nl/fsw/research/happiness è un portale, coordinato da R. Veenhoven, con un
ampio data base sull’happiness nelle diverse nazioni del mondo, bibliografia e studi.
2
Bruni L. (2004), L’economia la felicità e gli altri. Un’indagine su beni e benessere,
Città Nuova, Roma, p. 15.
3
L’economia della felicità è un filone di ricerca che, con metodo scientifico e approccio
multidisciplinare, analizza le determinanti di ciò che noi chiamiamo benessere
soggettivo e felicità individuale (Sugden 2006, p.111). L’obiettivo principale è superare
i limiti del PIL: misura principe del progresso sociale. Il reddito è una componente della
felicità, ma non è l’unica. Fra i suoi maggiori esponenti figurano: l’israeliano Daniel
Kahneman e gli italiani come Leonardo Becchetti, Luigino Bruni e Stefano Zamagni.
Tra le principali evidenze empiriche emerse da questi studi ci sono l’importanza
dell’istruzione (intesa come capacità di stare al mondo in maniera soddisfacente e
5
grave degli ultimi cinquant’anni, potrebbe sembrare una scelta frivola. In
realtà non è così. Una corrente sempre più nutrita di professori, politici e
imprenditori sta cominciando a prendere sul serio quello che i sondaggi
mostrano sistematicamente: alla gente interessa soprattutto essere felice. Il
PIL da solo non basta più. Il primo paese che ha deciso di cambiare la sua
unità di misura del benessere sociale, sostituendo il PIL con l’indice di
Felicità Interna Lorda (in inglese Gross National Happiness, GNH) è il
Bhutan
4
. Questa nuova prospettiva di contabilità nazionale non è rimasta
confinata alle pendici dell’Himalaya. Negli anni ‘90 le Nazioni Unite
propongono l’Indice di Sviluppo Umano che considera non solo il reddito
pro-capite, ma anche l’aspettativa di vita e il livello di istruzione. Con
l’esigenza di mettere a punto nuovi indicatori, alternativi o complementari
al PIL, si sono misurati negli ultimi decenni diversi gruppi di ricerca. È il
concetto di sviluppo sostenibile che assume particolare rilievo in questa
ricerca. La crescita economica di per sé non basta, lo sviluppo è reale solo
se migliora la qualità della vita in modo duraturo. Il genere umano
interagisce con la natura per poter crescere e svilupparsi, ma questo deve
avvenire entro certi limiti, alterando il meno possibile il contesto
“biofisico” globale. Vanno in questa direzione: l’Impronta Ecologica;
l’Indice di Benessere Economico e Sostenibile; l’Indicatore di Progresso
Genuino e l’Happy Planet Index.
1.1. Motivazione e obiettivi
Il concetto espresso dalla frase “la ricchezza non produce la felicità” è
dibattuto fin dai tempi antichi. Già Aristotele sottolineava che “Non è la
appagante); fattori riferiti alla personalità; fattori socio demografici (età, genere, la
religione, la salute etc.), i beni relazionali (intesi come tempo impiegato nelle relazioni
primarie, amici e famiglia) e il capitale sociale.
4
Tortorella B. (2010) “Viva l’economia della felicità”. Internazionale, n. 863, 10
Settembre. http://www.internazionale.it/viva-l%E2%80%99economia-della-felicita/
6
ricchezza il bene da noi cercato: essa, infatti, ha valore solo in quanto
“utile”, cioè in funzione di qualcos’altro” (EN, in Bruni, 2004, p. 15).
Adam Smith, fondatore dell’economia politica classica, evidenzia come “il
figlio del povero (poor man’s son) lavora giorno e notte per acquisire
talenti superiori ai suoi concorrenti, spinto dall’idea ingannevole che il
ricco sia più felice; in realtà la capacità di godere dei beni è
fisiologicamente limitata, dunque l’uomo ricco può consumare poco di più
del povero, la cui minor quantità di beni è compensata dalle minori
preoccupazioni e dalle migliori relazioni sociali mentre il ricco vive
continuamente in ansia per i suoi beni ed invecchia solo e deluso per non
aver raggiunto la felicità e per di più invidiato dai suoi concittadini” (Smith
1984, pp. 181-184). Con questa frase Smith ci ha fatto un regalo. Ci ha
svelato quello che saremo diventati. Per troppo tempo abbiamo pensato che
la felicità dipendesse solo dal livello di reddito o dai consumi e, per
assicurarcene una fetta sempre maggiore, abbiamo dedicato al lavoro una
quota sempre più alta del nostro tempo. Così facendo abbiamo sacrificato
le relazioni umane, principale fonte di felicità. Scrive Bruni (docente di
Economia Politica all’Università di Milano – Bicocca), la nostra felicità e
infelicità, il nostro ben-essere o mal-essere, dipendono anche dai beni
materiali, probabilmente dalla salute, ma soprattutto dipendono dalla
qualità dei rapporti che riusciamo a costruire con le persone che ci stanno
attorno. Non è nell’accumulo di ricchezza che si nasconde la chiave per
vivere un’esistenza serena, ma è nel nostro rapporto con gli altri. Fattore
non facile da gestire nella società contemporanea, in cui assistiamo alla
sostituzione dei rapporti umani con la ricerca ossessiva dei beni di mercato.
