Introduzione
Alla data dell’emanazione della legge Galli, la quale ha fornito un’impostazione per un
nuovo sistema di regolazione e organizzazione dell’industria, il settore idrico italiano
presentava una forte frammentazione delle gestioni, carenze infrastrutturali e inefficienze in
parte attribuibili ad una gestione (prevalentemente pubblica) inappropriata. Nonostante
l’evoluzione registrata nell’ultimo ventennio, alcuni problemi rimangono, e la strada da
percorrere verso l’implementazione di modelli di regolazione e gestione opportuni sembra
ancora lunga. Il presente lavoro tenta di approfondire alcuni aspetti problematici connessi ad
alcune scelte regolatorie riguardanti la ripartizione delle competenze fra diversi organismi di
regolazione e gestione (con particolare riferimento alle scelte in materia di politiche di
investimento e relativa remunerazione), le implicazioni economiche delle differenti strutture
proprietarie, talune scelte di politica tariffaria anche alla luce delle esperienze effettuate in
altri paesi europei.
Tra le questioni che ancora non hanno trovato compiuta soluzione nel settore idrico
italiano rimane certamente il problema delle carenze infrastrutturali. La rete idrica italiana
necessita di consistenti investimenti sia per la costruzione di nuove opere sia per la
manutenzione e/o sostituzione delle infrastrutture esistenti, in molti casi caratterizzate da
condizioni di obsolescenza e cattiva funzionalità. Ciò vale sia per la rete di acquedotto sia
per la rete fognaria e gli impianti di depurazione. Diverse regioni italiane sono in ritardo
nell'adempimento della direttiva europea 91/271/CEE sul trattamento delle acque reflue
urbane. Alcuni ambiti non dispongono ancora di impianti di trattamento adeguati in
determinate zone, e dovranno pertanto accelerare gli investimenti per adeguarsi quanto prima
agli obblighi ambientali, pena la condanna dello Stato italiano da parte della magistratura
europea al pagamento di cospicue penali.
Il modello di regolazione italiano, definito dalla legge Galli e dalle successive
modifiche alla normativa di settore, prevede che la pianificazione degli investimenti sia
decisa dal regolatore locale (Autorità d’ambito) mentre l’attuazione delle politiche di
investimento sia compito del soggetto responsabile della gestione del servizio idrico
integrato (Gestore unico d’ambito). Uno studio del Coviri (Comitato per la vigilanza sulle
risorse idriche) sull’attuazione dei piani di investimento in alcuni ambiti italiani, pubblicato
nel maggio del 2008, ha messo in luce una generale incapacità dei gestori a realizzare
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compiutamente gli interventi nei tempi previsti. Dalle elaborazioni sui dati raccolti, relativi
ad alcuni ambiti italiani, è emerso come vi sia un’ampia disparità tra valori previsti ed
effettivamente realizzati: gli investimenti effettuati sono stati in media circa la metà del
valore pianificato. Quali possono essere le ragioni di tale scostamento? Un’ipotesi avanzata
nella relazione dal Comitato è che le previsioni effettuate dalle autorità d’ambito fossero
improntate a un eccessivo ottimismo. Tuttavia il nostro parere è che la causa del problema
non vada ricercata unicamente in un’eventuale inadeguatezza dell’attività di pianificazione
da parte del regolatore, ma che vi siano altre motivazioni all’origine dell’underinvestment,
imputabili, tra l’altro, ad alcune caratteristiche strutturali del rapporto di regolazione
considerato.
