3
produttivi dei paesi membri e quindi che la moneta unica provochi
una specializzazione più di tipo intraindustriale che di tipo
interindustriale viene associata ad un aumento del grado di simmetria
all’interno della Comunità, per cui uno shock settoriale dovrebbe
colpire tutti i paesi allo stesso modo
1
.
Così, aumentando con l’euro la correlazione tra le economie dei
paesi membri, potrebbe aversi un intervento della Banca Centrale
Europea, la cui politica monetaria, propagherebbe i suoi effetti
uniformemente in tutti i paesi della Comunità.
In queste condizioni, l’intervento della Banca Centrale risulta
determinante perché il rapporto Delors e il Trattato di Maastricht
identificano la stabilità dei prezzi come obiettivo principale della
politica monetaria.
Così, pur trasferendo ad un organo comunitario le funzioni di
1
Paternò R., “L’Italia e L’UME: alcuni timori, una grande opportunità”, in
Rassegna Economica, 1996, osserva che specializzazioni simili non implicano che
sono simili anche i livelli di produttività, la qualità della produzione, le
prospettive di crescita, il posizionamento del mercato e la forza finanziaria,
4
politica monetaria, i governi nazionali manterranno la disponibilità
delle politiche di bilancio, con diverse limitazioni:
- il Trattato di Maastricht prevede che in rapporto al Prodotto
Interno Lordo (PIL) nazionale, il deficit fiscale e debito pubblico non
potranno superare rispettivamente il 3% e 60%;
- per le politiche di tassazione, vi sono vincoli che dipendono
dagli effetti che l’integrazione provocherà sulla mobilità di
lavoro e capitale.
La moneta unica peserà, così, sostanzialmente sulla capacità dei
governi nazionali di attuare politiche fiscali di stabilizzazione. Una
sfida costante dei paesi comunitari sarà raggiungere in ogni istante un
giusto equilibrio tra autonomia, disciplina e coordinamento degli
interventi fiscali.
Infine, attraverso un confronto con l’economia americana,
verificheremo gli effetti che l’integrazione dei mercati determina sulla
pertanto, uno shock in teoria simmetrico, potrebbe in pratica rivelarsi
asimmetrico.
5
specializzazione degli apparati produttivi statali e le differenze tra le
due unioni monetarie in riguardo ai meccanismi di aggiustamento a
seguito di shock asimmetrici.
L’Unione Europea presenta una minore mobilità del lavoro (a
causa di barriere culturali linguistiche) che l’euro potrà solo in parte
attenuare. Rispetto agli USA, quindi, l’U.E. è un’area valutaria meno
ottimale nell’ottica di Mundell. Ricordando che la flessibilità del
salario reale è maggiore negli USA, ci chiediamo quali aggiustamenti
sono in alternativa disponibili in Europa.
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CAPITOLO I
LA MONETA UNICA EUROPEA E LA TEORIA
DELLE AREE VALUTARIE OTTIME
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1.1 - La mobilità fattoriale di Mundell.
Mundell, McKinnon e Kenen traggono, con le loro teorie,
conclusioni diverse circa l’identificazione del criterio di delimitazione
dell’area valutaria ottima.
Per definire i confini di un’area valutaria, e stabilire fin dove
cambi fissi o moneta unica devono essere estesi, Mundell, afferma che
nell’area valutaria capitale e lavoro devono spostarsi in maniera
comparativamente maggiore che non attraverso le sue frontiere.
Questo criterio spinge a delimitare l’area fino al punto in cui
sussiste un’elevata mobilità dei fattori produttivi. Ma la “regione” che
costituisce l’area valutaria non è geografica, dovendo essa
corrispondere anche ai connotati economici di forte omogeneità
industriale e commerciale.
Per Mundell la mobilità è intraindustriale, per cui i fattori si
spostano da un impianto all’altro ma sempre all’interno della stessa
industria. Quindi per Mundell, la “regione” è “settore di attività
8
economica” e identifica, così ad esempio, una regione “industria” e
una regione “agricoltura”.
Mundell cerca di far coincidere le aree valutarie con i settori
dell’attività economica per lasciare che il tasso di cambio fluttui fra di
essi. Così, per superare le rigidità di prezzi e salari che impediscono
di avere contemporaneamente pieno impiego e stabilità monetaria, in
aree valutarie con cambi fissi, occorre modificare il sistema per
rendere i prezzi flessibili, facendo coincidere le aree valutarie con le
linee dell’attività economica.