La carestia di felicità dovuta alla povertà relazionale, può diventare più
disastrosa e disumanizzante della carestia di cibo (Bruni 2004, p. 8).
L’importanza dell’economia della felicità è dovuta a due ragioni. Da un
7
lato vi è la consapevolezza, empiricamente documentata, che all’aumento
della ricchezza, almeno nei Paesi ad economia avanzata, non corrisponda
un parallelo aumento del benessere soggettivo; dall’altro è diffusa la
sensazione che la crescita economica, con le sue caratteristiche attuali,
possa minacciare non solo la qualità della vita individuale ma anche la
salute del pianeta. È, dunque, alle porte un possibile cambiamento di
paradigma che, partendo dalla crisi degli indicatori classici di sviluppo (il
famoso PIL), solleciti la ricerca di indicatori aggiuntivi in grado di
registrare e promuovere la qualità della vita, l’armonia della convivenza
umana e del rapporto con l’ambiente.
Questo scritto ha più scopi:
a) analizzare i recenti studi dell’Economia della felicità esponendo il
pensiero di Luigino Bruni e Stefano Zamagni;
b) dare concretezza alle riflessioni teoriche, spostando l’attenzione dal
PIL ai nuovi indicatori utilizzati per valutare il progresso sociale;
c) mostrare che il benessere non dipende solo dal reddito, ma in misura
rilevante anche da altre variabili.
La tesi è articolata come segue. Nel primo capitolo affronteremo il tema
spinoso del rapporto fra reddito, come misura del benessere di una persona,
e felicità. Gli studi sulla felicità in economia partono dal famoso
“paradosso di Easterlin”. Dallo studio della serie storica dal 1946 al 1970
negli USA, Easterlin evidenziò che all’aumento del reddito, e quindi del
benessere economico, la felicità cresce fino a un certo punto, poi comincia
a diminuire, mentre si alzano gli indici di infelicità. Ma come spiegare
questa situazione? Le ragioni risiedono principalmente in tre fenomeni. Il
primo è quello dell’adattamento. La soddisfazione che si prova quando si
acquista un nuovo bene è momentanea. Il secondo fenomeno è legato
8
strettamente al primo. Per continuare a provare soddisfazione bisogna
alzare il livello di ambizione ogni volta. Infine, troviamo il confronto con i
propri simili. Il mio benessere aumenta all’aumentare della differenza tra il
mio livello di reddito e quello del gruppo di riferimento. Se la ricchezza
non fa la felicità allora cosa rende felici? Ecco che nasce l’esigenza di
attribuire importanza alle relazioni umane, beni in cui l’adattamento e le
aspirazioni agiscono meno, come l’ambito familiare, affettivo e civile. La
più affascinante spiegazione del paradosso della felicità sembra essere
quella fornita da Bruni e Zamagni. Sopra un certo livello, possedere più
beni non aggiunge nulla, anzi sottrae. Se dedichi più tempo alla produzione
dei beni diventi più ricco, ma questo non ti consente di consumare i beni
relazionali. Da soli si può essere massimizzatori del profitto, ma non si può
essere felici. Nel secondo capitolo cercheremo di rispondere alla seguente
domanda: Il PIL è un buon indicatore per misurare il progresso delle nostre
società? Si? No? Una volta appurato che il PIL è insufficiente per misurare
il benessere di un Paese, analizzeremo alcuni indicatori nati dal dibattito sul
PIL per dimostrare che crescita economica e sviluppo non sono sinonimi.
Crescita vuol dire quantità di beni e servizi disponibili, sviluppo vuol dire
qualità di vita sociale, culturale e politica. Il terzo capitolo è dedicato
all’Indice di Sviluppo Umano, l’unica alternativa che sembra aver avuto un
relativo successo. Cercheremo poi di confrontare i risultati conseguiti dalle
Nazioni nelle classifiche dei vari indicatori per dimostrare che il ben-essere
o ben-vivere non dipende solo dal reddito, ma anche da altre variabili.
Seguiranno brevi conclusioni.