Nel primo dei tre saggi in cui si articola il presente lavoro vengono investigate le
possibili motivazioni economiche dell’underinvestment, alla luce dell’articolato dibattito tra
gli economisti dell’ultimo ventennio circa l’influsso dei modelli di regolazione sulle scelte di
investimento delle utilities. I modelli di regolazione possono essere descritti come una
particolare tipologia di rapporto di agenzia in cui il principale, ovvero il regolatore, delega la
produzione di un determinato bene o servizio a un agente (l’impresa) nelle modalità e in
cambio di una controprestazione convenuta tra le parti. Quando le politiche di prezzo sono
decise dal regolatore dopo che l’impresa ha già effettuato delle spese irredimibili può sorgere
un problema di “hold-up” (espropriazione degli investimenti). Ciò avviene quando la
determinazione del prezzo deve essere effettuata in funzione di due contrastanti obiettivi:
incentivare gli investimenti e difendere gli interessi dei consumatori. Generalmente il
benessere dei consumatori è inversamente correlato al livello dei prezzi. In mancanza di altri
strumenti, quali i trasferimenti pubblici, l’incentivazione degli investimenti richiede invece
un prezzo elevato.
Quando l’impresa teme l’hold up da parte del regolatore gli incentivi ad investire sono
deboli e quindi può sorgere un problema di underinvestment, le cui cause principali sono:
1. La non recuperabilità del capitale investito, questione particolarmente significativa
nell’industria idrica. Gli investimenti in capitale in tutte le fasi della filiera sono infatti
caratterizzati da elevata specificità: per il prelievo e il trattamento di nuova risorsa, il
trasporto e l’approvvigionamento all’utenza finale (nelle fasi di adduzione e
distribuzione) e la successiva raccolta e depurazione dei reflui e delle acque meteoriche
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sono necessarie infrastrutture e impianti particolari che difficilmente possono essere
riconvertiti o utilizzati in altre attività.
2. La divergenza di obiettivi di regolatore e impresa e, in particolare, il minor peso che il
principale attribuisce ai profitti dell’agente. Generalmente un regolatore benevolente è
interessato a massimizzare il benessere della collettività, e in particolare dei cittadini-
utenti del servizio idrico e dei contribuenti, mentre l’impresa ha come obiettivo
primario la massimizzazione del profitto. L’hold-up da parte del regolatore può avere
motivazioni anche virtuose, quali il trasferimento alla collettività e/o all’utenza dei
benefici dell’investimento.
L’obiettivo dello studio non si limita alla ricerca delle cause più probabili
dell’underinvestment, ma anche degli eventuali correttivi che possono essere implementati
per scongiurare il rischio di hold-up e quindi indurre le imprese a incrementare gli
investimenti effettuati. Vedremo come gran parte dei correttivi all’underinvestment
consistono, in ultima analisi, in tentativi di conciliazione degli obiettivi di regolatore e
impresa, e quindi in strumenti per promuovere la mutua cooperazione. Vedremo altresì che il
successo di tali strumenti dipende fortemente dal contesto informativo, e in particolare che in
alcuni casi la possibilità per il regolatore di indurre l’impresa ad investire al livello
socialmente efficiente è subordinata all’assenza di asimmetrie informative tra agente e
principale sulle condizioni di produzione e gestione del servizio, incluse anche l’efficienza
ed efficacia delle politiche di investimento.
Purtroppo, la condizione in cui attualmente si trovano le autorità di regolazione è di
sostanziale deficit informativo nei confronti dei soggetti gestori. Come rilevato dallo studio
di settore effettuato dal Coviri (2008): «nel funzionamento del settore idrico italiano si
registra una asimmetria di informazione, conoscenze e competenze tra il committente
istituzionale e il gestore. Il risultato, riscontrabile in molte situazioni, è che le istituzioni si
sono trovate a non riuscire ad esercitare adeguatamente il loro ruolo di governo». Come
emerge chiaramente dalle riflessioni del Comitato, l’esistenza di un contesto informativo
“ostile” al regolatore non solo rappresenta un ostacolo rilevante all’incentivazione degli
investimenti, ma rischia di compromettere seriamente il funzionamento dell’intero sistema di
regolazione.
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Le inefficienze dei modelli di regolazione riconducibili alle asimmetrie informative tra
agente e principale sono sempre state tra i principali argomenti a sostegno della produzione
pubblica dei servizi di interesse generale. D’altra parte, la produzione pubblica del servizio
consente di superare il problema informativo, ma dà luogo ad altri tipi di inefficienze, come
sarà mostrato in seguito. Alla luce di queste considerazioni, l’obiettivo del secondo saggio è
analizzare vantaggi e svantaggi di una metodologia alternativa di offerta dei servizi pubblici,
ossia l’affidamento a un’impresa a capitale misto pubblico-privato. L’impresa mista può
potenzialmente rappresentare una soluzione soddisfacente al problema informativo in quanto
il regolatore esercita la propria funzione di supervisore dell’attività e di garante dell’interesse
pubblico in una posizione di insider, con la possibilità di avere un accesso diretto alle
informazioni.