Mundell, pur dimostrando che un sistema internazionale di
cambi flessibili è dinamicamente stabile sotto molti aspetti (quali
flussi speculativi, disciplina monetaria, costi di copertura sul mercato
a termine), evidenzia che, se la bilancia dei pagamenti è in disavanzo,
è possibile sostituire la recessione con la svalutazione, se è in surplus,
l’inflazione con la rivalutazione, così rifacendosi al vantaggio
derivante dal regime dei cambi fluttuanti.
La sua tesi si esprime attraverso un modello a due entità
9
geografiche (regioni o paesi) in cui inizialmente c’è piena
occupazione ed equilibrio della bilancia dei pagamenti; viene poi
introdotta una perturbazione che porta ad uno spostamento di
domanda dai beni dell’entità B ai beni dell’entità A.
Si parte dall’ipotesi che i salari monetari e i prezzi non possono
ridursi nel breve periodo senza causare disoccupazione e che le
autorità monetarie cercano di evitare l’inflazione. In tali condizioni,
con immobilità fattoriale tra le due entità geografiche, la riallocazione
della domanda da B ad A causa disoccupazione in B e inflazione in A.
Ma se viene permesso un aumento dei prezzi in A, il cambiamento nei
rapporti di scambio internazionali o interregionali ridurrà B di una
parte del peso dell’aggiustamento.
Tuttavia, per l’ipotesi, le autorità monetarie applicano politiche
antiinflazionistiche e di conseguenza in A vengono attuate restrizioni
creditizie, oppure, nei rapporti interregionali, la banca centrale non
pone rimedio alla disoccupazione della regione B aumentando
l’offerta di moneta.
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In entrambi i casi è necessaria una riduzione reale di B e, se a ciò
non si giunge con un cambiamento dei rapporti di scambio, perché in
B i prezzi non diminuiscono e in A il loro aumento viene contenuto,
ci si deve giungere con una contrazione della produzione e
dell’occupazione in B. Ciò implica che, con cambi fissi o moneta
unica tra A e B, la recessione in B può essere evitata solo se lasciamo
invariata l’inflazione in A. Viceversa, se le due entità geografiche non
formano un’area valutaria, per cui tra di esse sussistono cambi
flessibili, la moneta di B si deprezza rispetto ad A e si ottiene un
peggioramento del cambio tra le due aree. Il paese B rende più
competitive le proprie esportazioni rispetto ad A senza che
quest’ultimo veda aumentare l’inflazione. Così la fluttuazione del
tasso di cambio dà flessibilità ai rapporti di cambio e consente ad A di
sostituire l’inflazione con la rivalutazione e a B di sostituire la
recessione con la svalutazione. Ma, se A e B adottano cambi flessibili
perché tra di loro i fattori non sono mobili, Mundell osserva che le
due entità geografiche non sono necessariamente due aree valutarie
11
ottime perché l’area valutaria coincide con il concetto di regione e i
confini di quest’ultima non sempre rispecchiano quelle delle aree
preesistenti.
La regione di Mundell ha una forte mobilità fattoriale al suo
interno. Di conseguenza essa deve essere coestensiva con un’area
omogenea dal punto di vista produttivo e può quindi essere definita
come “un complesso omogeneo di produttori che usano la stessa
tecnologia, si trovano di fronte ad una stessa curva di domanda e
prosperano o patiscono insieme al mutare delle circostanze”
2
.
Pertanto, se A e B, considerate singolarmente, non rappresentano
un dato settore dell’attività economica, cioè se al loro interno è
presente più di un settore o se sono parte di una più vasta zona
monoproduttiva, le aree valutarie non vanno delimitate in
corrispondenza dei loro confini.
Ipotizzando infatti che esse siano interamente suddivise in due
2
Kenen P.B., “La teoria delle aree monetarie ottime: una nuova interpretazione”
(1969), pag. 117.
12
zone, industriale ad Est ed agricola ad Ovest, Mundell mostra che i
cambi flessibili vanno posti tra Est ed Ovest, e non tra A e B. In tal
modo, un aumento di produttività dell’industria determina un eccesso
di offerta industriale e un eccesso di domanda agricola, provocando,
sia in A che in B, una riallocazione della domanda da Est ad Ovest e
implicando spinte inflazionistiche e recessive, rispettivamente nella
zona agricola e industriale. Ma, se tra A e B esiste un cambio
flessibile che mantiene in equilibrio le loro bilance dei pagamenti, tra
le due zone in cui le entità geografiche sono suddivise non opera
alcun tasso di cambio, e nell’area industriale la disoccupazione può
essere contenuta solo nella misura in cui nell’area agricola si accetta
che l’inflazione aumenti il prezzo dei prodotti agricoli rispetto a quelli
industriali.