Occorre inoltre considerare il benefico effetto che l’ingresso dei capitali e delle
capacità imprenditoriali del settore privato possono apportare alla gestione del servizio. Non
si vuole qui sostenere la tesi della superiorità del privato sul pubblico, opponendosi al
principio – sancito dall’Unione Europea come dalla teoria economica – di neutralità
dell’assetto proprietario dell’erogatore di servizio pubblico. D’altra parte, è noto come
l’ingresso di capitali privati nella governance dell’impresa può potenzialmente costituire un
valido stimolo verso una maggiore innovazione ed efficienza tecnico-gestionale, competenze
che i privati sono maggiormente incentivati a potenziare, in quanto perseguono il massimo
profitto.
Il grado di efficienza gestionale conseguibile da un’impresa mista dipende, tra gli altri
fattori, dalla modalità in cui sono definiti i rispettivi ruoli del partner privato e del soggetto
pubblico. Di solito nelle imprese di servizi il socio privato si occupa della gestione mentre il
partner pubblico ha il ruolo di controllore e supervisore della gestione, ossia di regolatore
interno all’impresa. Questa divisione dei ruoli permette al partner pubblico di beneficiare
delle competenze del soggetto privato, e gli consente altresì di avere accesso diretto alle
informazioni di gestione, indispensabili nell’attività di regolazione.
L’ipotesi avanzata in questa sede è pertanto che il coinvolgimento del settore pubblico
e privato nella gestione del servizio possa rappresentare una valida soluzione per migliorare
non solo l’efficienza nella produzione e gestione del servizio, ma anche il funzionamento
dell’intero sistema di regolazione. Tale ipotesi non può ancora essere opportunamente
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verificata in quanto, data la recente storia degli affidamenti italiani, non vi è ancora una
disponibilità di dati adeguata per porre in essere mirate analisi empiriche. Tuttavia, questo
può rappresentare uno spunto interessante di ricerca nel prossimo futuro.
Infine, l’ultimo lavoro affronta un altro tema chiave della regolazione dei servizi idrici,
ovvero gli effetti delle scelte di politica tariffaria sull’efficienza produttiva e sull’allocazione
della risorsa. In questa introduzione è il caso di soffermarsi sulle conclusioni di quest’ultimo
saggio. Al di là della ricerca di modelli tariffari ottimali il problema principale che
concretamente si presenta è spesso quello della fuoriuscita dalle criticità derivanti dai
fenomeni di underpricing ereditati dal passato, le cui motivazioni sono molteplici:
• la prima motivazione va ricercata nel fatto che l’acqua è stata per lungo tempo
considerata “bene di merito” che lo Stato dovrebbe garantire a tutti i cittadini in
quantità adeguate alla soddisfazione dei bisogni primari;
• vi sono poi motivazioni strettamente economico-contabili individuate da Mann
(1993) in errori di calcolo dei costi e nell’utilizzo dei costi medi come parametro di
riferimento per la determinazione della tariffa: «l’underpricing dei servizi idrici è
dovuto a diversi fattori, tra i quali rivestono particolare importanza l’utilizzo dei costi
contabili e dei costi storici (piuttosto che dei costi presenti e futuri) nel processo di
determinazione delle tariffe, e l’utilizzo del costo medio (piuttosto che marginale o
incrementale) come parametro di base per il calcolo del prezzo»;
• vi sono infine motivazioni di ordine politico.
L’underpricing ha inviato segnali distorti ai consumatori: le tariffe, non segnalando la
reale scarsità della risorsa, hanno contribuito alla diffusione di percezioni errate, ad esempio
alla convinzione che la disponibilità di acqua di ottima qualità sia abbondante. In sostanza la
domanda è diventata insensibile ai costi della risorsa in quanto prezzi artificialmente bassi
non ne rispecchiano i costi reali.
Negli ultimi decenni la tendenza è mutata sensibilmente. Come osserva Rogers (2002):
«nel passato la maggior parte delle città e delle aziende di servizi idrici mondiali hanno
distribuito acqua (quasi) a titolo gratuito ai loro utenti, in quanto l’acqua era una risorsa
relativamente poco costosa e ampiamente disponibile. Ma oggi, poiché il servizio è richiesto
da comunità sempre più numerose, l’unico modo per assicurare che tutti abbiano accesso a
questo bisogno primario è razionalizzare l’utilizzo della risorsa. E probabilmente il modo
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migliore per garantire un adeguato utilizzo della risorsa è assegnare un prezzo all’acqua, e
costruire appropriate strutture tariffarie per soddisfare i differenti obiettivi sociali, politici ed
economici nelle diverse situazioni».
Dall’analisi comparata delle scelte di politica tariffaria effettuate in Germania, Francia e
Spagna emergono indicazioni di una crescente consapevolezza,in tutti e tre i paesi, della
necessità di cominciare a considerare l’acqua una risorsa scarsa. Tuttavia le politiche in atto,
non solo nei paesi considerati ma in tutte le economie caratterizzate da un avanzato stadio di
sviluppo, sono ancora lontane dal conformarsi adeguatamente a tale necessità.
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I. MODELLI DI REGOLAZIONE E INCENTIVI ALL’INVESTIMENTO
I. 1. Introduzione
L’emanazione della legge Galli ha dato inizio ad un periodo di intensa riforma
dell’organizzazione e della gestione dei servizi idrici in Italia. Tra gli obiettivi principali del
provvedimento vi era il superamento della precedente frammentazione gestionale tramite
l’individuazione di una nuova dimensione minima, l’Ambito territoriale ottimale (Ato), nella
quale il servizio deve essere organizzato e gestito a livello integrato.
La nuova normativa ha stabilito la separazione istituzionale e funzionale tra la
gestione, affidata al Gestore unico d’ambito, e le attività di regolazione, pianificazione e
controllo relative alla gestione medesima, che sono compito dell’Autorità d’ambito.
L’Autorità d’ambito viene istituita dai rappresentanti degli enti locali (Regioni, Province,
Comuni) la cui area di giurisdizione rientra nel territorio dell’Ato, per l’esercizio delle
funzioni affidatele dalla legge Galli. Tra i compiti dell’autorità rientrano: effettuare la
ricognizione della dotazione infrastrutturale dell’ambito, redigere il Piano d’ambito e
designare il Gestore unico con le modalità previste dalla legge. La ricognizione consiste
nella valutazione delle reti e delle opere comprese nel territorio dell’ambito e comprende
altresì la verifica della loro funzionalità e condizione di manutenzione. I dati raccolti nella
ricognizione sono utilizzati per determinare le esigenze di investimento per la costruzione di
nuove opere e per l’adeguamento delle infrastrutture esistenti agli standard minimi previsti
dalla legge nazionale e europea. La pianificazione degli investimenti viene effettuata nel
Piano d’ambito, che rappresenta lo strumento fondamentale di programmazione tecnica,
economica e finanziaria del servizio idrico integrato.