Se, invece, abbiamo un mutamento asimmetrico di produttività
tra i due settori, uno di essi esporta tanto da provocare un forte
apprezzamento, risultandone una perdita di competitività per le
esportazioni dell’altro settore; si ripresenta così, all’interno dell’area
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valutaria, un problema di riallocazione intersettoriale della domanda.
E’ così evidente come la flessibilità del cambio non possa
risolvere gli squilibri interni di aree a scarsa mobilità intersettoriale
delle risorse, e che tali squilibri derivano da un’erronea delimitazione
delle aree valutarie: è tra i vari settori dell’attività economica che la
flessibilità dei cambi consente l’operare di un sistema di prezzi
relativi in grado di trasformarsi seguendo le trasformazioni della
domanda, per cui è a livello settoriale che Mundell delimita l’area
valutaria ottima.
Esaminiamo ora i limiti superiori al numero delle monete e
delle aree valutarie ottime.
La mobilità fattoriale di un’area valutaria aumenta al ridursi
della dimensione perché il ridimensionamento accresce l’omogeneità
produttiva del tessuto industriale. A limite, con aree valutarie sempre
più piccole, in modo da delimitarne i confini sulla base della regione
monoproduttiva, si ha che il connotato geografico diventa via via
meno rilevante perché all’estremo l’area coincide con gli impianti
14
spazialmente dispersi di uno stesso settore.
In altri termini, se si vogliono perseguire gli obiettivi della
stabilità interna, quanto maggiore è il numero di aree valutarie in cui
il mondo è diviso, tanto più questi obiettivi sono raggiungibili con la
variabilità dei cambi. Mundell, quindi, afferma che “ciò può
richiedere una definizione così restrittiva di regione che si debba
considerare ogni sacca di disoccupazione dovuta ad immobilità del
lavoro come tante regioni separate, ciascuna delle quali dovrebbe
avere una moneta separata”
3
.
E’ questa l’implicazione della tesi mundelliana che spinge
l’autore a formulare tre considerazioni sui limiti superiori al numero
di monete e di aree valutarie:
1) il frazionamento valutario implica un aumento dei costi di
valutazione e di scambio delle monete; “la moneta deve
essere qualcosa di comodo e ciò restringe il numero ottimo
di monete, tant’è che, sotto questo aspetto, l’area valutaria
15
ottima è il mondo, a prescindere dal numero di regioni che
lo compongono”
4
;
2) il frazionamento monetario rende i mercati valutari più
deboli e quindi più esposti agli attacchi speculativi,
conducendo ad una situazione in cui un solo speculatore
potrebbe influenzare il tasso di cambio di mercato. Così
occorre evitare che si sviluppino attività speculative di tipo
destabilizzante;
3) secondo la tesi a favore dei cambi flessibili una comunità
non accetta riduzioni del salario reale attuate con tagli alle
retribuzioni o aumenti del livello dei prezzi, ma le accetta se
avvengono mediante la svalutazione. In altri termini si
assume che i sindacati effettuino rivendicazioni salariali
senza tener conto dell’aumento dei beni importati,
sussistendo per questo aspetto l’ipotesi che i lavoratori siano
3
Mundell R.A., “Una teoria delle aree valutarie ottime” (1961), pag. 96.
4
Mundell, op.cit., (1961), pag. 97.
16
soggetti ad un processo d’illusione monetaria.
Ma Mundell ritiene che il grado di illusione monetaria richiesta
ai lavoratori sia tanto più grande quanto maggiore è la proporzione tra
le importazioni e il consumo totale, ponendosi così, un limite al
frazionamento monetario perché detta proporzione è inversamente
legata alla dimensione dell’area valutaria. Pertanto, essendo il grado
necessario di illusione monetaria tanto più grande quanto più piccola
è l’area valutaria, si verifica che nelle aree meno estese risulta
improbabile poter contare di variare il cambio con semplici
manipolazioni del cambio nominale.
“Si può ammettere resistenza di un certo grado di illusione
monetaria nel processo di contrattazione tra sindacati e imprese: ma
non si può supporre un grado di illusione monetaria così elevato
come dovrebbe esistere in aree valutarie piccole”
5
.
Passiamo ora ad un esame critico del criterio della mobilità
fattoriale.