Le ricognizioni effettuate nei diversi ambiti italiani hanno messo in luce la condizione
di inadeguatezza in cui si trovavano (e in taluni casi si trovano tuttora) gran parte delle
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infrastrutture idriche italiane, a causa soprattutto della riduzione degli investimenti nel
periodo precedente la riforma e nei primi anni successivi all’emanazione della Galli. Uno
studio dell’Istat del 2000 ha riscontrato un andamento variabile degli interventi pubblici nel
settore: dopo un periodo di intensa attività (ventennio 1970-1990), in cui sono stati effettuati
elevati investimenti per l’ampliamento delle reti di adduzione, distribuzione e fognatura e
per la costruzione di nuove infrastrutture, gli interventi hanno subito una netta contrazione
nei quindici anni successivi. L’ammontare degli investimenti nel settore è stato
progressivamente ridotto, passando da un livello complessivo annuo di 2313 miliardi di euro
nel 1985 ai 735 del 2000 (Istat 2000). Dall’esame della dotazione infrastrutturale è quindi
emersa la necessità di effettuare ingenti investimenti per la costruzione di nuove
infrastrutture e per la manutenzione delle opere esistenti, come risulta dai piani d’ambito
approvati. I dati più recenti di cui disponiamo sul livello degli interventi pianificati dalle
Autorità d’ambito sono contenuti nella “Relazione annuale al parlamento sullo stato dei
servizi idrici” del Coviri (Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche) relativa
all’anno 2007 e nel “Rapporto sullo stato dei servizi idrici” pubblicato dallo stesso Comitato
nel marzo 2008. Nel rapporto e nella relazione è analizzato il fabbisogno di investimenti
utilizzando i dati contenuti in 58 piani d’ambito approvati da 53 autorità d’ambito italiane.
L’ammontare degli investimenti previsti nei piani ammonta a 28826 milioni di euro, che
verranno utilizzati nei prossimi venti anni circa1 prevalentemente per la costruzione di nuove
opere e per la manutenzione straordinaria (sostituzione parti obsolete) delle infrastrutture
esistenti. Tramite la proiezione del dato sulla popolazione servita il Comitato ha anche
calcolato una stima del fabbisogno di interventi per tutti i 92 ambiti italiani, che ammonta a
45714 milioni di euro, dei quali il 50% circa finanzierà la manutenzione ordinaria e
straordinaria della rete di acquedotto, mentre il 34% circa verrà assorbito dal servizio di
fognatura e il restante 20% sarà destinato al servizio di depurazione. La presente stima del
fabbisogno complessivo di investimenti è inferiore sia a quella effettuata in precedenza dallo
stesso Comitato, che ammonta a circa 52 miliardi di euro (Coviri, 2004), sia al valore
riportato nell’ultima edizione del Blue Book, circa 66,5 miliardi di euro (ANEA-Utilitatis,
1
. Si tratta di una media ponderata degli orizzonti temporali previsti dai 58 piani analizzati, dei quali la maggior
parte è di medio-lungo periodo e ha una durata dai 20 a 30 anni. Alcune autorità d’ambito appartenenti a zone
della Liguria, Lombardia, Emilia Romagna e Marche hanno invece realizzato piani di breve periodo, il cui
orizzonte temporale è dell’ordine dei 3 anni.
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2008). La discrepanza tra le stime del Coviri e quelle di ANEA-Utilitatis sono in parte
imputabili alla diversità dei campioni utilizzati.
L’analisi realizzata dal Coviri (2008) prende in esame non solo gli investimenti ancora
da effettuare, ma anche quelli già realizzati dall’avvio della riforma al 31 dicembre 2006. La
percentuale di realizzazione dei piani di investimento è stata ottenuta confrontando
l’ammontare degli interventi eseguiti con il valore programmato nei singoli piani e negli
eventuali aggiornamenti. Dalle elaborazioni del Coviri sui dati raccolti è emerso come vi sia
un’ampia disparità tra valori pianificati e realizzati: gli investimenti effettuati in un orizzonte
temporale medio di circa 3 anni sono stati 2147 milioni di euro, pari al 49% del valore
pianificato (4381 milioni). Pur escludendo dal calcolo il dato relativo all’ambito pugliese,
che presenta una percentuale di realizzazione particolarmente bassa (9%), il rapporto
previsioni/investimenti effettuati non supera il 64%. Quali possono essere le ragioni di tale
scostamento? Un’ipotesi avanzata nella relazione dal Comitato è che le previsioni effettuate
nei piani d’ambito fossero improntate a un eccessivo ottimismo. Un’ipotesi più interessante
per l’economista è che le imprese che gestiscono il servizio abbiano difficoltà a realizzare gli
investimenti previsti anche a causa del peculiare modello di regolazione del settore.
L’influsso della regolazione sulla politica di investimento dell’impresa è una questione
che è stata ampiamente dibattuta dagli economisti nell’ultimo trentennio. I modelli di
regolazione possono essere descritti come una particolare tipologia di rapporto di agenzia in
cui il principale, ovvero il regolatore, delega la produzione di un determinato bene o servizio
a un agente (l’impresa) nelle modalità e in cambio di una controprestazione convenuta tra le
parti. Generalmente gli obiettivi dell’agente e del principale non coincidono: un regolatore
benevolente è interessato a massimizzare il benessere della collettività, e in particolare dei
cittadini-utenti del servizio idrico e dei contribuenti, mentre l’impresa ha come obiettivo
primario la massimizzazione del profitto. La divergenza di obiettivi tra regolatore e impresa
ha diverse conseguenze sulla politica degli investimenti, specie nelle network industries
come i servizi idrici, dove gli investimenti sono in gran parte spese irredimibili (sunk costs)
o caratterizzati da elevata specificità, e pertanto difficilmente recuperabili o riconvertibili in
altri settori. Quando la spesa per investimenti si configura come “sunk cost”, il regolatore
non ha incentivi a rimborsare la spesa una volta sostenuta, per cui l’impresa, anticipando il
comportamento opportunistico del regolatore, non effettuerà l’investimento salvo che non sia
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prevista un’adeguata e credibile forma di remunerazione. I modelli di regolazione che
stabiliscono ex ante il compenso dell’impresa sono però poco credibili (in quanto il
regolatore non è incentivato a corrispondere la remunerazione pattuita una volta che
l’investimento è stato effettuato) e soggetti al problema informativo. Laffont e Tirole (1993)
hanno dimostrato che, in presenza di informazione perfetta e simmetrica tra il regolatore e
l’impresa sui costi e sull’efficacia ed efficienza dell’investimento, il regolatore può indurre
l’impresa a investire al livello socialmente ottimo mediante l’offerta di un contratto a prezzo
fisso. Come vedremo, in questo caso il regolatore delega ogni decisione all’impresa che
effettua l’investimento in cambio di una remunerazione stabilita ex ante. Il problema del
modello è che il risultato ottenuto (livello di investimenti socialmente ottimo) è subordinato
alla presenza di condizioni molto restrittive che non rispecchiano la realtà. In primo luogo,
l’ipotesi di perfetta informazione è irrealistica: l’impresa, in quanto direttamente coinvolta
nel processo di produzione, è presumibilmente più informata del regolatore sulla natura dei
costi di produzione e investimento. Il modello si fonda inoltre sull’assunzione che
l’investimento sia contractible, ossia che ogni sua dimensione possa essere adeguatamente
determinata e descritta in un contratto e verificata da una terza parte in caso insorgano
controversie sull’adempimento. Nella realtà ci sono degli aspetti che possono essere
specificati in un contratto, quali la spesa monetaria, ed altri che non possono essere descritti
ed accertati quali la dimensione qualitativa.
Laffont e Tirole (1993) considerano anche il caso in cui l’investimento non sia
contractible e vi sia asimmetria informativa tra il regolatore e l’impresa sul costo e/o
sull’effectiveness (effetto sulla funzione di produzione) della politica di investimento. Come
verrà spiegato in seguito, in tali casi per indurre l’impresa a investire a un livello il più
possibile vicino a quello ottimale occorre che il meccanismo di regolazione sia disegnato
seguendo criteri opportuni, e preveda una determinata misura di ripartizione dei costi tra
impresa e regolatore o che una parte dei costi sia trasferita all’utenza nella determinazione
della tariffa. Vedremo che, salvo casi particolari, l’investment sharing (ripartizione dei costi
dell’investimento tra l’impresa e l’utenza) ha come effetto principale che il livello di
investimento scelto dall’impresa è inferiore a quello ottimale (underinvestment). Il livello
subottimale dell’investimento è dovuto, tra gli altri fattori, al comportamento opportunistico
del regolatore e dell’impresa. Salant (1995) osserva che quando non vi sono garanzie che le
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